La caduta – Racconto di Nicola Argenti
Non era chiaro anche solo chi o cosa fosse, dapprima se un essere umano, poi se uomo o donna, ragazzo o ragazza. La forma non si distingueva, il genere non era chiaro, l’età non era chiara, gli intenti sì, quelli erano chiarissimi.
Aveva passeggiato per tutta la giornata avanti e indietro sulla cima di quell’unico grattacielo del quartiere nuovo ed era quello il solo isolato che alla fine dei lavori – secondo il lungo, elaborato e tanto discusso progetto urbanistico – avrebbe avuto dei grattacieli. L’importanza di quell’ampliamento la si poteva dedurre dal tempo che ci si stava impiegando e infatti quel palazzo così alto e così esclusivo non solo aveva già ben piantato le sue radici nel cemento bollente, come bastione contro la periferia che cavalcava selvaggia verso il confine conla società civile, ma era anche completamente sprovvisto degli ultimi cinque piani e di vero e proprio tetto, quindi in buona sostanza, ancora da completare, ma comunque già abitato da circa otto anni.
Appartamenti grandi e piccoli, modificati – talvolta con qualche abuso – e affittati o venduti e rivenduti a nuovi inquilini. Già si vedevano i primi segni di usura che erano, prima ancora, segni di una pessima edilizia, ma d’altronde nessuno si aspettava un capolavoro architettonico nonostante le idee pionieristiche. Opinione comune era che gran parte delle risorse fossero state destinate alle vertiginose parcelle di quell’architetto olandese e il resto devoluto agli Ingegneri del Comune, tutte persone diligenti, tutte persone preparate, tutte buone forchette anche, a quanto pare. Io li chiamavo gli ingenieri, viste le abilità mostrate nel corso degli anni.
Ad ogni modo: il palazzo resisteva seppur malandato e la vita brulicava al suo interno e tutto era semplice così come lo descrivo in poche parole. Nulla di più. Non fosse stato per quell’essere di cui non si sapeva molto, neanche il sesso, che proprio quel giorno si aggirava su quella bozza di tetto che era la sommità del grattacielo, passeggiando ancora avanti e indietro. Sembrava fumasse ma potevano benissimo essere le nuvole che, a quell’altezza, gli entravano direttamente in bocca per uscire da naso e orecchie. D’altronde non si capiva nulla dalla strada, figuriamoci un dettaglio di quel tipo.
Un’intera mattinata a temporeggiare, creando aspettative solo spostandosi da un angolo all’altro del cornicione di quello che veniva considerato il lato frontale – ovviamente quello che dava sulla grande strada a quattro corsie – la via di fuga verso il centro, Viale Mississippi. Dettaglio questo che va specificato perché quel palazzo era identico su tutti e quattro i lati e su ognuno infatti c’era uno stesso portone di ingresso in legno a due ante, con richiami allo stile liberty e con maniglioni in ferro battuto e sulle pareti, a salire, incasellate a regola d’arte, tutte le finestre delle abitazioni. Dietro i colossali portoni, lunghi corridoi lastricati di marmo bianco screziati con venature grigie e nere che poi confluivano tutti in una enorme scala centrale con annessa la prodigiosa colonna ascensori, svariati montacarichi e un gigantesco piatto citofono dorato, le cassette della posta e tutte le finestre sulla corte interna, dal primo fino al 228esimo piano. Ogni lato del palazzo si affacciava su un viale alberato con fughe di platani distanziati di sei metri l’uno dall’altro, a perdita d’occhio e l’unica differenza era – appunto – la vista nord sullo straripante Viale Mississippi. Un palazzo atipico per quell’isolato e per tutto il quartiere e sì, decisamente alto.
La figura si gettò oltre la balaustra. Iniziò dunque quella lunga caduta che nonostante tutto si sarebbe potuta concludere in termini di pochi secondi e invece sembrò non finire mai. Vi anticipo che invece finirà, ma il tempo che impiegò – o la percezione che si ebbe di quest’ultimo – fu sicuramente anomalo.
Quell’ombra scendeva giù di filato e solo ogni tanto appariva diversa da quello che per tutta la durata sembrò solo un drappo svolazzante, malamente illuminato dalla luce proveniente da qualche appartamento. Solo qualcuno di questi era realmente abitato. L’ombra, in quella lenta, indolente eppure rapida discesa, poteva vedere dentro ogni locale e osservarne, seppur in modo approssimativo, le vicende che si svolgevano all’interno. Ebbe da subito l’impressione che ogni scena fosse una rappresentazione organizzata e programmata, tanto da risultare in alcuni casi quasi finzione teatrale, invece era tutto vero, autentico e dunque, quando fosse stato disgustoso, ad esempio, sarebbe stato realmente disgustoso. Insomma, non vi erano artifici, era tutto esattamente così come lo si vedeva.
