È una giornata come molte altre, di quelle che ti mettono alla prova. Di quelle che procedono inesorabili, scuotendoti l’anima.
Stringo i denti in molteplici occasioni, ingoiando i bocconi amari che prevedo dovrò vomitare nella notte. Il mio stomaco non è mai stato efficace nel trattenere i cibi pesanti.
Anelo l’atto liberatorio, pregustando la quiete che ne seguirà. Il silenzio dopo la tempesta.
Prendo una pastiglia per la nausea, sperando che attutisca il fastidio che deriva dalla somatizzazione dell’ansia. Lo faccio di nascosto, perchè non voglio che le persone accanto a me si preoccupino.
Proprio in questo momento, infatti, non vorrei aver scritto queste parole.
Mi sono ripromesso di scrivere senza pensare, di lasciare sfogare l’arte come processo di catarsi. Mi sono ripromesso di esprimermi, ma mi sento egoista.
Sono troppo abituato a trattenere i conati, per la paura di rimettere al mondo il dolore che mi ha fecondato. Quindi assorbo, riempiendo i polmoni dell’aria tossica che le persone espirano al mio fianco. La accolgo come fosse mia, e la rigetto via nella solitudine della notte, ripulita dai mali del mondo.
Sono un filtro, ma non c’è nessuno a ripulire la fuliggine che permane tra le mie pareti logore.
Finalmente le luci delle case si spengono, le persone riposano e i sogni si accendono. Ed è in questo momento che, finalmente, sapendomi esterno alle dinamiche gravitazionali, riposo.
Le lacrime scendono da sole, inizialmente rallentate dai preconcetti di mascolinità tossica, radicati nella stessa società che ci fa respirare plastica.
Non sento il bisogno di definirmi donna in quel processo, perché nel farlo accetterei l’associazione. Implicitamente, tacitamente, legherei Donna a Fragilità. E allora mi cullo inerme, lasciando il Nilo straripare dai miei occhi stanchi.
Sento il fiume lavare via le impurità, nel processo di erosione che solo l’acqua può pazientemente attuare.
Mi faccio sempre più piccolo, creando un mio spazio parallelo all’angolo della stanza. Le forme vengono confuse dalle tenebre che le avvolgono. I miei occhi si appannano, come il vetro dell’auto durante la tempesta. I suoni della giornata, ovattati e smarriti, rimbalzano via, lasciando posto al silenzio più assordante. Mi piego, annullando il mio corpo nel punto più basso del pavimento. Mi comprimo, tenendo salda la testa tra le mani. Mi scompiglio i capelli, lasciando che le lacrime s’insinuino tra i pori. La mia anima grida, liberandosi, e lentamente torna al suo originario splendore.
Io piango, e puoi farlo anche tu.
di Lorenzo Foschi
E tu: hai scritto un racconto, una poesia, una recensione o un articolo di critica e vuoi vederlo pubblicato? Inviacelo tramite email: redazione.incendiario@gmail.con