La capacità camaleontica dell’individuo di adattarsi alle situazioni, da Arturo a Joseph K.

«Stavolta, quasi mi giurai di lasciare quella maledetta col suo Carmine, e di considerarla anch’io un essere invisibile, assolutamente dimenticato. Ma sentii che, purtroppo, non potevo rassegnarmi a una tale idea: non foss’altro, perché dovevo punire questa donna. La accusavo, fra me, d’essere infame proprio come le solite matrigne, che, appena avuti i figli loro, buttano i figliastri da una parte. E mi sarebbe piaciuto d’imitare i figliastri ripudiati dei romanzi, allontanandomi dalla matrigna disumana, per andarmene alla ventura. Ma, ohimé, come facevo? ormai, che la sapevo infida, ero certo che partendo mi sarei cancellato fino dalla sua memoria: non sarei stato più nemmeno un figliastro, per lei, nemmeno un infimo parente. A ciò, non sapevo adattarmi; e progettavo, allora, di compiere qualche azione grandiosa, tale che, pure da lontano, ella dovesse per forza ammirarmi, e interessarsi a me.»1

Uno dei passi salienti del romanzo “L’isola di Arturo” scritto nel 1957 da Elsa Morante racconta del turbamento interiore del protagonista generato dalla profonda gelosia nei confronti della matrigna. A circa metà dell’opera, Arturo comprende di essere sopraffatto dai sentimenti per la donna, seppur ancora embrionali e informi (bisognerà aspettare una manciata di pagine successive per l’epifania amorosa) e in uno stato di delirio confessa di non sapersi adattare a una realtà delle cose in cui verosimilmente è messo in secondo piano. La Morante, così accorta alle parole (meno alla consecutio temporum), opta per il verbo adattarsi all’interno dell’espressione “non sapevo adattarmi” per sottolineare la condizione limitante e deficitaria in cui versa il giovane. E dico deficitaria non a sproposito: Arturo manca di qualcosa, è cosciente, consapevole di non saper affrontare una situazione a tratti più grande di lui. Eppure è bravo in tutto, è autosufficiente e intelligentissimo. Nelle primissime battute di romanzo viene spiegato come sia riuscito a crescere da solo, senza una madre e con un padre a intermittenza e come sia diventato un ragazzo prestante e risoluto, senza mai elemosinare niente. Però non si è assuefatti alle emozioni, specie quelle improvvise.
Per Arturo, confinato in un’isoletta vicino Napoli, la bella Procida, senza nessuna esperienza emotiva forte e senza nessuna relazione umana duratura (se si esclude quella un po’ problematica e travagliata con il padre) l’alterazione dello stato delle cose è catastrofica e destabilizzante. Sia perché è solo “un guaglioncello”, “un pupo”, come puntualizza Wilhelm Gerace a un momento del racconto, anche piuttosto significativo, sia per un atteggiamento schivo e misantropico che bene si accompagna all’inclinazione all’isolamento. È lui stesso, Arturo, ad essere un’isola, su un’isola. Per questo l’avvento della futura signora Gerace diventa evento: inaspettato, imprevedibile e condizionante. Da isola Arturo è costretto a diventare penisola e a convivere con un essere umano, una donna, in una casa che non ha mai accolto le donne. La prima forma di adattamento passa proprio attraverso l’accettazione di un corpo estraneo all’interno di una spazio familiare noto, di un habitat naturale che ora va riformulato e ritrattato. Non è operazione semplice, l’invasione non è annunciata e non si è predisposti a contenerla.

«Ma io, senza rispondere al suo saluto, la guardai duramente, come quando un estraneo, e un inferiore, si permette con noi delle familiarità non accordate. Immediatamente, l’espressione confidente e felice cadde dalla sua faccia. Il suo sorriso si spense, e la vidi guardarmi con un’aria strana: delusa, interrogativa e selvaggia, ma non, tuttavia, umiliata, e senz’ombra di preghiera. Io non le dissi nemmeno una parola; e preso di sulla panca il mio libro, me ne andai.»2