Al 215esimo piano vide, attraverso la finestra lunga e orizzontale di un soggiorno, un giovane adolescente dal ciuffo nero, gonfio pomposo e lo sguardo vitreo e quasi del tutto fisso in avanti. Quasi del tutto fisso, se non fosse stato per qualche impercettibile increspatura della pelle a formare quelle premature rughe d’espressione attorno agli occhi che tradivano un’imperfezione di quell’apatia, un odore di bruciato, un surriscaldamento. L’accenno di un cipiglio pericoloso. Le mani si muovevano convulse su un dispositivo collegato senza fili con il televisore, posto a pochi metri da lui e manteneva le gambe distese sopra il padre che aveva assunto la nota posizione del tavolino da caffè. Sbottò poi con un prepotente urlo indirizzato alla madre, farfugliando qualcosa che tra il rumore del vento e lo spessore dei vetri non fu chiaro ma ne erano evidenti il livore e l’arroganza, evidenziati dalle vene ingrossate turgide e violacee sul collo e soprattutto l’arteria temporale sulla tempia destra che sembrava davvero voler esplodere. Sempre il rampollo ogni tanto imprecava e allo stesso tempo, con eccellente sincronismo, sollevava una gamba sbattendo il tallone sulla schiena del tavolino. Era sorridente quel tavolino ma non felice. D’altronde ci si era messo da solo in quella posizione e ognuno porta la sua croce. Il precipitare riprese velocità e via verso gli altri appartamenti.
E, a proposito di croci, interessante fu quanto vide al 198esimo piano, appartamento ad angolo. Crocifissi appesi su ogni parete e di ogni grandezza. Alcuni così enormi da non poter essere fissati al muro, restando dunque appoggiati in diagonale, in equilibrio, tra la parete e il pavimento. Altri minuscoli che sembravano teste di chiodo e invece non lo erano. Una luce soffusa abbracciava l’ambiente e il Sig. Ennio stava al centro, seduto su una vecchia sedia di legno, contemplando quel panorama così evocativo. Anche in quell’alcova intima, il Sig. Ennio manteneva il cappello borsalino ben saldo in testa, così elegante e ricercato – color tortora a tesa media, con corona alta e foderato in raso e cinta nera – ed era famoso nel quartiere perché nessuno mai lo aveva visto senza. Sapendo di non essere osservato (così pensava almeno) cominciò a sorridere e gli angoli della bocca si allargarono oltremisura, in modo del tutto innaturale e divamparono raggiungendo i lobi delle orecchie. Chinò leggermente il capo e con una mano tolse il cappello, prodigando il solo capo in un oltraggioso e disonorevole inchino. Per vincolo divino non poteva ritrarre quelle due minuscole corna che sbucavano da sopra la testa, giusto sull’attaccatura alta dei capelli. Ed era proprio per quella coercizione celeste che era costretto a tenere sempre ben stretto il borsalino, soprattutto durante le giornate di vento. Tutti sospettavano di lui ma se mai il copricapo fosse venuto via in pubblica piazza, gli abitanti del quartiere ne avrebbero avuto la certezza. Ebbene, sarebbe poi cambiato qualcosa?
Ancora giù, più veloce, verso i piani più bassi.
