Un testo come La comunità dei viventi di Idolo Hoxhvogli (Editrice Clinamen, 2023) dovrebbe risiedere nelle librerie di ognuno per essere consultato una pagina alla volta ed illuminare gli sguardi sopiti dal mondo corrente. Con tono che oscilla tra biblico e profetico, scivolando nel teologico e nel filosofico, costeggiando la sociologia e l’antropologia, viene affrontato il grande contrasto tra la tecnocrazia imperante e la trascendenza sempre più accantonata. Il mistero cede il passo ai dati, l’uomo è ridotto alla soddisfazione di bisogni algoritmici («giudicare le passioni con le unità di misura», p.23), Cristo è mandato da Dio «a recuperare il relitto, con dentro l’uomo insieme ad aneddoti e collezioni. […] Cristo vuole ricomporre l’infranto» (p. 49), l’immediatamente vecchio dell’epoca ipermediale.
Il tono feroce ma mai radicale si propone di mostrare l’aridità dell’anima umana corrotta dai bit, dalla velocità e dalla perdita di riflessione sulla natura dell’incognita, che spaccia certezze a tutto spiano per sedare l’inquietudine generata dall’insondabile. Quarantasette prose brevi, una pagina o poco più al massimo, dei promemoria, degli avvertimenti, delle trombe squillanti che anticipano l’apocalisse con le quali si cerca di aprire gli occhi su un mondo che va avanti per inerzia. Siamo circondati di segni e crediamo che tutto abbia un nome, diamo così etichette pensando di coglierne l’essenza che invece è ineffabile: «Il mondo è l’isola dei segni, Dio è il mare intorno. […] La conoscenza, essendo conoscenza dei segni, non è conoscenza» (p. 45). Con questi segni nasce la lingua degli uomini, soppiantata già dalla lingua della macchina, poiché viviamo ormai nella città della macchina. Una lingua fallace a cui viene sostituita una lingua meccanica, programmata: «la lingua degli uomini è vietata nelle scuole. […] la macchina respinge gli schiamazzi» (p. 37), l’espressione viene cancellata a favore della domesticazione informatica, dunque «ciò che si deve gridare, qui si deve tacere» (p.37).
La città della macchina irretisce l’uomo, lo convince di essere libero, mentre è solo securitaria e vigilante – tra la orwelliana e la huxleyana -, meccanizzata; Dio è recluso in un angolo, non è morto come vuole Nietzsche, è solo ignorato e svalutato: «Dio è fragile nella città della macchina che ruggisce codici» (p. 55), sostiene lo scrittore, incatenato ad una resurrezione ricorsiva senza successo. Il codice prevede un’attribuzione di nome stringente e «nominare è un atto predatorio con cui inizia la codificazione epistemologica dell’esistente, cioè l’inferno. Adamo nomina e nominando cattura. […] La salvezza è in esilio dal nome» (p. 11).
La tecnica che accompagna la codificazione annulla la vita, favorisce la città della macchina, annichilisce l’uomo e Dio. Così, alla fine, la macchina si stancherà dell’uomo e dei suoi schiamazzi, la stessa storia vedrà nell’uomo un impaccio per la macchina, perché sarà la storia della macchina, senza uomo, «[…] sarà disturbata dall’irruzione degli uomini, con Dio e i mostri spodestati dai laboratori narrativi» (p. 56). In questo contesto, il potere non auspica la salvezza umana, poiché abdica Dio, ma ne limita dolcemente le possibilità, l’inventiva, l’arte e la lingua; se non riesce «è legittimato a prenderne il possesso con la violenza» (p. 19), come nel caso del requirimento, prima gentile, ma subdolamente aggressivo sotto la veste della giustizia.
Una prospettiva distopica? Forse per chi non è arrivato a vivere il nuovo millennio. Per noi che siamo immersi in tutto ciò, Idolo Hoxhvogli racconta la quotidianità che troppo spesso si finge di non conoscere, sebbene venga criticata ogni giorno come la decadenza dell’umanità, la sua riprogrammazione. La comunità dei viventi non è una narrazione, non è una allegoria, né tantomeno un saggio, ma un’analisi critica dotta, sagace e ricercata, una lettura che mette in difficoltà e in crisi, perciò da affrontare con lentezza e riflessione, un passo alla volta fino a sentirsi dilaniati dal mondo in cui viviamo: non si empatizza con personaggi, perché non ve ne sono; si piange per un destino umano già in atto, consapevoli del suo abbandono, ma avendo ancora un ruolo nella grande narrazione comune: lo avremo ancora per molto?
