Era il 1888 quando Giovanni Verga pubblicò la prima edizione del Mastro-don Gesualdo, che nel progetto dello scrittore doveva rappresentare il secondo dei cinque componenti del Ciclo dei vinti, rimasto incompiuto. Risulta quasi superfluo sottolineare il peso che l’opera assume nella definizione e nell’affermazione a livello letterario della corrente verista. Ancora meno originale è dire che questi scrittori, come si evince dal nome, si pongano l’obiettivo di rappresentare il vero senza giudizi, eppure, per quanto banale possa sembrare, ci serve come punto di partenza per la seguente analisi.
Le domande da cui tutto ha avuto origine sono state, al di là delle correnti, delle scuole di pensiero o del talento artistico: cosa rende uno scrittore un grande? E in particolare, cosa lo distingue dall’enorme massa di altri scrittori coevi o che si pongono sulla stessa linea di scrittura e ricerca?
Non esiste una risposta univoca in grado di mettere tutti d’accordo. Tra le molte caratteristiche che ritengo siano in grado di elevare il singolo dalla folla, la capacità di cogliere e fotografare aspetti dell’essere umano che si ripetono nel tempo, dunque di leggere dentro i propri simili e dentro sé stessi per darne una rappresentazione chiara, ha un ruolo di rilievo. Verga in questo mostra un’abilità rara che si esplicita in gran parte delle sue opere, ma è ricollegando una precisa parte del testo al periodo storico attuale, che si capirà meglio quanto appena espresso.
L’idea nasce quasi per caso dalla lettura dell’opera durante i mesi di quarantena imposti a causa del dilagare del Covid-19. Nella terza delle quattro parti, a cavallo tra il primo e il secondo capitolo, a Vizzini arriva il colera, inaspettato e incontrollabile. Il virus scatena il panico: la gente fugge, si rintana in casa, diffida di chi prima era amico (anche se ci sono pochi amici nel Mastro-don Gesualdo), accusa chi viene da fuori o non è parte della comunità. Tutte scene che suonano abbastanza familiari se ci spostiamo indietro di poco tempo, precisamente tra il febbraio e il marzo del 2020. Ciò che impressiona è il fatto che ad oltre un secolo di distanza le pagine dello scrittore siciliano potrebbero essere confuse con una cronaca contemporanea, fatti pochi piccoli aggiustamenti al testo per adattare alcuni dettagli ai nostri tempi.
«Intanto incalzavano le voci di colèra. […] A Siracusa una giovinetta bella come la Madonna, la quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro, e andava spargendo il colèra con quel pretesto, era stata uccisa a furor di popolo. La gente insospettita stava a vedere, facendo le provviste per svignarsela dal paese, al primo allarme, e spiando ogni viso nuovo che passasse. […] Invece spuntò il giorno del Giudizio Universale. Ciolla era andato a ricorrere dal giudice che gli avevano avvelenate le galline: le portava a prova in mano, ancora calde. Tornò in casa don Nicolino scalmanato, ordinando alle sorelle di sprangare usci e finestre e non aprire ad anima viva. Il dottor Tavuso fece chiudere anche lo sportello della cisterna. I galantuomini, rammentandosi il bel soggetto ch’era il Ciolla, quello ch’era stato in Castello colle manette, sedici anni prima, si armarono sino ai denti, e si misero a perlustrare il paese, se mai gli tornava il ghiribizzo di voler pescare nel torbido. La parola d’ordine era, sparargli addosso senza misericordia al primo allarme. […] Prima di sera cominciarono a sfilare le vetture cariche che scappavano dal paese. Dopo l’avemaria non andava anima viva per le strade. […] Il panico poi non ebbe limiti allorché si vide scappare la baronessa Rubiera, paralitica, su di una sedia a bracciuoli, poiché nella portantina non entrava neppure. […] Poi dei giorni sempre uguali, in quella tebaide; un sospetto continuo, una diffidenza d’ogni cosa, dell’acqua che bevevasi, della gente che passava, dei cani che abbaiavano, delle lettere che giungevano – un mucchio di paglia umida in permanenza dinanzi al cancello per affumicare tutto ciò che veniva di fuori, – le rare lettere ricevute in cima a una canna, attraverso il fumo.» (G. Verga, Mastro-don Gesualdo, Oscar Mondadori, Milano, 2013, pp. 227-234)
Questo è il mondo in cui Gesualdo Motta viveva, lui che, nonostante la sua avidità e il suo arrivismo, non mancava di offrire ospitalità al popolo di Vizzini. Ma senza voler analizzare il protagonista, cosa che distoglierebbe lo sguardo dal vero punto di interesse, torniamo a portare alla luce le analogie che il passo condivide con l’attualità.
