Qualche sera fa, mi è capitato di rivedere Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, pellicola del 2008 mai abbastanza apprezzata sia da critica di settore che dal pubblico. Sarà che sono in un momento molto particolare della mia vita, non so, fatto sta che mi sono fermato a riflettere più del solito sulla figura di Joker, probabilmente la miglior interpretazione della carriera del compianto Heat Leadger. In particolare, ho pensato alle due storie, ormai iconiche nell’immaginario comune, che il personaggio racconta per spiegare come si è procurato le cicatrici. Telecamera che gira, colonna sonora di altissima tensione (firmata da Zimmer) e una lama poggiata sulla bocca delle future vittime: “Vuoi sapere come mi sono fatto queste cicatrici?”. L’impatto visivo è fortissimo, almeno quanto la violenza che Joker sta per raccontarci: un padre violento e maniaco che prima accoltella sua madre, poi si gira verso di lui per pronunciare la domanda più famosa di quel film, “perché sei così serio?”; e una moglie che viene sfregiata da strozzini per non aver pagato dei debiti e lui, per dimostrarle il suo amore, che si sfregia a sua volta, ma viene lasciato perché lei non ce la fa neanche a guardarlo. C’è della follia in questi racconti, almeno tanta quanta sarà mostrata nei “giochini” che saranno proposti ai vari personaggi di turno nel corso della trama. Ma, mi vien da dire, ciò che emerge più significativamente da queste due tristi storie, è proprio il motivo del dolore. Essendo due versioni di come quest’uomo si sia procurato le cicatrici, noi non sappiamo in quale si trovi la verità; ma sulla lama del Joker non sono in gioco realtà o finzione, bensì il dramma di un uomo che è stato lacerato, più e più volte. Potremmo addirittura arrivare a pensare che le storie siano vere entrambe, ma che differenza farebbe? Ciò che è vero è il dolore che un bambino, prima, e un uomo, poi, hanno provato così intensamente da provocare una frattura sia nella mente che nell’anima, così ampia che, probabilmente, non sarà mai risanata. Le cicatrici sul volto, in questo senso, non sono altro che il simbolo visivo di questo dolore, che non abbandonerà più il personaggio di Joker, che, così, è portato a separarsi violentemente dal mondo esterno, raggiungendo uno stato di follia. Ma questa condizione è solo una giustificazione che tutti gli altri (noi altri) si danno per le atrocità che Joker stesso elabora e commette, il tutto sullo sfondo di una risata tanto beffarda quanto vuota di divertimento. Il motivo della tragedia dunque è lampante, restituendo la figura di un uomo che, deluso dalla vita, cerca sistematicamente di dimostrare qualcosa. Ma cosa ci sarebbe da dimostrare? “Ciò che non ti uccide, ti rende più strano”, sarà la battuta di esordio di Joker stesso. Quella che, dunque, potrebbe apparire una fuga dalla realtà, di primo acchitto, invece diventa un’immersione totale in un mondo brutale, dove l’unica alternativa al senso comune è proprio il non-senso, ovvero la follia. Se, dunque, in un primo momento, Joker ci si presenta come completamente altro da ciò che può essere considerato un uomo, diventa parabola dell’umanità stessa. Non può, in questo senso, non venire in mente la storia di Mattia Pascal: un uomo comune – il cui motivo dell’inettitudine si palesa proprio nella mediocrità e qualunquismo, nel senso di generalità assoluta che è anonimato – il quale, lacerato dalla morte della figlia, fugge via. Ironia della sorte, al suo ritorno accade un qui pro quo assolutamente inaspettato che dapprima appare come una manna dal cielo, poi, in realtà, sarà solo una condanna alla non-esistenza. Si può instaurare un parallelismo tra Joker e Mattia Pascal: entrambi vivono un iter di dolore, negazione e accettazione; ma se il personaggio pirandelliano alla fine ha paura di non-essere, nonostante si traduca in potenzialità assoluta, ecco che il Joker nega anche quella, diventando l’anti-scopo, proprio perché non fa piani, ma provocazioni. Dunque, è un parallelismo che restituisce l’immagine di un dolore demistificato, che viene accettato nella sua negazione, contraddittorio e volutamente in contrasto con una società positiva, che propina invece la necessità del “lieto fine” – il che suona già di per sé come una menzogna a tutti gli effetti. Joker non costruisce nulla, semmai de-costruisce la società contemporanea; ciò pone una gran contraddizione che può esplicarsi solo nella complessità del mondo in cui viviamo. Come Mattia Pascal, c’è in Joker una volontà di base di fuggire, ma ovunque si arresterà la corsa, comunque quello sarà un luogo fisico, soggetto a leggi e paradigmi, il che significa che non sarà mai possibile un non-esserci davvero. Dunque, il non-senso restituisce un senso all’essere, che lo faccia a colpi di lama o di domande: il problema è che non è detto che questo nuovo essere ci piaccia – per questo è più facile empatizzare con Pascal piuttosto che con Joker. Non c’è identità che tenga se non quella dell’apparire, dunque è più semplice affermare che il pagliaccio nolaniano sia cattivo e folle, mentre il povero Mattia sia semplicemente un debole. Ma sono tutti alibi volti a giustificare una fuga ancora più drammatica, la più drammatica, ovvero quella dalla nostra realtà. Dunque Joker e Pascal diventano simboli di un duplice fuggire, dove il primo scappa sistematicamente dal senso comune e dal dolore che il mondo rifiuta e mistifica, mentre il secondo scappa proprio dalla possibilità di libertà. Ma c’è libertà