Di recente si è conclusa una delle opere globalmente più apprezzate dell’ultimo decennio: Attack On Titan, o Shingeki no Kyojin per i più giappofili all’ascolto.
Nonostante il manga abbia raggiunto la fine qualche anno fa, è spesso la versione animata a raggiungere gli apici della risonanza nel pubblico occidentale.
AOT, così lo chiamerò da qui in avanti, è un dark fantasy dalla trama sfaccettata e sorprendente. Capace di coinvolgere l’occidente, è complice (reo, per qualcuno) di avere esportato gli anime alle masse, estrapolando dal contesto prettamente otaku che li aveva prima contraddistinti (salvo rari e comunque isolati esempi). Ispiratore di moltissimi altri prodotti, tra cui il mio libro fantasy Lathar, ha anche accompagnato molti giovani durante i loro primi approcci al medium.
A rendere AOT così diverso, nonostante non sia scevro di difetti, è la pletora di anomale emozioni che riesce a suscitare nello spettatore. Emozioni non canoniche, non descrivibili, mistiche e ancestrali. Emozioni complesse, grottesche e contrastanti.
Gioca con i simbolismi, astrae, si spinge là dove i canoni di shonen e seinen non possono arrivare.
Quella di Hajime Isayama è un’opera sontuosa e universale, che affonda le radici del suo successo nell’amore dell’uomo per la distruzione. Insita nelle sue fortune, vive l’ossessione dell’umanità per la guerra; la sua incapacità di lasciarsi il passato alle spalle.
AOT è la ciclicità della morte, la caducità della vita, il ripetersi incessante degli stessi schemi, il nichilismo morale. È l’incapacità, per lo spettatore, di identificarsi nella ragione del buono. È la foglia autunnale per Armin, la pallina da baseball per Zeke.
Ci si sente spaesati, non si sa per chi parteggiare e di conseguenza si spera nello spettacolo, che irrimediabilmente l’opera ci offre.
Lo show più macabro, quello più sbagliato ma anche quello più reale. Lo spettacolo che volevi, ma che ti senti in colpa per aver voluto.
Durante la visione ci si sente umani, cioè la cosa peggiore che potesse capitare dalla mano di Dio: ma Dio è morto e rimane solo il dio con la “d minuscola”.
La conclusione di AOT, infine, arriva nel momento storico peggiore. La guerra tra Israele e Palestina imperversa, e la carica emotiva espressa dall’episodio risulta amplificata dalla costante sensazione che si stia assistendo a qualcosa di reale.
“Non è un’opera di finzione”, “Non è lontano da quello che sta accadendo”, “Siamo veramente fatti così?”, “C’è una via di scampo?”: questi sono i pensieri che inquinano la testa dello spettatore, che però dovrebbero inquinare le teste di chi i conflitti li sta cercando.
Come sempre accade, a farne le spese è la gente comune, e probabilmente guardare Attack On Titan farebbe bene a chi il mondo invece lo comanda.
“On that day, mankind received a grim reminder. We lived in fear of the titans, and were disgraced to live in these cages we called walls.”