La reazione è esagerata, ostile e non ponderata. In realtà nel corso del romanzo le reazioni iniziali di Arturo saranno spesso impulsive e colleriche oltre che infantili. (Come se i cambiamenti repentini non possano essere veramente metabolizzati senza un certo grado di intensità emotiva, che diventa snodo cruciale per la crescita). Quello che fa Arturo è alzare un muro, rinchiudersi nelle proprie convinzioni ed espellere, con repulsione, tutto quello che si muove al di fuori. Non è che la scelta più plausibile in un orizzonte comunicativo limitato, con dialoghi arrampicati perché prima, nella sua vita, non c’è mai stata l’urgenza di ricrearne di più consistenti. Non c’è modo per ritrattare alcune posizioni e forse non c’è neanche una motivazione valida. Nonostante i continui approcci della donna, Arturo è riluttante, sdegnoso, piccolo. Insofferente all’imprevisto e poco incline a qualsiasi tipo di stravolgimento. C’è una linea sottile di separazione davanti a una forza estranea che reclama il proprio spazio, così diversa e attraente insieme ma è una linea marcata con rigidità. Il rifiuto addirittura si materializza in opposizione, ostruzione alla più elementare forma di ammissione: il nome. Arturo non sa chiamarla, non sa identificarla. La Morante spiega:

A proposito, mi accorgo qua d’una cosa: che non soltanto, io non sapevo chiamarla per nome quando le parlavo; ma anche adesso raccontando di lei (il motivo, lo ignoro), non so indicare col nome. C’è una difficoltà misteriosa, che mi proibisce queste sillabe così semplici: Nunziata, Nunziatella. E dunque, dovrò seguitare anche qua a chiamarla ella, o essa, o lei, o la sposa, o la matrigna. Se poi, per il bello stile, qualche volta fosse necessario nominarla, potrò forse, al posto del suo nome intero, mettere N., o magari anche Nunz. (Quest’ultimo suono mi piace abbastanza; fa pensare a un animale mezzo selvatico e mezzo domestico: per esempio una gatta, una capra).”3

La più basilare operazione di conoscenza per Arturo si traduce in uno sforzo immane (anzi, si potrebbe dire in un totale azzeramento di sforzi) perché di fatto non è abituato a chiamare le persone e perché l’alterità della donna lo indispone e disorienta. L’adattamento per Arturo è non-adattamento, non è contemplata alcuna forma di flessibilità o pazienza. Non si affronta “l’imprevisto” ma lo si elude e si resta arroccati dentro lo straniamento e la diffidenza. In un altro passaggio significativo del romanzo, però, la situazione precipita. Non è più Arturo a dover decidere come e se adattarsi, sono gli avvenimenti a imporlo. Solo schiantandosi contro le proprie paure si può raggiungere un certo grado di consapevolezza e maturità e in questa parabola ascendente, in questo rito di iniziazione alla vita, la Morante si impegna a mostrarne tutti i limiti. L’ostilità del giovane procidano è dettata da una duplice incapacità: una resistenza estrema alle emozioni e insieme una frenesia nel volerle decifrare. Si passa da un estremo all’altro senza fermarsi al centro. Ma ancora, l’imprevisto fa da punto di raccordo e permette al protagonista di avviarsi a quel processo di comprensione personale che per forza di cose si inoltra per i meandri dell’inaspettato. A più di un quarto dell’opera Nunziata sta per partorire il bambino concepito con Wilhelm Gerace. Il padre,però, non assiste alla venuta del nascituro e sul posto, incredulo e stordito si trova il moro”(pseudonimo elargitogli dal padre). Arturo per la prima volta ha paura (gli capiterà di nuovo di sperimentare la sgradevolezza e l’irrazionalità di questo sentimento, in un’altra quasi felice declinazione). Teme per la vita della matrigna, che quell’esserino possa portargliela via e si trova combattuto sul da farsi. Allora cambia, si ravvede. Come se la morte possa essere scongiurata da un atteggiamento o una promessa nuova.

«Allora ricominciai a correre peggio che all’andata, senza più occuparmi della vecchia. Non mi curavo d’altro, ormai, che di tornare subito là. Volevo arrivare a tempo, almeno, a dire a N. poche ultime parole, se ancora essa poteva sentirmi per un istante. Quali parole sarebbero state, m’era impossibile predire: forse, fidavo in una ispirazione estrema, in una specie di capriccio improvvisato, così sublime da riscattare, in un’unica frase, tutte le parolacce e altre fandonie che le avevo detto; e da bastare quale spiegazione fra me e lei, per l’eternità!»4