A piena velocità il nostro spettro si ritrovò dopo pochi secondi davanti al 98esimo piano dove poteva vedere quella povera vedova di Maddalena Fusaglia, la governante del palazzo. La signora si occupava delle pulizie delle scale e immaginarsela arrampicarsi per duecentoventotto piani di scale faceva venire il magone, eppure lei ce la faceva, ci riusciva, ogni giorno. E ogni tanto, sempre con crestina e parannanza rimediate ma entrambe bianche immacolate (ché nessuno le aveva dato una divisa, non c’era nessuna ditta ad averla assunta, qualcuno l’aveva chiamata e lei era andata lì, a pulire ogni giorno) faceva qualche servizio di rassetto nelle case private e quel giorno era dal Geometra. Gran padre di famiglia il Bonocore, non esattamente un geometra ma certe professioni diventano onorificenze in quei frangenti nei quali non si conosca l’occupazione del personaggio ma si supponga questi s’occupi di qualcosa di importante e redditizio. Spesso si tratta anche di un ossequio manieroso, finanche uno sdilinquimento se non un timore reverenziale verso chi – si sospetta – traffichi in chissà quali affari. Talvolta anche Dottore assolve alla funzione in maniera eccellente. In questo caso era geometra e dunque Geometra Bonocore, buongiorno e buonasera, con i suoi due bei pargoli dai capelli biondi allisciati e fin troppo frenetici e quindi ben organizzato con sei babysitter, due per ogni porzione di giornata e con una splendida moglie, Odette, con quell’enorme cabina armadio a disposizione, ordinata in centro da Rebelles du Bois e pagata un occhio della testa, due salles de bain ognuna con pregiato antibagno in marmo e vasca idromassaggio ma il letto, quello preso dal Mercatone del Legno, montato e sistemato in un’altra casa. Che gran stupore fu per la nostra figura nel pieno della sua scesa, vedere il geometra rientrare prima del consueto e agguantare la povera governante per i larghi e robusti fianchi e poi sollevare l’ampia gonna celeste in poliestere.
Maddalena non ci faceva neanche più caso, il geometra andava e veniva così velocemente che alcune volte quasi non se ne accorgeva se non quando, sbuffando e ansimando, le faceva scappare e correre quei gatti di polvere per tutto il tavolo di cristallo che con tanta fatica cercava di pulire, così china sulla schiena e – notava ora – con quella difficoltà di movimento che si aggiungeva. Maddalena lasciava passare anche questa, non aveva tempo per lamentarsi. Non poteva forse. Non aveva neanche più tanta voglia.
La discesa subì un’accelerata improvvisa o forse furono gli spettatori a battere le palpebre tutti insieme, all’unisono. A prescindere da questo, fu un bene passare oltre, non c’era altro da vedere che l’immaginazione non potesse formulare da sé.
La grigia silhouette continuava la sua folle proiezione verso la strada, attraversando gli strati d’aria sempre più densi di particelle solide e anidrite solforosa, segno che ci si stava avvicinando ad una non più troppo ipotetica battuta d’arresto. Non a caso passava ora giusto davanti la finestra verticale diuna abitazione posta al nono piano. Quella era la casa del Sig. Volpe, il fabbricante di maschere. Finalmente – riecheggiò tale pensiero nella mente dello spettro – si scopriva dove egli abitasse, perché era un mistero questo, come era un mistero il suo volto o se vivesse solo e qualsiasi altra cosa lo riguardasse, eccetto la questione che costruisse maschere e che le vendesse, certamente, come ogni buon artigiano fa della propria mercanzia.
Merce particolare quella – senza alcun dubbio – che aveva avuto risonanza in tutta la città tanto che ormai venivano da ogni quartiere per visitare la piccola bancarella del vecchietto, La Bancarella della Volpe, chiamata così per un’ammiccante maschera di una volpe posta con lungimiranza in bellavista – e non in vendita – proprio sulla sommità del baracchino e che attirava in primo luogo i bambini ma che con il tempo aveva regalato all’ambulante grande fama e quel nome così accattivante anche tra i più adulti.
Chino su una bacinella ricolma d’acqua, il Volpe immergeva strisce di carta di giornale ingiallita dal sole per poi tirarle fuori e immergerle nuovamente assicurandosi che fossero intrise il più possibile di quell’acqua mista a colla vinilica sapientemente mescolata e addensata. Poi stendeva con cura le strisce su uno stampo per maschere in silicone (ogni volta con fattezze diverse) fino a ricoprirlo completamente. Infine immergeva anche una piccola pennellessa nella bacinella, impegnandosi in voluttuose pennellate volte a stendere una ulteriore patina di acqua e colla. Ripeteva poi lo stesso procedimento utilizzando striscioline di carta bianca al posto di quelle di giornale. Le maschere bianche venivano poi fatte asciugare e infine, con estrema cura e maestria, dipinte con colori sgargianti.
Il sig. Volpe si girò di scatto. Vide l’ospite fermo davanti la sua finestra che contemporaneamente scivolava via e fu l’unico, fino a quel momento, ad essersi accorto della sua presenza. Gli occhiali spessi e fondi, allentati dall’usura e dalla scarsa manutenzione, quasi scivolarono via ma il vecchio artigiano fece in tempo a tenerli sul naso con un lieve colpo del dorso della mano. Anche in quell’occasione non si sarebbero svelati i suoi occhi, solo le maschere si sarebbero potute vedere, nient’altro che le maschere.