nel non-essere? Ancora la lettura di Pirandello risulta illuminante: Vitangelo Moscarda è l’incarnazione dell’accettazione di questa doppia fuga, che non può non tradursi nella follia. A questo punto, il parallelismo con Joker diventa ancora più significativo, proprio in questo sorriso, che non è specchio di divertimento, ma fuoriuscita da una realtà dalla quale, nonostante tutto, non si riesce a evadere; allora c’è ironia, c’è epifania e si giustificano le amare parole del pagliaccio che, a un certo punto, dirà: “ora sorrido sempre”. C’è un lato buffo, ma in realtà, è il reale che torna nella sua brutale mondanità. Abbracciando il dolore, che non è semplicemente un sentimento o una manifestazione di un qualcosa che fa male, sia Joker che Vitangelo Moscarda si trovano davanti a una vera e propria crisi esistenziale, che parte da un qualcosa di materiale, fisico, per poi lacerare l’anima. Entrambi sono violentemente chiamati a scegliere se essere e, nel caso, chi essere. Ciò che per Joker è il coltello, ecco che per Gengè è il difetto al naso. Ma è il dramma intrinseco nell’aver provato sentimenti che distrugge questi personaggi. La lama che incide il viso del rivale per eccellenza di Batman, in realtà, è solo un simbolo della fragilità che lo stesso Joker si è concesso. Alla stregua, Vitangelo Moscarda e Mattia Pascal sono stati messi davanti al provare dolore, in modi diversi (il primo ponendosi problemi che altri, volenti o nolenti, non si porrebbero mai, il secondo davanti al fatto che non basta esserci per dire di sé che si è, ma occorre che ci sia anche qualcun altro ad attestarlo). Dunque, questi tre personaggi restituiscono umanità, pur fuoriuscendone: appaiono contraddittori, inducono lo spettatore/lettore a formulare una scelta o un giudizio. Ma cosa c’è di più umano della contraddizione? Il dolore, così demistificato, acquisisce la funzione terapeutica della crescita, che conduce sulla via della Verità, che però non è da intendere come universale, nel senso del greco aletheia, bensì come un qualcosa di inconsistente che dà un senso al quotidiano non-senso. Così Gotham diventa il mondo e Joker una persona coraggiosa di essere sé stessa, forse l’unica vera persona tra le altre. Si instaura, dunque, un’iperbole della follia come realtà che diventa, quindi, una negazione dei paradigmi educativi, dei valori e dell’esteriorità, una non-menzogna, che non si costruisce sul superamento dei traumi come razionalizzazione, ma come un vivere a pieno i sentimenti, cogliendo di volta in volta un briciolo di autenticità in più. Ma ciò fa paura: non è facile essere sinceri con sé stessi, per questo i più nella società del consumo e dell’ottimismo, rimettono in scena il ritorno alla biblioteca di Mattia Pascal. Ma esistono ancora dei Vitangelo Moscarda? E dei Joker? Sebbene sia diffuso il pregiudizio che, almeno nell’attuale società Occidentale, siamo estremamente legati all’apparire, alla sinteticità e al vuoto che suggerisce l’essere nel social, è certo che, almeno nell’intimo, ciascuna persona stia combattendo contro sé stesso e, in un certo qual modo, sia anche giustificato a non volerlo esternare. D’altronde, lo stesso Derrida, nel suo saggio Donare la morte (Donner la mort, tr. Italiana a cura di L. Berta, Jaca Books, 2002), dà un’efficace immagine dell’intimità del dolore e, in un certo qual modo, di quanto sia fondamentale la dinamica della singolarità. Ma non è detto che il rapporto che si instaura tra dolore e singolarità sia sinonimo di solitudine. Certo, Joker, Pascal e Moscarda appaiono effettivamente soli, ma soltanto perché non sono compresi. Dunque, diviene necessario che anche gli altri siano mossi da una volontà di superamento del reale, il che apre al motivo dell’accettare la non-accettazione. L’ironia trova dunque luogo e ragion d’essere proprio nella riappropriazione del dolore, che diventa sinonimo di emozionalità vera. Se la colpa di Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda e Joker è quella di aver provato emozioni in modo così autentico e sincero, allora è auspicabile la volontà di vivere qualcosa altrettanto penetrante, che mette in crisi l’unità della nostra persona, le nostre certezze, denudando la nostra autenticità di persone fragili, facendoci sentire vivi. Non si parla necessariamente di traumi. Certamente non auguro a nessuno di vivere le storie raccontate da Joker, né tantomeno di trovarsi ad ascoltarle con una lama poggiata alla bocca! Ma quel che è certo, è che questi personaggi lasciano un contenuto ben preciso: non si deve aver paura di abbandonarsi alle proprie emozioni. La tragedia è che c’è sempre un prezzo da pagare, ma è proprio in questo motivo che è racchiusa l’artisticità e, al contempo, l’attualità di questi personaggi. Il timore più calzante si dispiega proprio nell’imprevedibilità delle conseguenze di una negazione del reale – che poi è la ragione portante delle differenze che sussistono tra i tre tipi di follia incarnati dai vari personaggi citati. Ma se il senso della nostra vita è propriamente l’essere, allora l’esser compresi si disgrega, perdendo di significato, trasformandosi in follia. È buffo che siano proprio un pagliaccio o due anonimi inetti a darci questa lezione, ma d’altronde, la complessità del mondo non può che scaturire, ancora una volta, un sorriso ironico. E non resta che volgersi a tutti quelli che non riescono ancora a cogliere questa ironia collaterale e, semplicemente, chieder loro: “perché sei così serio?”.
Lorenzo Valerio