La trasformazione di Arturo comincia proprio nel capitolo intitolato “il galletto”. L’iniziale e prolungata reticenza viene sciolta dalla paura, dal senso di impotenza che lo assale nei frangenti in cui sente la donna dolorante, da una situazione limite. Per adattarsi alle dinamiche prima occorse, ovvero per entrarci e disporsi poi flessibile ed elastico bisogna arrivare al limite. La prima grande lezione del libro della Morante è che per imparare ad essere camaleontici, a volte tocca essere prima allo stremo. Non ci si adegua alle cose se le cose non sfiniscono. Che non è piegarsi ma più affrontare e assorbire senza resistenze eccessive e con lucidità ciò che veicola il cambiamento. Dopo questo episodio, che si conclude poi felicemente, l’atteggiamento di Arturo sconfina in abnegazione totale nei confronti della donna. I dialoghi e gli scambi di battute diventano più assidui. Le emozioni, prima contrastanti ed impenetrabili, cominciano ad assestarsi, ad assumere contorni e forma e a dispiegarsi insistenti, complice lo sviluppo veloce di Arturo. Non si tratta più del ragazzino in piena pubertà di un centinaio di pagine prima ma di un uomo fatto e finito con la voce più spessa e le mani grandi che non sa riconoscersi più.

«Non m’era mai accaduto, prima, di sentirmi così brutto: nella mia persona, e in tutto quello che facevo, avvertivo una strana sgraziataggine, che incominciava dalla voce. M’era venuta una voce antipatica, che non era né più da soprano (come la mia di prima) né, ancora, da tenore (come la mia di dopo): pareva quella di uno strumento scordato. E tutto il resto, era come la voce. La mia faccia era ancora di un disegno piuttosto rotondo, liscia; e il corpo, invece, no. Il vestito di prima non mi entrava più, così che N., benché nemica, dovette occuparsi ad aggiustare per la misura mia certi pantaloni da marinaio che una sua amica bottegaia le dette a credito. E intanto io avevo l’impressione di crescere senza grazia, in una maniera sproporzionata. Le mie gambe, per esempio, in poche settimane erano diventate così lunghe da impicciarmi; e le mani mi s’erano fatte troppo grandi in confronto al corpo, rimasto magro e snello. Quando le chiudevo, mi pareva di portare i pugni di un brigante adulto, che non ero io. E non sapevo che fare, con quei pugni da assassino.»5

La presenza di emozioni nuove e ancora embrionali è accompagnata da una nuova fisicità, in una sorta di connubio coerente di corpo e mente. Il cambiamento non è solo invisibile e nella coscienza ma è tangibile, palese, ha fattezze concrete che stonano e disorientano. Arturo non sa adattarsi nemmeno al proprio corpo, si sente estraneo dentro se stesso e non comprende il graduale mutamento che passa prima dal di fuori e poi implode, forte, distruttivo dal di dentro. È lo scotto della crescita: l’incertezza iniziale e poi la possibilità, lenta e consapevole di riappropriarsi di ciò che sembra scivolare via incontrollato. Proprio i tratti fisici differenti si associano alle pulsioni che lo agitano. Ed è qui che è possibile tornare all’incipit, a quel “non sapevo adattarmi”, così arrendevole e pure così spronante. A cosa Arturo non riesce proprio ad adeguarsi? Non c’è elasticità, non c’è compromesso o parziale risoluzione. Con avversione, poi con paura e infine con tacita ammissione, il giovane moro capisce di essere geloso e di non poterci fare poi tanto a riguardo. È la terza circostanza in cui gli viene chiesta una reazione, che per lui si traduce quasi spesso in un’azione, tempestiva, poco ponderata, risolutiva. L’adattamento è una condizione scomoda, implica duttilità, prevede contorni cangianti e non si trattiene in maglie rigide e poco versatili. A questo punto dell’innesto narrativo ad Arturo non resta che scandagliare le proprie emozioni, superarne i meccanismi infantili e di sabotaggio ed esprimersi, identificarsi come un adulto. Non è ancora maturo il tempo. La Morante prevede un percorso formativo un po’ più lungo e tortuoso che parte dalla flebile esplosione di una gelosia puerile e terminerà con prese di coscienza più solide e ugualmente terrificanti. Non a caso Arturo opta per una escamotage, qualcosa che gli permette di procrastinare il faccia a faccia con i propri sentimenti e con quella poca predisposizione all’incontro, a quella forma di adeguamento non fatta di strade secondarie ed evasive ma di sacrificio e comprensione. Solo così, attraverso una graduale esperienza di sé è autenticamente possibile trovare equilibrio e maturare quella capacità, tanto difficoltosa, di dribblare gli ostacoli. L’approdo a una nuova, evoluta consapevolezza coincide con due eventi rilevanti: la scoperta del sentimento amoroso, ora metabolizzato e riconosciuto come tale, e la scoperta, riscoperta del sentimento di affetto paterno, ora decostruita dei suoi tratti idealizzanti e più materiale. Sono due eventi propizi, scombussolati, non aggirabili, che vanno impattati e poi guardati, dopo, da una distanza siderale per essere obiettivamente ammessi. Elsa Morante insiste sul solito elemento portante: la paura.