Chiunque abbia vissuto i mesi del lockdown ascoltando e leggendo le notizie che senza sosta riempivano giornali e telegiornali avrà già colto i principali nuclei che ricorrono nel testo. Ora, onde evitare un mero collage di articoli presi da uno o dall’altro giornale, passerò in rassegna alcuni momenti del testo, collegandovi una sola volta un articolo in particolare, poiché nella maggioranza dei casi sarebbe risultato pleonastico; il fine è quello di mostrare il modo in cui ogni individuo, al di là della provenienza o dello strato sociale, abbia fatto i conti con uno stato emotivo che è tra i pochi davvero universali: la paura.
La paura attraversa i periodi storici senza cambiare, ma piuttosto cambia ciò che fa paura, anche in base allo sviluppo della mentalità di un certo periodo. Senza fare retorica, affrontiamo oggi un momento storico in cui la diffusione della paura non è soltanto una componente sociale inestinguibile, ma è amplificata dalla sconfinata pioggia di notizie, vere o false che siano. Ogni evento appare di conseguenza ingigantito, come se non ci fossero stati eventi grandi anche in precedenza. Il singolo caso e la singola notizia diventano la costante conferma di una percezione che è al contempo amplificata e ridotta: amplificata perché la somma delle notizie si ammassa come una Babele nella nostra mente che ad un certo punto non distingue più il vero dal falso; ridotta perché non si riesce, in buona parte dei casi, ad estendere il piano dell’informazione riguardo determinati avvenimenti e quindi li si riduce a quello dell’interesse personale o dell’effetto di essa sul singolo.
Senza spingerci oltre, passiamo in rassegna i vari punti che collegano Verga a quanto appena detto. Riprendendo il passo estratto dal Mastro-don Gesualdo, subito balza all’occhio un primo momento da segnalare: «[…] A Siracusa una giovinetta bella come la Madonna, la quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro, e andava spargendo il colèra con quel pretesto, era stata uccisa a furor di popolo». Vanno fatte le dovute premesse, la ripresa di questo passo è iperbolica se si guarda all’oggi, ma ciò che preme sottolineare è quel furor di popolo, al quale per altro ci si appella con una certa costanza negli ultimi anni. Bene, quante volte è successo di accusare in massa chi andava a fare la spesa, chi portava il cane a passeggio o chi andava a correre? Non che si vogliano giustificare i cosiddetti furbetti, ma è evidente che il furor di popolo, che ormai si esprime sulla piazza dei social con maschere virtuali e non nel teatro di Siracusa, abbia beneficiato del recente scatenamento. In rete si è letto di tutto e, come al solito, si è andati oltre un limite che ormai non esiste più.
