La banalità del male nel Trilus and Cressida

Insensatezza della guerra e banalizzazione degli eroi del mito

Hannah Arendt e William Shakespeare. La filosofa che ha illuminato con lucidità i drammi e le aporie del Novecento. Il drammaturgo inglese, cantore delle luci e delle ombre del Seicento, dell’armonica visione elisabettiana e del suo disgregarsi. Due spiriti irriverenti ed anticonvenzionali, capaci di andare oltre le visioni semplici e scontate, rassicuranti e manichee. Di scavare nelle contraddizioni più profonde dell’individuo, facendone emergere la componente banale. Figli di due epoche ben distinte, tuttavia accomunati dal saper riconoscere e rappresentare la perdita delle certezze, caratteristica dell’uomo contemporaneo. La modernità di questi due autori provoca un cortocircuito che avvicina i due testi in questione: La banalità del male ed il Troilus and Cressida. I protagonisti di queste due opere – l’una è il resoconto del processo ad Eichmann, accusato di efferati crimini nazisti; l’altra è un dissacrante problem play, a metà tra commedia e tragedia – sono i banali eroi moderni. Capricciosi, mediocri, privi della perfezione degli statuari eroi antichi. Capaci di commettere il male senza alcuna motivazione nobile, grandiosa. La guerra di Troia dura da ben sette anni, si combatte e si muore senza capirne il senso: tutto è ridotto ad una questione di cupidigia e lussuria. Eichmann commette degli orrori inauditi, mosso da futili motivi quali la possibilità di far carriera all’interno della potente macchina burocratica del Terzo Reich e la totale obbedienza agli ordini.

La banalità del male è un titolo ossimorico; come può essere definito banale un male efferato, in grado di sterminare milioni di persone? Hannah Arendt con tale espressione apparentemente provocatoria ha saputo cogliere il dramma dell’individuo e il ritratto del criminale contemporaneo. Gerusalemme 1961. In qualità di inviata del New Yorker, prende parte al processo contro Adolf Eichmann, il “mostro nazista”, considerato il responsabile della deportazione e uccisione di milioni di Ebrei. Arendt va oltre questa impostazione manichea e lo descrive come un individuo banale nella sua mediocrità. La banalità emerge dagli stessi complici del “mostro nazista” i quali non sono “né gangster né persone della malavita, li rincontreremo: medici, avvocati, studiosi, banchieri ed economisti” (Arendt: 26). Degli aguzzini ben radicati nella società. Eichmann ha organizzato la deportazione sottostando unicamente alle direttive ricevute, non per un fanatico attaccamento ad un’ideologia e ad un piano superiore. Un mostro talmente mediocre che “avrebbe ucciso anche suo padre se solo qualcuno glielo avesse ordinato” (Arendt: 30). Altro aspetto mostruoso: non mostra il minimo pentimento – sentimento liquidato dal diretto interessato come “roba da bambini” (Arendt: 33). Il suo unico obiettivo è quello di occupare un ruolo nella società, di vestire i rassicuranti panni del burocrate e diventare una rotella dell’ingranaggio. Rinuncia alla propria coscienza ed alla possibilità di scegliere autonomamente. Non ha mai letto il Mein Kampf né si è informato sul programma politico: un mostro di malvagità nutrito dal nulla. Un individuo insoddisfatto, mosso dalla volontà di riscattarsi attraverso la tanto agognata carriera. Criminale privo di fanatismo, bisognoso di un posto rassicurante nella società. Il responsabile della deportazione è un semplice impiegato, non è parte della cricca al potere: in fin dei conti, una vittima. Gli stessi psichiatri che lo visitano non riconoscono in lui malvagità ma, al contrario, la mediocrità di una pallida figura di burocrate – “più normale di quello che sono io dopo che l’ho visitato” (Arendt: 34). È sconcertante; il “mostro nazista” non uccide per odio ma solo per rispetto degli ordini, per totale annullamento della sua capacità decisionale. Un individuo che si lascia assorbire dall’organismo collettivo. Un eroe contemporaneo che agisce a detta di Max Weber sine ira et studio, demolitore della personalità. Incapace di mettersi nei panni degli altri e di pensare. Assume i connotati dell’idiota, di un uomo che non si lascia arricchire dalla tensione del dubbio. Un male lontano dalla necessità mitica, banale – “non era né uno Iago né un Macbeth e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che fare il cattivo per fredda determinazione” (Arendt: 290) – e per questo ancor più spaventoso. Arendt smaschera la banalità e ci rende consapevoli dei profondi pericoli derivanti da un male superficiale, depersonalizzato, mondano, alla stregua dell’individuo moderno.