L’emozione negativa come unico strumento possibile per ritrovarsi in positivo. Ciò che turba e aliena per entrare meglio e più snodabili nelle cose. La paura dà la forma, nello spavento ci si costruisce individui pensanti e risoluti.

«Dico paura, perché allora non avrei saputo definire con altra parola più vera il mio turbamento. Sebbene avessi letto libri e romanzi, anche d’amore, in realtà ero rimasto un ragazzino semi-barbaro; e forse, anche, il mio cuore approfittava, a mia insaputa, della mia immaturità e ignoranza, per difendermi contro la verità? Se ripercorro col pensiero, adesso, fin dal principio, tutta la mia storia con N., imparo che il cuore, nelle sue gare contro la coscienza, è estroso, avveduto e fantastico quanto un maestro costumista. Per creare le sue maschere, gli basta magari una trovata da niente; a volte, per travestire le cose, sostituisce semplicemente una parola con un’altra… E la coscienza si aggira in questo gioco bizzarro come uno straniero a un ballo mascherato, fra i fumi del vino.»6

In tutto il trasporto emotivo che trapela in questo passo, la Morante suggerisce e rivela un Arturo fragile, vulnerabile, pure stanco ma più accorto, più attento ad ascoltarsi. Dal “non sapevo adattarmi” un bel po’ di capitoli prima alla riflessione che gli viene consegnata dalla Morante, Arturo è cresciuto tanto. È vero che è una riflessione a posteriori, maturata nel tempo e dal tempo ma è concomitante pure a un altro acume, a un più controllato intendimento dei fatti. È innamorato della donna, non sarà poi ricambiato, almeno in apparenza per una serie di remore, ma è più risoluto, più convinto. Si è adeguato, capacitato alla forza tumultuosa dell’amore. Tutte le scelte in avanti di Arturo, sebbene caratterizzate sempre da venature più o meno profonde di impulsività, avranno l’aria di una serenità consapevole, di una flessibilità scaltra. Non più adeguamento arrendevole o sfuggente ma consistente, pieno perché dentro le cose. E questa mossa ben collima con l’altra importante questione che riguarda il rapporto padre-figlio. Arturo stravede per il padre, lo stima, e forse in realtà lo sovrastima, desidera partire in viaggio con lui per condividere le numerose avventure oltreoceano. La verità è più amara: Wilhelm Gerace è un uomo solo, insoddisfatto, che non ha mai percorso più di pochi chilometri oltre Procida ed è legato ad un rapporto quasi morboso con un altro uomo. Sorprendere il padre umano è la più rivoluzionaria, palingenetica e sofferta scoperta di tutto il romanzo. Non un individuo di prodezze, eroico e sopravvalutato ma un essere capace di sbagliare più e più volte. Il dialogo, uno degli ultimi, con il padre è concitato, arruffato quasi e rivela tutta la paura della realtà ma anche il salto verso una diversa prospettiva. Staccarsi dunque da quell’immagine edulcorata e idilliaca per adattarsi, di nuovo, ai fatti, inaspettati, superiori.

«Egli si fermò, a un passo da me, in una posa guerresca e spietata. E in tale momento, sul suo volto incominciarono a passare: la magnificenza, e la festa, e la complicità, e i verdetti supremi, e la doppiezza e la fatuità e la strage! insomma, tutte quelle già conosciute arie ch’egli prendeva allorquando non si capiva se preparasse (forse) una qualche sanzione augusta e micidiale, o non piuttosto (forse) tramasse una malizia d’inferno.»7

