Il dolore della stasi: Il colibrì

Recensione di il colibrì di Sandro Veronesi

«Lo sai, dunque, che questa è la descrizione del nostro amore, che io non sia mai dove sei tu, e tu non sia mai dove sono io?» (p. 182)

Leggiamo questa frase e subito l’occhio va, volenti o no, alla parola centrale (di questa frase o della nostra vita?), amore, omphalos grafico ma anche tematico, in apparenza. La verità è che con questo romanzo l’amore ha ben poco a che fare, come del resto questo aforisma di Manganelli. Non è l’amore che ci deve colpire, ma l’incapacità di essere insieme, nonostante l’amore, il non essere mai dove l’altro sta aspettando.

E Veronesi in Il Colibrì parla proprio di questo: di Marco, che non riesce mai ad arrivare in tempo, ad essere veramente protagonista della sua vita. Marco che la madre soprannomina colibrì perché minuto, ma non è solo questo. E nelle parole della donna che lo ama (ma allora c’è l’amore?) troviamo la vera essenza del colibrì, «[…] perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei.» (p. 296).

E a questo rimanere fermo, quasi impassibile, fa da contraltare una vita che lo avvolge, che quasi lo sommerge con il suo essere imprevedibile, con il suo essere dolorosa. Marco Carrera quasi come vittima sacrificale attorno a cui tutto crolla, pedine di un domino che sempre più velocemente si abbattono una sull’altra. Ma è la sua reazione a lasciarci sconcertati, senza difesa, perché si perdona tutto ad un uomo che ha perso tutto, perché siamo abituati a giustificare qualsiasi atteggiamento da chi è avvolto dal male, dal lutto, dalla disperazione. Quasi quasi ce lo aspettiamo e aspettiamo di fare la nostra parte, di provare, o di fingere compassione, di dire che va bene così, non sei in te, lo capisco, passerà, tu intanto non ci pensare e sfogati. Ci appaga questa sensazione, quella di aver porto l’altra guancia alla rabbia, di aver offerto una spalla su cui piangere. Ma Marco Carrera fa l’inaspettato, non piange, non si dispera, non chiede la nostra compassione: inscalfibile, lascia che ogni cosa accada, talvolta la asseconda in un gioco che è quasi masochista. E va avanti, aspettando la bufera successiva.

Una vita che all’apparenza è comune, ordinaria: una moglie, una figlia, i genitori ancora in vita, un fratello e una sorella. Eppure da subito si delineano particolari che potrebbero minare quest’equilibrio. Un uomo misterioso che sostiene di sapere molto di più di quanto sa lui su sua moglie. Una bambina, sua figlia, che fa un gioco strano, insolito, a cui i genitori non vogliono dare peso, rendendosi inconsciamente conto che sarebbe un peso che non saprebbero sopportare. Un padre che gli chiede qualcosa che mai nessuno si aspetterebbe di dover fare, figurarsi un figlio nei confronti del padre. Un fratello e una sorella che sono assenti, ma per motivi diversi. E poi Luisa, presenza-assenza costante, amante, amica, sorella, l’unica ad aver capito come stare accanto ad un colibrì, ma senza mai avere il coraggio di farlo per davvero.

Ma dell’amore, come detto, importa poco. Questo è un libro sul dolore, che non è quello del protagonista come sarebbe lecito aspettarsi, ma che alla fine è il nostro. Perché leggendo riflettiamo sul nostro dolore e ci facciamo consolare da Marco Carrera, che non ci mostra una via d’uscita, ma ci dice che ci possiamo convivere, con quel dolore. E quasi quasi ci crediamo, gli crediamo, se non fosse che alla fine ci dimostra di non riuscirci nemmeno lui.

Rachele Callegari

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