Il Troilus and Cressida è un’opera irriverente, anticonvenzionale. Straordinaria per la sua modernità. La storia d’amore dei due omonimi protagonisti è un pretesto per trattare della tanto cantata- e decantata- guerra di Troia. L’Iliade gioca con l’immaginario di un lettore ben edotto di combattimenti, tra lo sfolgorio delle armi e destini inevitabili. Tuttavia, Shakespeare non si adatta alla visione canonica della guerra come esperienza necessaria, rigenerante, catartica. Secondo l’ottica omerica la guerra è voluta dagli Dei, per mettere alla prova le virtù dei combattenti e per farli assurgere ad eroi immortali, a semi-divinità perfette, prive di contraddizioni e vacillamenti: pura luce eterna priva di zone d’ombra. Shakespeare è attratto, come il coevo Caravaggio, dai giochi di colore, dal chiaroscuro, dalla volontà di andare oltre una visione manichea, di chiara opposizione tra bene e male. Nell’Iliade la guerra è solenne, bella in tutta la sua violenza cieca. È evento radicale, di non ritorno: non c’è tempo per riflettere sulle motivazioni per cui si combatte, bisogna agire, gettarsi nella mischia, rischiare tutto. Gli stessi combattenti sono accecati, lungi da qualsiasi via di fuga dal ruolo che la società pretende da loro. La guerra rappresenta la parte profonda e terribile della psiche umana – the best and the bestial a detta di Faber. Shakespeare è attratto dalla potenza della guerra; tuttavia ne vuole mostrare la corruzione, l’offuscamento della patina dorata ed eroica.

L’opera si apre con un prologo armato in cui un personaggio vestito da guerriero delinea Troia come la scena e la guerra scatenata per adulterio come tematica. Shakespeare demitizza il topos della guerra per amore e la trasforma in un’assurda meschinità. La guerra che da sette anni miete vittime viene ridotta ad una banale motivazione: il fair rape di Paride verso Elena (definita “una sgualdrina”). Dunque, si combatte per uno stupro. I toni si smorzano e l’eroicità lascia il posto ad una carneficina causata dalla lussuria. Le certezze collassano, si genera un groviglio di sentimenti egoistici, antieroici. Il più classico e celebre dei drammi si trasforma in caos “senza centro e privo di eroi” (Troisi: 44). Il tragico assume le vesti del grottesco e del sarcasmo pungente. Shakespeare mostra i bagliori dell’ordine rinascimentale, capovolgendoli nel disordine del Manierismo. La guerra diventa allegoria della caduta. Il frastuono metallico delle armi lascia il posto ad un chiacchiericcio; invece di combattere, si discute. I dubbi arrovellano degli animi sempre più insicuri.

Troilo, giovane fratello di Ettore, si sveste dell’armatura; non può più combattere per la collettività perché deve affrontare una battaglia individuale, egoistica: quella per conquistare l’amore di Cressida. Egli diventa emblema dell’individualismo moderno. Nestore, anziano saggio rappresentante dei valori antichi, si lascia conquistare dalla meschinità di Ulisse – eroe moderno – e definisce la guerra a sportful combat, finzione, recita. L’insensatezza della guerra viene smascherata dal fool Tersite, il buffone, l’unico ad avere lucidità e a denunciare con linguaggio sarcastico la mancanza di eroicità e la confusione tra guerra e lussuria– war and lechery confound all! Ora imperano solo i vizi. Egli sa leggere oltre le maschere e scaglia invettive contro i falsi ideali a cui si appigliano gli eroi, dediti solo all’appagamento dei propri istinti più bestiali. La follia spinge ad una guerra ridotta a “lussuria e malattia” (Lombardi: 217). Nell’atto quinto dopo tante discussioni si scende in campo; tuttavia assistiamo a scontri individuali, a sotterfugi. Il celebre scontro tra i due eroi per antonomasia, Achille ed Ettore, si riduce ad un’uccisione sleale del troiano ad opera dei Mirmidoni, sicari di Achille. Quest’ultimo non si sporca le mani, ne esce formalmente pulito e vincitore. Tersite commenta lo scontro tra i due paladini innamorati, Menelao e Paride, ma al posto del valore vengono sottolineati la stoltezza e lo stato di uomini cornuti: due tori che si prendono a cornate. Ettore stesso, prima di essere ucciso, abbandona la sua eroicità impeccabile e, assetato dalla bramosia, uccide Patroclo solo per appropriarsi della sua bella armatura. L’acme della tragicità viene raggiunta con la morte dell’eroe troiano per eccellenza. Shakespeare non congeda il pubblico con una scena solenne; concede difatti l’ultima parola a Pandaro, personaggio meschino capace solo di lamentarsi per i suoi dolori alle ossa piuttosto che piangere la tragica fine della sua città. Non c’è posto per la catarsi, imperano cinismo ed indifferenza. Una vicenda emblematica della caduta delle certezze, priva di spiegazioni: “una storia sospesa e non finita” (D’Agostino: 64) che lascia l’amaro in bocca ed un sorriso sarcastico.

