Oblio quotidiano

Dopo mesi assai travagliati, avevo finalmente finito il mio sudatissimo romanzo.
Deciso a festeggiare l’evento, indossai la felpa e mi diressi verso il pub in cui avevo cominciato a scrivere per bere qualcosa. Mi sarei sbrigato e avrei anche fatto una lunga passeggiata per il paese.
Subito dopo aver finito di bere due birre e aver scambiato qualche battuta con i proprietari, feci leva sulle gambe intorpidite e cominciai ad addentrarmi nei vicoli della città, che non guardavo con attenzione da molto tempo. Vidi per primo, uscendo dal locale, il campanile e quella crepa che da anni minacciava di espandersi e far riversare tutto il materiale nella piazza principale della città (non una grande tragedia, sarebbe perlomeno sembrata meno vuota); entrai poi nella via dei negozi, un accumulo di vetrine colme di maglioni, gioielli e ogni tipo di cianfrusaglia che si potesse desiderare, mai sinceramente amata per una grande repulsione nei confronti di questi. Le uniche eccezioni erano la libreria e La Carrozza, negozio gestito dall’anziano venditore di giocattoli, che deve il suo nome alla passione del suo proprietario per ogni tipo di treno, specie quelli a vapore.
Dopo essermi soffermato a guardare gli innumerevoli modellini, con tanto di omini dentro per renderli più attraenti agli occhi dei bambini, e sentendo le gambe in forma, decisi di proseguire il mio scivolare per le strade. Così superai lo stretto ponte che permetteva di recarsi da una parte all’altra del paese, i due archi di diverse altezze, il vicolo che conduceva fino alla banchina in cui attraccavano le barche, e infine mi trovai a guardare con la solita aria malinconica la foto in bianco e nero posta sulla lapide di mio nonno. Essendo alto, mi bastava sollevare leggermente i talloni dal suolo per vedere oltre il muro del vecchio cimitero.
Non era certo la morte in sé a mettermi tristezza, da tempo la vedevo come una grande liberazione per l’uomo, ma il constatare che quell’assenza sarebbe stata perpetua, così come quelle che sarebbero seguite. In fondo, è più facile morire che rimanere a guardare come lo scorrere del tempo porti via ciò che ci è caro, spesso solo per la consuetudine del saperlo intorno a noi.
Una volta esauriti i miei pensieri malinconici, ripercorsi tutta la strada di prima al contrario. Mi resi conto che per la prima volta da mesi la mente non aveva fantasticato su scene e situazioni inerenti al romanzo, nulla si era trasformato in parole e in parte mi sentii libero e soddisfatto, quasi mi fossi tolto un peso dalle spalle.
Guardai lo schermo del telefono e mi accorsi che erano passate le due, così decisi di rincasare velocemente: avevo da fare il mattino seguente. Entrai nel portone, al solito cigolante, salii le scale con le gambe che avrebbero percorso ancora chilometri e una volta arrivato davanti alla porta di casa infilai le chiavi nel verso sbagliato. La seconda volta fu quella buona.
La sveglia fu peggio di un pugno allo stomaco. Ci volle molto perché mi alzassi dal letto, ma alla fine della giornata avevo sbrigato tutte le mie faccende e me ne tornai stanco in camera mia. L’odore del tè che preparai fece viaggiare la mia mente verso i tempi in cui studiavo e mia madre lo preparava per farmi rifocillare nei momenti di pausa. Riuscivo a sentire ancora il sapore dei biscotti inzuppati e la gioia del naso e della bocca mentre lo sorseggiavo. Di certo il mio non era all’altezza di quei ricordi, forse anche perché nella memoria si innescano processi che evidenziano la parte più bella dei momenti che ci sono piaciuti, o almeno quella più intensa. Mentre lo finivo, potevo sentire la polvere dei biscotti affondata in precedenza scendere lungo la gola insieme agli ultimi sorsi. 

