A chi è rimasto: Intervista a Nadia Terranova

Nadia Terranova è una delle punte di diamante della letteratura italiana dei nostri giorni. Messinese di nascita ma adottata dalla capitale, la sua produzione spazia dalla letteratura per l’infanzia ai romanzi, fino al racconto. Dalla prima pubblicazione con Einaudi con Gli anni al contrario (2015) fino alla cinquina del Premio Strega 2019 con Addio fantasmi, è ormai una figura affermata nel panorama nazionale e internazionale. La redazione di «L’Incendiario» ringrazia Nadia Terranova per averci concesso questa intervista, grazie alla quale abbiamo esplorato un po’ il suo talento.

Per cominciare le chiedo qualcosa sulla casa editrice per cui ha pubblicato: Einaudi. Nata all’inizio del Novecento intorno alla figura di Giulio Einaudi, si è sicuramente caratterizzata per una linea editoriale precisa che si è persa negli ultimi anni. Crede che l’idea di una casa editrice come “laboratorio” di menti, come cervello collettivo, possa essere ancora possibile nel panorama contemporaneo? Quanto il nome della casa influisce sui suoi romanzi?

Quando ho scritto il mio primo libro, in realtà non sapevo per quale editore avrei pubblicato perché, come tanti esordienti, scrivevo sapendo che avrei inviato il mio manoscritto a tanti e sarei stata pubblicata da qualcuno che mi avesse degnata di attenzione, è sempre difficile per gli esordienti e io non ho fatto eccezione. Ho avuto tanti rifiuti e ho ricevuto tantissima indifferenza, fino a quando non è arrivato un interesse da parte di una delle mie case editrici preferite Einaudi e, soprattutto, da parte della mia collana preferita, Stile libero. Sono stata adolescente con i libri di Stile libero e l’ho subito percepita come una collana che parlava a me. Fino a quel momento non avevo mai studiato le collane editoriali, a mala pena prestavo attenzione alla casa editrice. Da bambina non guardavo neppure chi fosse l’autore, leggevo e poi mi documentavo sul nome dell’autore solo quando volevo cercare dei libri simili a quelli già letti e che mi erano piaciuti. Per me è molto importante pubblicare con Stile libero perché è una collana nata in modo geniale e che ha continuato a mescolare una scrittura classica e una sperimentale. È una collana in cui io mi sento completamente libera di osare e che conserva tutti i rimandi alla tradizione come quella novecentesca italiana. Ho studiato molto la storia dell’Einaudi, ho letto il colloquio con Giulio Einaudi di Severino Cesari, ho a casa mia i due volumi delle riunioni del mercoledì, ho letto le lettere di Pavese, Vittorini, Natalia Ginzburg, tutte i carteggi che si scambiavano le persone intorno all’Einaudi e devo dire che è interessante vedere il modo in cui è cresciuta la casa editrice nel tempo. È nata in un periodo storico preciso e con una visione storica precisa e antifascista. In quella visione ci sono una serie di scelte che l’hanno caratterizzata e anche una serie di rifiuti che ci sono stati, il più famoso è quello del Gattopardo che poi ha pubblicato Giorgio Bassani con Feltrinelli, rifiutato precedentemente da Vittorini.

Uno dei suoi libri più conosciuti è sicuramente Addio fantasmi, arrivato in cinquina al Premio Strega 2019. Ho trovato delle affinità tra la sua biografia e la protagonista, soprattutto per il legame con la città natale, Messina. Leggendolo ho pensato quasi di “sentire l’odore del mare” dal mio salotto, e credo non si possa trasmettere una sensazione del genere senza avere un legame con il luogo descritto. Come dialoga l’io dell’autore con il testo? È possibile scegliere quanto di sé inserire nel testo senza svelarsi troppo, oppure la scrittura non è altro che la proiezione dell’io nel testo?

Quando ho messo mano ad Addio fantasmi ho capito che era l’occasione giusta per verificare qualcosa che avevo da sempre ipotizzato, ovvero se sarei riuscita a creare una dimensione universale partendo da quella piccola porzione di mondo dove io sono nata, cioè Messina e lo Stretto. Adesso che il libro è tradotto in oltre venti paesi, è straniante per me vedere come dall’America, dalla Francia e dalla Spagna sia stato interpretato diversamente ma, in fondo, sempre in una maniera molto attenta alla sua identità originaria. Per quel libro ho scelto un personaggio che in apparenza mi somigliasse e i cui contorni potessero coincidere con Nadia Terranova:Ida Laquidara. Un personaggio che, come si suole dire, è un alter ego. Ma lei non è Nadia Terranova e io non mi sarei mai nascosta dietro un personaggio, scrivere per me è disseppellire, svelare, perché dovrei scrivere senza svelarmi troppo? Io devo scegliere, di volta in volta, il modo in cui posso dire tutto di me, ma non perché sento un bisogno di apertura. Perché attraverso l’esplorazione di me posso andare avanti con l’esplorazione dentro il mondo. Conoscendomi posso sparire. La scelta di creare un romanzo e non un’autobiografia è una presa di posizione precisa, un atto di fiducia nella finzione che riproduce una verità. Nel mio primo libro pubblicato, Bruno, il bambino che imparò a volare, dedicato ad uno scrittore che ho amato molto, Bruno Schulz, il mio io narrante non compare, ma quel libro non è meno autobiografico rispetto a tutti gli altri. In Addio fantasmi, invece, mi svelo in un romanzo che sembra autobiografico, ma in realtà la storia di Ida Laquidara non è la mia storia. Ho scelto che avesse delle connessioni con la mia per poterle traversare, esplorare a nuoto – riprendo la metafora, visto che parlavi dell’odore del mare nel salotto.

