Fondazione, dai libri alla serie tv

Quando ero piccolo leggevo due cose: Piccoli Brividi e qualsiasi pagina di Isaac Asimov mi capitasse per le mani.

Ho ricordi vaghi di ciò che lessi, salvo porzioni particolarmente importanti del ciclo di Lucky Starr, e per questo qualche anno fa ho deciso di leggere tutto il Ciclo delle Fondazioni. In un mese, uno dei più belli che ricordo, ho divorato i sette libri di cui è composta la raccolta.

L’opera, seppur non esente da qualche difetto nella scrittura dei personaggi, è sicuramente una pietra miliare. E non parlo solo nel genere fantascientifico, bensì della letteratura nella sua interezza.

In quanto autore di fantasy, che spesso miscelo allo sci-fi a causa delle mie evidenti influenze, non posso che sposare la causa per la quale una storia debba essere considerata in quanto tale. Una Storia, indipendentemente dalla scatola dove la si vuole rinchiudere.

Tali generi subiscono ancora troppe angherie da professati puristi del Classico, che finiscono per perdersi intrecci geniali e mondi incredibili. Gli stessi mondi che, molto spesso, nascondono potenti metafore della realtà che ci circonda.

Il Ciclo delle Fondazioni è un concentrato di politica, un ricettacolo di idee, un crogiolo di cultura. È una società in decadenza, l’impero romano del nuovo millennio che si sgretola sotto gli occhi della Galassia. È Demerzel, così lo chiamerò, silente e metallico custode della storia dell’umanità. È Il Mulo, ambigua e inquietante mina vagante, cellula in metastasi del cosmo. È Gaia, pianeta senziente e armonico. È Trantor, è Terminus, è Anacreon, è Helicon, è Solaria. È Hari Seldon, apparente antieroe. È psicostoria, il modello matematico che può predire i comportamenti delle masse. È Galaxia, l’utopia che non sapremo mai se distopia. È Aurora, colei che dobbiamo preservare per non perderne memoria. È un po’ ogni cosa, tanto da diventare parte di chi legge. Ha la capacità di farti sentire a casa, per poi lasciarti solo nel Nulla che avvolge il poco Qualcosa che ci protegge. Ha la capacità di farti scoprire sensazioni che non riuscirai a nominare, di lasciarti interdetto, di cambiare per sempre la tua visione. È straniante, misterioso, rumoroso e al contempo silenzioso. In conclusione, se il fascino che lo Spazio provoca nell’uomo avesse un nome, sarebbe “Asimov”.

Tutto ciò che ho nominato finora, purtroppo, manca invece alla serie tv che avrebbe dovuto adattare il capolavoro dello scrittore russo, naturalizzato statunitense. Il prodotto di Apple, perché di prodotto si deve parlare, ha ironicamente attuato una transizione che è metafora dell’acquisizione di cittadinanza dell’autore; da un socialismo digitale a un capitalismo più strumentalizzato. Come dice Mortebianca nella sua analisi, la serie ha teatralmente brutalizzato la parsimonia dei libri. Il segreto è stato esposto alla luce del sole, la pseudo-scienza è mutata in soprannaturale, l’urto delle masse è diventato l’azione del singolo, la pluralità è cangiata in individualismo. 

Nonostante la seconda stagione migliori la serie in quanto tale, essa rimane dunque una merce ortogonale, che trova spazio nella sola dimensione hollywoodiana.

Nonostante la meraviglia tecnica e alcune scelte di successo, Foundation è dunque solo un frammento del mondo creato da Asimov; impacchettato in una confezione bianca, sovraprezzato, smaltato e impreziosito dal logo della Grande Mela.

Colui che mi ha consigliato la serie, nella sua ignoranza sull’originale, l’ha trovata tuttavia meritevole. È stata la sua passione a portarmi a continuarla,ad apprezzarne l’opera di diffusione tra i più giovani.

Se anche solo una piccola percentuale di spettatori si troverà a proseguire la storia sui volumi, allora per me potrebbe considerarsi un successo.

Nella speranza che la terza stagione, ignorando il pesante nome che ha scelto di portarsi appresso, si riveli degna di essere vista. Affinché nuovi lettori possano avvicinarsi al prodigio che, in un modo o nell’altro, ha ispirato generazioni di creativi.

Editoriale a cura di Lorenzo Foschi

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