Decisi di avvicinarmi alla scrivania e ammirare finalmente il frutto del mio lavoro. Di solito stampo i miei scritti per ridurre il pericolo che vadano perduti per qualsiasi motivo. Anche questa volta sarei rimasto fedele alla mia linea: avrei messo in moto la stampante, che avrebbe a sua volta fornito alle mie parole un luogo concreto in cui legarsi e ritessere su carta le fila della storia. Ascoltavo il rumore meccanico con cui l’inchiostro nero veniva lanciato sulla pagina e vi si aggrappava per non confondersi con quello della lettera successiva o peggio di quella precedente, da cui si sarebbe sentito oppresso, terrore sconosciuto a congiunzioni come la “e” o a preposizioni come la “a”. Una volta impressa l’ultima lettera, ritirai il blocchetto di fogli ancora caldo e lo fermai con una grande molletta nera, non potendolo rilegare da me.
La tentazione di cominciare a leggerlo fu quasi insostenibile. Certo, lo avevo già riletto e corretto più volte, avevo scucito e ricucito le sue parti con attenzione pari a quella di un sarto, avevo eliminato le sviste, abbellito la forma, da sempre mio grande pallino, e infine lo avevo dato alla luce, anzi, la stampante lo aveva fatto; tutto questo non si avvicinava nemmeno lontanamente al piacere che mi avrebbe dato la visione del testo su carta.
Alla fine la pazienza ebbe il sopravvento, ma più di questa la ragione. Avrei dovuto infatti placare l’entusiasmo che mi animava prima di dedicarmi al racconto con sguardo più distaccato. Decisi di attendere qualche giorno, dopotutto, non avevo alcuna fretta. Probabilmente lo avrebbero letto i soliti amici e qualche conoscente nella speranza di trovarci del buono dentro, ma comunque nessuno per cui avrei dovuto sbrigarmi.
Passai giorni gradevoli. Gli amici tornarono a vedermi dopo settimane in cui ero stato poco meno che un fantasma chiuso nella prigione della scrittura e finalmente tornai alla vita normale, tra una partita di calcetto e qualche birra dopo il lavoro. Quel periodo che mi sembrò una vacanza.
Gli stessi amici insistettero per leggere il lavoro che mi aveva assorbito così tanto. Alcuni di loro avevano elogiato il mio primo scritto, altri invece lo avevano ritenuto legnoso, rievocando il ricordo di un vecchio professore del liceo; a tutti loro risposi con un secco quanto temporaneo “no”, avrei infatti dovuto essere io il primo a rileggerlo e insistetti affinché occupassero il tempo con i loro Lovecraft, Rousseau e Dostoevskij. Non mi fecero molte altre pressioni, sapevano che con me sarebbero state inutili.
Passate un paio di settimane dalla stampa, iniziai la lettura: capitolo uno, lo rilessi con attenzione perché tengo molto all’incipit, due, tre, cinque, otto, tredici, ventuno, tutto in pochissimi giorni, sapevo che mi stavo avvicinando alla fine e per la prima volta potevo ritenermi soddisfatto.
Divorai anche gli otto capitoli successivi e finito l’ultimo periodo del ventinovesimo, il penultimo, mi fermai per prepararmi al finale, importante al pari all’inizio, quasi non lo conoscessi.     
Andai a pagina 433.
In poco tempo anche quelle pagine erano scivolate sotto le mie mani. Nel cominciare l’ultima sentii il solito misto di tristezza e vuoto che la conclusione di un libro mi lascia dentro. Vedevo risolversi davanti ai miei occhi la trama, che ora acquisiva tutto il suo senso.
Poiché amo terminare un racconto di qualsiasi genere con una frase che rimanga impressa, mi apprestai a leggerla con trepidazione per saggiarne l’effetto che la carta mi avrebbe regalato, ma l’unica sensazione che provai fu un’immensa e scoraggiante sorpresa nel non trovarvi scritto nulla, nemmeno una delle parole che avevo elaborato. Pensai che l’inchiostro mi avesse tradito proprio sul più bello, ma non feci drammi e con calma cercai tra i documenti del computer, per copiarla a penna e finire il cattivo lavoro della stampante. Ritrovai il documento e scorsi le pagine fino ad arrivare all’ultima. 
