di ester pagano
Guardo il mondo finire
Attraverso i tuoi occhi,
e da essi prendo ogni bellezza,
per trattenermi in vita.
Se solo tu fossi Dafne e io Apollo,
e restare come nell’opera del Bernini,
per l’eternità a inseguirti,
immortali,
l’uno all’altra per sempre incatenati.
Aggrappandomi un’ultima
eterna volta al tuo corpo,
non guardo più il mondo finire,
ma anzi ricominciare,
rifiorire in te mille
e mille eterne volte ancora.
Un faro è puntato
sui miei occhi
e mi chiede di vederci bene,
di vederci chiaro,
di vedere,
ma io sono
piccole sviste
e negligenze,
cattivi accorgimenti
e passioni labili.
Così sbagliato
sentire a tal punto l’esistenza
come non avessimo nient’altro
che il sentire.
E allora il faro si spegne,
la luce svanisce,
io non brillo più,
ma sento.
Vedrai ancora la poesia
e sarà tutta nel battere rapido e deciso del percussionista sul tamburo,
nel sorridersi di due violinisti
appena prima di suonare
e nell’accordo, tacito, di un contralto e di un soprano
che intonano la stessa melodia.
Vedrai ancora la fragilità
e sarà tutta nel silenzio
assordante,
che precede l’applauso della folla,
tra le mani dell’artista che dirige la sua orchesta.
Vedrai ancora la poesia
e sarà tutta nell’applauso scrosciante
e fragoroso,
donato dal pubblico che si alza in piedi,
dopo mesi di silenzio.
Vedrai ancora l’immortalità
e sarà tutta in questa poesia.
Un uomo si dondola sulla luna
sua altalena.
Fa avanti e indietro sulla città,
quieto andante
dirige la danza del mare.
E io lo osservo tutte le notti,
trovando un po’ di pace nella mia
irrequietezza.
Respiro:
sono viva,
andante anch’io, nel moto delle luci della città
che mi travolgono e mi coinvolgono,
danzando su un’altalena che non sta
sulla luna, ma sul mare
ed è tutta la città.
Sopravvissuti a una guerra
che non abbiamo mai smesso
di combattere,
nella Roma di Ettore Scola;
siamo noi,
Vittorio Gassman e
Nino Manfredi,
eroi della mezzaporzione
e dei sogni irrealizzati.
Alzeremo in alto le forchette
e i fiaschi già vuoti di vino
ridendo con Fellini e Mastroianni,
nella Roma di Ettore Scola;
perché C’eravamo tanto amati
e ci amiamo ancora
oggi.
Fugaci libertà
e schizofrenici desideri
tessono la tela di ragno
in cui mi dissolvo.