Scendendo di qualche riga, la questione si fa ancora più interessante, perché non vi è più una relazione iperbolica a legare i due elementi: «[…] La gente insospettita stava a vedere, facendo le provviste per svignarsela dal paese, al primo allarme, e spiando ogni viso nuovo che passasse».C’è davvero molto in queste pochissime frasi, che risultano emblematiche. Il sospetto torna anche nelle pagine successive con forza, ed è ciò che quasi tutti abbiamo provato in questo periodo, che si trattasse del vicino di casa, o che, in rari casi, si trattasse delle stesse persone con cui condividiamo il tetto ogni giorno e che ancora potevano lavorare con enormi rischi durante questa buia primavera. Tutti abbiamo guardato con sospetto qualcuno, non solo chi ci stava accanto letteralmente, ma anche i volti nuovi o, per meglio dire, diversi. La paura ha dato sfogo a ciò che c’è di represso in tutti. Quante volte si è sentito parlare di italo-cinesi allontanati, esclusi e guardati male soltanto perché camminavano per strada o lavoravano in un negozio? Quante volte i tratti somatici hanno scatenato caos e rigurgiti xenofobi? A testimonianza di ciò basta questo articolo, che è uno tra i molti circolati nelle prime settimane di diffusione del virus:
«Il 14 febbraio, giorno di San Valentino – annuncia il presidente della comunità (italo-cinese) Giorgio Wong – dalle 15 alle 18 manifesteremo in largo Pertini, davanti al Carlo Felice – perché è arrivato il tempo di reagire: queste paure stanno mettendo in ginocchio il commercio, la diffidenza si è trasformata in discriminazione e intolleranza: mi hanno informato di episodi di bullismo nelle scuole, soprattutto alle medie, dove alcuni bambini cinesi sono stati presi di mira con frasi del tipo “sei malato, vattene via” o addirittura isolati e spintonati dai compagni […]La situazione è pericolosa, perché vuol dire che nelle famiglie non vengono date informazioni corrette e i bambini di conseguenza si sentono in dovere di difendersi da un nemico di cui siamo i primi a preoccuparci». (Coronavirus, a Genova la comunità cinese in piazza il giorno di San Valentino, Stefano Origone, 13 febbraio 2020, la Repubblica)
Paura e ignoranza, quest’ultima tanto esaltata dalla massa di coloro che senza titolo si sono improvvisati esperti di ogni campo del sapere (ma questo rischio nell’era dei social lo aveva anticipato saggiamente Umberto Eco), hanno formato una combinazione letale e numerose sono le notizie di comunità costrette a dover pregare per non essere messe in un angolo e guardate con sospetto. Le stesse due sono alla base delle enormi code di persone affollate in file chilometriche davanti ai supermercati per accaparrarsi il maggior numero di provviste possibile in vista dei mesi che sarebbero seguiti, come i vizzinesi che facevano le scorte per allontanarsi dal paese il prima possibile, senza badare ai pericoli. E come non parlare, rimanendo in tema di partenze improvvise, di chi il giorno prima della chiusura della Lombardia correva per la stazione ferroviaria alla ricerca di un treno per fuggire da Milano, uno dei centri più colpiti nei primi tempi?
L’insistenza di questa analisi sulla paura non vuole certo escludere tutte le altre componenti di una situazione quanto mai complessa, ma la volontà è piuttosto quella di soffermarsi sul modo nel quale questa sia in grado di deformare la percezione del reale e del giusto in una situazione di pericolo avvertito come incombente. Un tale risultato non è solo il prodotto di una recente trasformazione della società, quanto piuttosto una costante dell’essere umano che rimane pur sempre un animale, per quanto cerchi di negarlo col tanto esaltato progresso. Questo Verga lo aveva espresso in modo esaustivo e queste pagine lo mostrano chiaramente.
Come si trasforma l’uomo quando sente di doversi mettere in salvo? Come crollano molti dei suoi valori davanti all’ignoto che gli piomba addosso imprevisto? Mastro-don Gesualdo fornisce la risposta dello scrittore siciliano a queste domande e si mostra quanto mai attuale nella sua lettura dopo molti decenni dall’uscita e, che piaccia o no, ci mette davanti a una delle realtà del nostro essere.
Leonardo Borvi