Nulla. Nemmeno una delle parole che avevo elaborato per chiudere il cerchio della narrazione. Cominciò a serpeggiare nei miei pensieri una certa sembianza di panico, che chiunque avrebbe detto malcelato. Un fatto all’apparenza di poco conto e per nulla irrecuperabile mi aveva gettato nel panico per un solo e semplice motivo: non ricordavo più la frase conclusiva!
Seguirono minuti in cui cercai ossessivamente in ogni angolo della casa, a partire dai miei diari accozzati in cui annotavo frasi, pensieri e aforismi, per arrivare ad ogni scatola di scarpe, sotto le posate, sopra gli scaffali e tra le molle del letto. Nemmeno un indizio. La frenesia crebbe a dismisura e dalla casa passai a cercare in ogni angolo del paese, il cui silenzio era interrotto dallo spirare forte del vento che non mi avrebbe aiutato a percepire il rumore delle parole, o anche di una lettera timida allontanatasi dal gruppo, la cui forma avrei potuto intuire una volta sentito il rumore, più sordo per una “c”, più sonoro per una “s”. Non riuscii a trovare nulla.
Tornato sulla poltrona, mi immersi nei suoi cuscini pensieroso e arrivai alla conclusione che avrei potuto benissimo formulare un’altra frase. Sarebbe stato così difficile, dopo aver scritto centinaia di pagine, raccogliere qualche lettera e darle la forma di una fine di racconto?
Di certo non sarebbe stata un’operazione immediata, bisognava ragionare bene su come terminare un lavoro. Leopardi prima di naufragare dolcemente nel suo mare, avrà dovuto navigare per le acque tempestose delle pagine dello Zibaldone; e Calvino non avrà dovuto saltare i fossi dell’immaginazione prima di far compiere al suo Cosimo l’ultimo balzo della vita? Perché non potevo prendermi anche io questo tempo? Le ultime parole di qualsiasi scritto rimangono spesso scolpite nella mente, fosse anche una sola persona a leggerle, perciò non devono essere casuali: questo criterio è sempre stato chiaro nella mia mente.
All’inizio non trovai nulla che fosse adatto e attribuii questo vuoto al nervosismo del momento. Per rilassarmi, mi diressi prima in camera, poi nella modesta libreria che avevo messo su negli anni, a caccia dell’ispirazione che molte volte gli scritti altrui mi avevano fornito. Grandi e piccoli autori, antologie, classici e libri recenti non furono d’aiuto questa volta. 
Abbandonai tutto, sconsolato dalla brutta sorpresa e dall’incapacità di rimediarvi, e mi misi in finestra ad osservare la nebbia novembrina avvolgere come un volatile mantello il paese. Le ultime persone rincasavano, quasi temessero di essere assorbite da quel velo bianco, mentre io le osservavo scuotersi infreddolite. Assurdo come anche un numero così ridotto di persone in uno spazio così grande riesca a convergere inconsapevolmente in un luogo che non è nemmeno così rilevante: questo accadde quando l’idraulico del paese per poco non investì con la bicicletta un’infermiera di ritorno dal turno di pomeriggio, diretta con una certa fretta verso il caldo che l’avrebbe avvolta nell’abitazione in cui il suo amante l’aspettava. Tutti si affrettavano come animali spaventati verso il rifugio, mentre io che c’ero già non mi sentivo per nulla al sicuro, quasi fossi stato derubato tra le mie mura.
Rimasi a riflettere sull’incidente di prima e su quanto a volte ci sia di casuale nella vita, quanto le nostre decisioni, anche le più banali come il compiere una deviazione di pochi secondi, possano dare vita a infiniti diversi scenari. Mi ridestai da questo ragionamento, contento almeno di non essermi fissato su quella che mi appariva una sfortuna immensa, pensiero abbastanza superficiale forse, ma non in quel momento. Guardai lo schermo del telefono. Si erano fatte nuovamente le due, quando il letto mi invitò a lasciarmi cadere tra le sue coperte, come uno che esausto o scioccato sviene e, senza oppormi, chiusi gli occhi.