L’ultima descrizione ha ancora i tratti di fascino e abnegazione ma che già si perdono nello scorrere delle pagine per essere rimpiazzati da una presa di coscienza obiettiva e non fuorviante. La reazione impulsiva, non ragionata di Arturo è già nota al lettore, ormai prevedibile e un po’ scontata. Ma Arturo sa come smentirsi, ritrovarsi all’ultimo. La decisione finale infatti è una decisione già ampiamente pensata e che di fatto ha attraversato l’intero romanzo in una sorta di tensione sottintesa. Lasciare Procida non è il capriccio di un ragazzino che è diventato uomo, è il tratto conclusivo di un percorso di formazione lunghissimo, quanto un’esistenza intera. L’adattamento come adesione, sincera e abbandonata, all’improvvisazione camaleontica, alla mutevolezza davanti alle difficoltà della vita che non è smarrimento ma potenzialità. Questo continuo flettersi significa smussare ciò che non va per un’apertura realistica e positiva alle cose, sacrificarsi, nel senso di rendere sacro ogni avvenimento, barattando un po’ di sé stessi per un po’ di quello che si può acquisire dall’esperienza. È il grande insegnamento del romanzo della Morante che apre e chiude il discorso sulla bellezza del cambiamento.


Circa un trentennio prima la pubblicazione dell’isola di Arturo, un altro autore, di origine praghese, concepiva il suo primo romanzo in lingua tedesca, “Il Processo”, di tutt’altri sviluppi e di diversa fattura. L’autore in questione, Kafka, si dichiarava fedele seguace di Dostoevskij e inaugurava con il testo una delle più riuscite esperienze di romanzo modernista europeo, attraverso una pubblicazione postuma. Sulla scia della grande letteratura russa e con affondi psicologici notevoli, Kafka racconta all’interno del “Processo” la storia di Joseph K. un uomo accusato di una colpa mai commessa e mai effettivamente rivelata, finito nei meandri di un processo fittizio allestito ai suoi danni. Il cognome del protagonista non viene mai svelato e rimane taciuto per tutta la durata del libro, dentro una lettera a caratteri maiuscoli. Si vede da subito che anche nel romanzo di Kafka compare una sorta di difficoltà nell’identificazione tramite nome. Qui anticiperebbe alcuni contenuti legati a motivi di spersonalizzazione e alienazione, poi ampliamenti sciorinati nel testo. Nel caso della Morante si tratterebbe per lo più di un rifiuto all’accettazione che pure però tende alla spersonalizzazione dell’individuo, seppure in forma drasticamente embrionale. Joseph è un impiegato bancario che si trova invischiato in una situazione ai limiti dell’assurdo da cui non è facile svincolarsi per mancanza oggettiva di coordinate. È accusato di qualcosa che non viene spiegato e viene imbastito un enorme processo macchinoso con individui subdoli e meschini, dentro il quale non è contemplata assoluzione ma solo colpevolezza e termine. Fin dalle primissime pagine di romanzo, si viene proiettati in una dimensione quasi psichedelica, in una dinamica inconsistente e senza punti di appoggio. Lo stesso lettore si sente spaesato e disorientato quanto K. , nel momento in cui è informato per la prima volta dell’accusa. L’obiettivo del testo, non a caso, è mantenere, per tutti gli esiti possibili, un clima di sospensione e mistero, oltre che una forte carica emotiva, dalle tinte angosciose e disordinate. Continui sono i passaggi di ambientazione e situazioni in uno sviluppo a tratti dispersivo e scabroso, dentro maglie di enigma sempre più fitto e difficilmente districabile. Il lettore, in apprensione, accompagna K. nel complicato scioglimento dell’intreccio e nelle sue plausibili reazioni davanti ad andamenti tanto criptici. Come si adegua Joseph alle accuse, le ritorsioni, le minacce che gli vengono fatte? Ancora una volta, il tema dell’adattamento si presta ad analisi di non facile interpretazione.

«Ma ora questo non gli sembrava giusto, si poteva considerare il tutto uno scherzo, uno scherzo pesante, montato dai colleghi della banca per motivi a lui sconosciuti, magari perché oggi compiva trent’anni, era senz’altro possibile, forse gli bastava ridere in un modo qualsiasi in faccia alle guardie che avrebbero riso anche loro, forse erano fattorini dell’angolo della strada, non sembravano troppo diversi – questa volta comunque, fin dal primo momento che aveva visto la guardia Franz, era deciso a non rinunciare al minimo vantaggio che forse possedeva di fronte a quella gente. Più tardi avrebbero potuto dirgli che non aveva capito lo scherzo, ma in questo K. vedeva un rischio minimo, eppure si ricordava – senza che fosse sua abitudine imparare dall’esperienza – di alcuni casi, di per sé insignificanti, in cui a differenza dei suoi amici aveva agito coscientemente con imprudenza, senza minimamente darsi pensiero per le possibili conseguenze, ed era poi stato punito dai fatti. Non sarebbe più successo, almeno non questa volta; se era una commedia, lui sarebbe stato al gioco.»8