Gli eroi diventano dei pallidi soldati, inetti, che mettono in discussione i valori che per tradizione hanno giustificato la guerra. Si contraddicono a seconda del loro interesse, diventando antieroi e caricature. Il grande Achille è un capriccioso superbo che trascorre le giornate nella tenda, tra le braccia di Patroclo e le risate per ridicole imitazioni che scherniscono i compagni: invece di combattere, si prende gioco della guerra. Non vige più alcun rispetto, solo un arrogante eroe inconsistente che si nasconde dietro la propria reputazione. Un eroe accecato dalla propria fama e privo di raziocinio: per Tersite è solo pura carne da macello. Non scende più in campo, non agisce: è uno sleeping giant. Mera prestanza fisica, privo di progettualità, nelle mani degli stratagemmi di Ulisse. È mosso al suo dovere di guerriero solo dai sentimenti. Prima la gelosia e la paura di perdere la propria reputazione, con il rischio di essere sostituito nel ruolo di guerriero da Aiace; poi la rabbia per l’uccisione di Patroclo. Combatte per sé, non per la causa comune. La lucidità di Tersite sentenzia: too much blood and too little brain. Shakespeare congeda questo personaggio facendolo apparire come un sanguinario: fa sfregio del cadavere di Ettore trascinandolo come se fosse un trofeo. La demitizzazione si accanisce anche sul valoroso Aiace, dedito solo all’esaltazione dei muscoli, vanitoso e privo di lucidità, “un’enorme massa di carne con un cervello da uccellino” (Troisi: 71): la parodia di sé stesso. Tracotante e pieno di sé, è talmente stolto da non accorgersi di essere usato da Ulisse per far ingelosire Achille e spingerlo a combattere. Gli eroi hanno lasciato il posto a muscolosi ed irascibili adolescenti. Il saggio Nestore si trasforma in un ridicolo anziano pronto ad indossare l’armatura per rispondere alla sfida lanciata da Ettore: combattere per difendere la reputazione delle dame, non la patria. Tersite lo smaschera definendolo una “crosta di formaggio ammuffita”, del tutto in balia dei piani astuti di Ulisse. Quest’ultimo manipola persino Nestore tanto che i due appaiono come “una coppia di vecchi chiacchieroni che non ce la fanno a vincere una guerra senza l’aiuto di due giovanotti muscolosi, gelosi l’uno dell’altro” (Kott: 71). Il vecchio mondo valoroso è stato assorbito dal nuovo, fatto di astuzia e stratagemmi. Il capo dei Greci, Agamennone, viene schernito da Achille e Patroclo per l’andamento lento dovuto all’anzianità. Non gli viene mostrata reverenza e non riesce più ad imporre la propria autorità: alla sua guida ferma e decisa subentrano il capriccio e l’egoismo dell’individuo. Agli occhi di Tersite anch’egli è uno stolto: ha acconsentito a far scoppiare una guerra solo per assecondare i capricci di suo fratello e della sua disonesta cognata. Non vige più buon senso: he has not so much brain as ear-wax. Ettore mostra la sua anacronistica cortesia cavalleresca che lo porta a concedere una pausa allo stanco Achille –ormai non più abituato a combattere- a disarmarsi e a farsi uccidere a tradimento dai Mirmidoni. Il pius Enea, colui che salvò la sua famiglia dalla distruzione di Troia e rispettò il volere degli Dei gettando le basi per la futura potenza romana, appare del tutto stordito tanto da non riconoscere Agamennone. Paride, da coraggioso paladino disposto a tutto per difendere il suo amore, diventa un lecher: un lussurioso in balia dei capricci di Elena, che trascorre le giornate tra le sue braccia invece di combattere. L’individualismo moderno dilaga, soppiantando l’organicismo antico.

Nel contraddittorio mondo contemporaneo non c’è più posto per mostri tradizionali che non conoscono compromessi, disposti ad accettare un eroico destino di morte. La modernità ha dissolto questa grandiosità e ha posto in ognuno di noi il seme di malvagità che prima era concentrato in un unico individuo. Si dilegua la contrapposizione manichea tra bene e male. Le certezze a cui ci siamo per secoli appigliati collassano. La banalizzazione degli eroi e della guerra tuttavia è un’impresa necessaria. Arendt e Shakespeare illuminano tali tematiche di una giusta luce moderna; solo così possiamo essere pienamente consapevoli della pericolosità di un male che si camuffa in ognuno di noi, privo di ragioni d’essere e di radici profonde, capace di fertilizzare anche nel terreno più comune e normale. Per questo motivo, del tutto banale.

Eleonora Bufoli

Bibliografia

Arendt, Hannah, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, trad. it. a cura di Piero Bernardini, Milano, Feltrinelli, 2001

D’Agostino, Nemi, Shakespeare e i Greci, Roma, Bulzoni, 1994

Faber, Kristina, Shakespeare’s Troilus and Cressida: Of War and Lechery, in <Colby Quarterly> vol.26, articolo 8, 1990

Kott, Jan, Shakespeare nostro contemporaneo, trad. it. a cura di Vera Petrelli, Milano, Feltrinelli, 2006

Lombardi, Chiara, La guerra, l’amore, la scrittura in Troilus and Cressida, Tesi di dottorato, Torino, 2002

Shakespeare, William, Troilus and Cressida, trad. it. a cura di Iolanda Plescia, Milano, Feltrinelli, 2015

Troisi, Federica, Troilus and Cressida: la crisi del Rinascimento nel teatro di Shakespeare, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997

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