Al mattino non ci fu il rumore snervante della sveglia ad allontanarmi dai miei sogni. Rimasi  molto tempo a rigirarmi nel letto, cercando di ricostruire le molteplici immagini da cui mi ero appena staccato. Purtroppo quelle oniriche sono immagini fugaci, non badano troppo ad imprimersi nella memoria, ma le sensazioni rimangono e quella con cui ebbi a che fare era vera e propria inquietudine, ma non avrei mai più conosciuto il perché del mio stato.
Non avevo alcun impegno programmato. Il giovedì era il giorno in cui non lavoravo e lo sfruttavo per andare in giro ad osservare il mondo, entro i limiti in cui il mio motorino poteva portarmi.
Non sono mai stato un grande osservatore delle persone, in particolare della loro esteriorità, ma ogni volta che ho a che fare con oggetti inanimati, naturali o artificiali che siano, mi diverto ad osservare ogni particolare con lo stupore di un bambino e immagino la storia che possono aver avuto, le persone che li hanno toccati, immagino il loro aspetto e come si comportavano, come si abbigliavano, e un brivido mi scorre nel corpo. Sicuramente la mia inventiva, in tal senso, deve essere molto sviluppata ed è tra le poche caratteristiche che sinceramente apprezzo del mio essere, ma poi tengo tutto questo per me e svolge la semplice funzione di arricchire queste capacità.
Questa volta saltai sulla sella del motorino e mi diressi a sud per una decina di chilometri, verso il lago, che in autunno inoltrato acquistava una parvenza nordica, ricca di fascino.
Percorsa la strada sterrata affiancata per qualche chilometro da ambo i lati da cipressi, presi la statale e in pochi minuti fui sulla stradina che portava verso il lago. Percorsi gli ultimi metri di quel tragitto irregolare. Conoscevo il percorso così bene da poter voltare lo sguardo intorno e vedere come il freddo stesse lentamente facendo diradare la vegetazione prossima alla sabbia, già di solito molto bassa e poco folta.
Giunto vicino alla spiaggetta, frenai con decisione, tolsi le chiavi e il motorino smise di emettere suoni, mentre col polpaccio sinistro potevo sentire il calore della marmitta. Tolto il casco, andai dietro la casupola di legno per prendere una sdraio. Dalla fine di settembre lo stabilimento chiudeva e i proprietari ammucchiavano tutto il materiale nel retro del bar, con apparente noncuranza per la facile accessibilità del luogo, la cui porta cedeva alla minima forzatura e lasciava libero accesso a chiunque volesse usufruire gratuitamente del servizio. La poca attenzione faceva sì che ogni volta che il proprietario veniva a controllare che tutto fosse a posto, non gli tornassero i conteggi delle sedie, delle sdraio e degli ombrelloni.
Io, come tanti altri, mi limitavo ad usare l’attrezzatura e a riporla insieme al resto, perché in fondo il proprietario mi era simpatico, e non mi sembrava giusto togliere ad un pover’uomo gli oggetti del mestiere. Nelle notti estive spesso in molti approfittavano della disponibilità dei lettini per cercare l’intimità che altrove non si rimediava, o per provare un brivido diverso.
Presi una sdraio e mi misi seduto sulla linea di confine che divideva l’erba dalla sabbia a fissare il contorno del lago. L’acqua d’altronde sembrava sempre la stessa, ma ciò che la circondava di tanto in tanto cambiava, specie con l’avvicendarsi delle stagioni. La mente tornò alle calde serate estive, la memoria fece riaffiorare la follia dell’adolescenza che non si cura del rischio e tutte le volte in cui, senza badare a niente, avevo corso il pericolo di rendere pubblica la mia intimità, travolto dalla passione che offusca la ragione. Adesso che ero solo, quei momenti sembravano così lontani da percepirli quasi come se non li avessi vissuti e nella mia mente ancora abbastanza giovane ne sentii la mancanza.