La primissima reazione di K. ,nonostante lo sbalordimento iniziale, è dubbiosa, interrogativa. Si arrampica a qualsiasi indizio si possa cogliere e cerca di mettere insieme i pezzi, di comprendere i motivi delle accuse, di mantenersi cauto, razionale. È questo che fa Joseph: rifuggire qualsiasi atteggiamento troppo riottoso (anche se poi è eccessivamente ostile al modo di fare delle guardie) e sbilanciato e assumere posture tranquille e controllate. Non è Arturo, frenetico e facilmente infiammabile, è un uomo arrestato in casa propria che nonostante la diffidenza non eccede, non si sbottona (tranne che per qualche imprecazione casuale) ma misura le proprie azioni. Il signor K. è più propenso all’adattamento, a contenersi entro sovrastrutture predefinite che gli vengono imposte, seppur reticente all’inizio. Tutto il romanzo, in verità, mostra un senso di adattamento che sfocia in annichilimento e arrendevolezza. Non è adeguarsi, ibridi e cangianti nelle situazioni, è esserne fagocitati, risucchiati all’interno di logiche perverse e incomprensibili. Se l’adattamento è smuoversi, flessibili, ed entrare negli spazi con una inclinazione benevola e positiva al cambiamento, la vicenda del signor K. diventa storia di abbattimento, di annullamento personale davanti a situazioni drasticamente più grandi e incontrollate. C’è un sistema dietro l’impalcatura del processo che fa arrivare allo stremo e non permette assoluzione o via d’uscita. Un capitolo significativo è quello che presenta la conversazione intrattenuta dal signor K. con un pittore molto esperto delle dinamiche del tribunale d’accusa. Il dialogo, privato e concitato, risulta inconsistente (in generale tutta l’opera sembra in una dimensione da sogno, mai troppo concreta) e alimenta una sensazione di soffocamento, di asfissia, prima fisica perché Joseph si sente davvero soffocare all’interno di uno spazio angusto quale la camera del pittore. Poi mentale: l’impossibilità di trovare soluzioni all’accusa, il discorso ridondante e troppo carico di sostantivi, la difficoltà nell’individuare coordinate a cui rifarsi e informazioni veramente concrete. Il “Processo” si fonda proprio sulla continua insistenza di scenari disturbanti, faticosi in cui nessuno sa cosa fare.

«Neanche un’assoluzione, dunque», disse K. come se parlasse a sé e alle sue speranze. «Ma questo conferma l’idea che già mi sono fatta del tribunale. Tutto inutile dunque, anche da questa parte. Un solo boia potrebbe sostituire l’intero tribunale». «Non deve generalizzare», disse il pittore scontento, «ho parlato solo delle mie esperienze». «Mi pare che basti», disse K., «o ha sentito di assoluzioni avvenute in passato?». «Assoluzioni devono pure esserci state», rispose il pittore. «Solo è molto difficile da appurare. Le sentenze definitive del tribunale non vengono pubblicate, non sono accessibili nemmeno ai giudici, di conseguenza intorno ai vecchi casi giudiziari si sono conservate solo leggende. Queste, comunque, e addirittura nella maggior parte, parlano di assoluzioni vere, ci si può credere, ma non è possibile provarle. Eppure non sono proprio da trascurare, una qualche verità la contengono di certo, e poi sono bellissime, io stesso ho dipinto alcuni quadri che hanno queste leggende per soggetto».9

E ancora:


«Ma non vuole togliersi la giacca, prima che ne parliamo? Mi pare che lei abbia caldo». «Sì», disse K., che fino a quel momento aveva prestato attenzione solo alle spiegazioni del pittore ma, ora che era stato menzionato il caldo, cominciò a grondare sudore dalla fronte. «È quasi insopportabile». Il pittore annuì, come se capisse benissimo il disagio di K. «Non si potrebbe aprire la finestra?», chiese K. «No», disse il pittore. «È solo una lastra di vetro fissa, non la si può aprire». Ora K. si rese conto di avere sperato tutto il tempo che a un tratto il pittore, o lui, sarebbero andati alla finestra e l’avrebbero spalancata. Era disposto a respirare a bocca aperta anche la nebbia. L’impressione di essere del tutto isolato dall’aria gli diede il capogiro. Diede un colpetto con la mano sul piumino che aveva accanto e disse con voce debole: «È scomodo e malsano». «Oh no», disse il pittore a difesa della sua finestra, «poiché non si può aprire, anche se è un vetro semplice, riesce a mantenere il calore meglio di una doppia finestra.»10