L’ingenua suicida venne tirata giù da una violenta corrente che più che altro poteva essere uno sbuffo ultraterreno proveniente da altezze ben più elevate di quelle del grattacielo e che in almeno un paio di scenari teorici, si era intromesso per ottimi motivi: il primo, portare a conclusione quella caduta divenuta ormai inopportuna, anche per le ovvie infrazioni di leggi fisiche e cosmiche; la seconda, evitare all’entità protagonista un incontro troppo ravvicinato con la Volpe, un destino forse peggiore di quello che già l’aspettava.
Quelle maschere infatti – ci sarebbe da dire – restavano attaccate al volto di chi le indossava e non venivano via in alcun modo. Ogni persona che si avvicinava alla bancarella aveva pienamente coscienza di questo, la voce girava e tutti ormai sapevano cosa succedeva a chi osava indossarne una o anche solo avvicinarla al volto, eppure erano tutti lì in fila, pronti a pagare e a scegliere cosa poter diventare. Dimenticavano la vita passata, diventando la maschera che indossavano. Cambiavano non solo connotati ma spirito, cuore, e tutto quel che può cambiare in un essere umano. Non esistevano più bambini, uomini, donne oppure buoni, cattivi, ricchi o poveri, vivi o morti, esistevano solo le maschere e queste cambiavano tutto, in un gioco delle parti senza fine e senza scopo. Cittadini terrorizzati raccontavano cosa potesse accadere, quale sorta di destino fosse riservato a chi si azzardasse a coltivare certi desideri, anche solo per gioco o fantasia eppure anche i più severi e i più prudenti – dopo pochi giorni – passeggiavano serafici con la loro faccia nuova, senza un solo ricordo di chi fossero stati o di quali paure fossero stati preda fino a qualche giorno prima.
Che non trovassero in fondo tutti un po’ di pace indossando quelle maschere, dimenticando tutto, dimenticando anche il passato? Dimenticare il passato, in un certo senso, è cancellare i desideri della vita precedente. Chissà se non fosse questo il sogno segreto di qualcuno di quei vecchi e severi ammonitori.
Non mancavano che pochi metri, e quella povera anima poteva vederlo con chiarezza. Non sarebbe riuscita a contare fino a cinque e si sarebbe schiantata al suolo, riducendosi a tragica versione di sé ma non aveva rimpianti, piuttosto un prurito, un fastidio. Possibile che, anche decidendo di farla finita, non avesse un momento di santa pace, un attimo di libertà, lontano da ogni pensiero? Questo prudeva, alla nostra. Questo la infastidiva.
Aveva pensato che si sarebbe goduta il volo per qualche minuto, magari avrebbe perso i sensi durante il tragitto e chissà, neanche si sarebbe resa conto dell’impatto. Invece aveva dovuto assistere a tutte quelle commedie grottesche, si era dovuta fermare davanti a tutti quei piccoli palcoscenici e retrobottega spalancati sulle vite altrui alle quali – a questo punto non poteva essere diversamente – non aveva mai fatto caso. E cosa doveva pensare ora? Doveva essere motivo questo per cambiare idea, proprio adesso?
Sembrava piuttosto retorico se non addirittura un grande classico: resto o me ne vado? Ma non dovevo morire e chiuderla qui? Se me ne vado non saprò mai cosa succederà a tutti quei tristi commedianti, mi perderò forse delle storie noiose oppure – chi può dirlo – le meraviglie che cambieranno il mondo. E se invece decidessi di restare?
Potrei prendere un posto qui dentro. Tutto sommato non sarebbe male.
Quel che aveva visto non valeva la pena per morire e forse neanche per vivere, continuando a osservare ma prima ancora di giungere ad una decisione, i piedi – in modo del tutto naturale e autonomo – si appoggiarono dolcemente su quell’asfalto indurito dai numerosi rattoppi di catrame, prima con le punte e poi delicatamente scivolando con tutta la pianta fino al tallone, per poi cominciare a camminare verso uno dei quattro enormi portoni, mentre la folla numerosa, accalcata in quell’esatto punto fino a poche ore prima, si era ormai dileguata, sparita, tutta in fila verso quella strana bancarella dietro l’angolo.
Racconto di Nicola Argenti
E tu: hai un racconto, una poesia, una recensione o un articolo di critica nel cassetto e vuoi vederlo pubblicato su L’Incendiario? Contattaci tramite email: redazione.incendiario@gmail.com