Rimanendo su Addio fantasmi, mi ha colpito molto la dedica iniziale: “Ai sopravvissuti”. Si riferisce ovviamente a coloro che, come la protagonista Ida, hanno perduto una persona importante; il padre di Ida, infatti, sparisce e questo le impedisce di accettare la sua scomparsa. L’appellativo di sopravvissuto oggi è applicabile a più situazioni; quanto la letteratura può alleviare il loro vuoto secondo lei?

Quando ho scritto Addio fantasmi ho pensato che avrei voluto dedicarlo a tutte le persone che lo avrebbero preso in mano. Di solito si dedicano i libri alle persone che non ci sono più, come un commiato, e invece no: volevo dedicarlo a chi c’era, a chi c’è, a chi è sopravvissuto a lutti, fantasmi, insomma a noi stessi. Non so se la letteratura può alleviare il dolore di chiunque, ma su di me ha questo effetto. Non tanto scriverla, perché farlo rimesta dentro me un magma fantasmatico, ma leggerla: quando leggo dei libri anche molto dolorosi, molto densi, dentro cui finisco catturata, provo un sollievo.

Vorrei passare a uno dei suoi ultimi libri, Come una storia d’amore, raccolta di racconti uscita per Giulio Perrone Editore. Come mai la scelta del ritorno al racconto dopo alcuni romanzi e saggi? Penso ad esempio alle raccolte calviniane e alla costruzione che c’è dietro, con quella componente di “cristallo” che Calvino descrive nelle Lezioni americane. Ecco, la sua raccolta è più cristallo o fiamma, pensata o istintiva?

Avrei voluto esordire con una raccolta di racconti, avrei voluto che i racconti, che sono stati la prima forma che ho dato alle parole mentre ancora ragionavo sull’architettura di quello che sarebbe stato il mio primo romanzo e cioè Gli anni al contrario, potessero andare a formare un corpo unico e rappresentare il mio libro di esordio. Però in quel caso l’editoria ha avuto la sua influenza, perché tutti mi dicevano che non avrei potuto esordire con una raccolta di racconti: non è un esordio forte, la gente non legge racconti. Allora ho continuato a tenerli da parte, a scriverli, a volte sono occasioni. Ci sono racconti per delle ricorrenze, per delle riviste e li ho tenuti sempre nel cassetto. Poi tra il primo e il secondo romanzo ho pensato che avrei voluto uscire con una raccolta di racconti ma forse non era ancora il momento. Dopo il secondo romanzo, dopo Addio fantasmi e lo Strega ho pensato che mi sarebbe piaciuto molto e questa volta mi sono fatta un regalo con un editore indipendente. Ho scelto Giulio Perrone, una piccola deviazione per dare il segnale che si potesse ancora sostenere l’editoria indipendente e fare dei progetti specifici con un mondo molto operativo in termini di ricerca. L’altro motivo è perché queste storie sono ambientate a Roma e mi piaceva l’idea di poter raccontare il mio percorso in questa città attraverso un passo breve ma non corto: il racconto.

Probabilmente il nostro pubblico la conosce come scrittrice di romanzi, ma so che ha pubblicato anche vari libri per bambini e ragazzi. Si parla ultimamente di libri inclusivi, che possano far inserire i ragazzi nel mondo globalizzato, senza pregiudizi nei confronti dell’immigrazione – penso in particolare alla biblioteca creata a Lampedusa con lo scopo di far inserire nella comunità i bambini immigrati – e della diversità. Crede che questa componente “propedeutica al mondo” vada inserita nei libri per ragazzi? Oppure ritiene che sia meglio svincolare la letteratura per l’infanzia dalla realtà, creando un piccolo mondo in cui i bambini possano rifugiarsi?

La letteratura per ragazzi è parte integrante della mia personalità sia come scrittrice che come lettrice, perché non ho mai smesso di leggerla, sia come critica perché ho pubblicato un saggio l’anno scorso che si intitola Un’idea di infanzia, in cui ho messo insieme una serie di articoli e piccoli saggi che avevo scritto proprio sull’infanzia. È una mia componente fondamentale anche come scrittrice, perché non riesco a immaginare di non scrivere anche libri per ragazzi. Naturalmente non credo che i libri per ragazzi siano un’isola. Posso considerarli un’isola felice perché contengono un’alta e nobile letteratura, ma credo siano letteratura che deve contenere il mondo: il male, la morte, le malattie, le pandemie e tutto ciò che va discusso anche con i giovani.

Infine, tipico delle nostre interviste è chiedere un libro che suggerisce per il 2020 e perché lo consiglierebbe per affrontare questo particolare momento.

È uscito da qualche settimana un piccolo libro prezioso, s’intitola Caccia alle streghe, guerra alle donne, di Silvia Federici, una filosofa femminista. È pubblicato da Nero edizioni e ci dice qualcosa sulla percezione della stregoneria e soprattutto sul motivo della caccia alle streghe nella storia, sulla connessione tra l’esclusione del corpo delle donne e l’avanzata delle recinzioni capitaliste. È un libro che ci aiuta a consolidarci in un femminismo non urlato, non banalizzato ma ben radicato nella sua origine.

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