Si comprende come ci si trova completamente in un vicolo cieco, imbalsamati dentro un orizzonte comunicativo limitato e di fatto inesistente, dentro l’inconcludenza delle azioni. Allora da quell’adattamento di cui si è tanto parlato si passa all’assuefazione (che è poi l’estremità opposta da evitare), a quella forma di abbandono e sconforto che sconfina in passiva accettazione dei fatti, senza pensare ed elaborarli. È il rischio più grande per chi si adegua. Rinunciare a un evoluzione camaleontica e positiva per imbattersi in una condizione di staticità controproducente. La fine del romanzo di Kafka mostra proprio gli antipodi negativi dell’adattabilità. Passare dal conformarsi, in parte smussando alcune paure per rendersi più malleabili, all’arrendersi, all’essere schiacciati dall’imprevisto perché non in grado di entrare nelle situazioni ma viceversa, con le situazioni che entrano nell’individuo, defraudando di se stesso e alienandolo. Raccapricciante sono proprio le ultimissime battute del testo che confessano un Joseph indifferente, incapace di partorire qualsiasi pensiero lucido, incapace pure di pensare e basta.

«Ma non lo fece, girò invece il collo ancora libero e si guardò attorno. Non poteva dare pienamente prova di sé, sottrarre alle autorità tutto il lavoro, la responsabilità di quest’ultimo errore cadeva su chi gli aveva negato quanto gli restava della forza necessaria. Il suo sguardo cadde sull’ultimo piano della casa attigua alla cava. Come una luce che si accende improvvisa, si spalancarono le imposte di una finestra, un uomo, debole e sottile per la distanza e l’altezza, si sporse d’un tratto e tese le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Una persona buona? Uno che partecipava? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora un aiuto? C’erano obiezioni che erano state dimenticate? Ce n’erano di certo. La logica è, sì, incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che lui non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale al quale non era mai giunto? Levò le mani e allargò le dita.»11

È chiaro che “Il processo” è un romanzo provocatorio, ai limiti dell’assurdo, di difficile interpretazione, distorto quasi, in cui si sviluppa una vicenda non facilmente tracciabile entro parametri reali e realistici ma esprime tutta la precarietà degli eventi e delle reazioni umane. E proprio davanti a questo andamento così poco prevedibile delle cose che la capacità di adattamento risulta di vitale importanza e di non ignorabile incisività. Che sia il dolore inaspettato, una perdita, un rapporto conflittuale, ogni situazione chiama l’individuo a servirsi di un senso di resistenza non sempre conosciuto. Da questa resistenza che si può imparare ad affrontare la vita, a finire nei suoi meccanismi senza finirci veramente e a elaborare ogni imprevisto in potenzialità. Incanalare un limite in sviluppo favorevole. La letteratura è un grande strumento di apprendimento, ha un riverbero enorme e un lascito importante per tutti coloro che ne fruiscono. E non importa tanto se ci sono opere concepite in Germania o opere concepite in Italia. Arturo e Joseph K. sono due figli della letteratura che imboccano due diverse strade. Arturo evolve, cambia, reagisce a modo suo, con tutti gli errori della sua età, matura sentimenti ed emozioni, li comprende e dà loro una forma. Joseph involve, non riesce ad adattarsi perché il sistema lo ingloba, lo macina e strattona, i sentimenti diventano pulsioni e poi si esauriscono flebili nella più aberrante spersonalizzazione. Il romanzo di Kafka si risolve anche in una impossibilità nell’adattamento di fronte alla mera volontà tanto cara allo scrittore.

Entrambi, nelle vicende che vengono raccontate da due voci autorevoli e distanti come la Morante e Kafka, partecipano a quella riflessione sull’adattamento così singolare eppure così rilevante. Una capacità non scontata e non prevedibile come gli eventi in cui ci si trova a dover sfruttare. Un senso camaleontico che cambia ogni individuo, pur preservando, come un giusto percorso di arricchimento.

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