Ancora seduto, mentre affondavo nel telo elastico che si agganciava alle due aste di legno orizzontali della sdraio, guardai il paesaggio sbiadito dal freddo che ormai minacciava di assalirci entro pochi giorni. Provavo un piacere che non avrei saputo descrivere in quel momento; volevo solo goderne e affondare nelle mie solite riflessioni.
Mentre cercavo di gestire il flusso di pensieri che mi intasava il cervello, notai l’acqua incresparsi e guardai in alto, per vedere se il vento oltre che smuovere l’acqua portasse nubi cariche di pioggia, ma così non era e solo qualche forma di colore tra il bianco e il grigio chiaro si aggirava per il cielo. Anche allora amavo guardare le nuvole, mi divertivo ancora a cercare di capire quale forma assumessero e, in maniera molto fantasiosa, ci riuscivo.
Distolsi lo sguardo fisso in alto. Sentivo il vento aumentare e vedevo le increspature farsi più evidenti. Notai in lontananza una figura muoversi scendendo dalla collina verso la superficie del lago, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Dopo che quella forma indistinta si era avvicinata di più, compresi, stupito, che erano delle lettere a muoversi in un caos armonico. Stentavo a credere ai miei occhi e pensai in maniera tanto ingenua quanto razionale che si trattasse di uno strano sogno e decisi, perciò, di seguirne gli sviluppi. 
Vedevo ondeggiare quella sequenza di segni con meraviglia, come se le lettere stessero danzando a ritmo di valzer. Raccolto nello stupore, ma sempre più staccato dal tessuto della sdraio, ascoltai quella musica che mi risuonava in testa, alla quale associavo la visione di quel momento. 
Mi resi presto conto che non stavo sognando e che le lettere che volteggiavano lì davanti a me non erano altro che singole parti delle parole che avevo perduto solo qualche settimana prima. Pensai che finalmente fossero tornate alla mia mente, quando mi resi conto, mio malgrado, che si allontanavano dal punto in cui mi trovavo.
Dovevo assolutamente rincorrerle e fissarle, scrivendole da qualsiasi parte, fosse stata anche la mia pelle.
Mi diressi con una corsa affannata verso il motorino e con la furia di chi non può perdere nemmeno un istante aprii il sottosella per recuperare la penna che avevo sempre appresso. Voltandomi per ripercorrere lo stesso tratto al contrario notai con preoccupazione che si spostavano sempre più nella direzione opposta rispetto alla spiaggetta.
Mi catapultai verso l’acqua e mi resi conto che non erano le due di pomeriggio del quindici luglio; avevo bisogno urgente di trovare una barca o qualsiasi altro mezzo che mi permettesse di non entrare in contatto con l’acqua che, nonostante non facesse un freddo glaciale quel giorno, mi avrebbe fatto tremare come una foglia al vento.
La spiaggetta in cui mi trovavo era ben fornita, ma non aveva mai avuto pedalò o piccole imbarcazioni per raggiungere il centro del lago. Sentii dentro di me il ribollire tipico di quelle situazioni in cui si è impotenti mentre qualcosa di importante ci sta inesorabilmente sfuggendo davanti agli occhi. Dopo aver tentennato qualche secondo sulla battigia, una scintilla attraversò la mia mia mente: avrei raggiunto le lettere volanti a nuoto.
Cominciai a spogliarmi furiosamente, tolsi tutti i vestiti e in un istante di follia mi lanciai verso la mia unica occasione di concludere il romanzo. Sentivo il freddo divorare lentamente la forza di volontà, e lo immaginai guardarmi mentre con la bocca consumava l’atto truculento. I muscoli erano tesi ai limiti della sopportazione, ero rigido nelle prime timide bracciate, sebbene fossi abile nel nuoto, e mi resi conto di aver commesso una stupidaggine. Ormai ero lì, dovevo pensare soltanto ai vestiti asciutti e ai guanti caldi nel sottosella del motorino, e a quando poi mi sarei rintanato nel retro della casupola alla ricerca di qualsiasi possibile fonte di calore. Ma prima dovevo raggiungere quelle lettere che danzavano via in movimenti che ora non mi apparivano più tanto gradevoli.
Avevo compiuto circa un quarto della strada. L’adrenalina ancora vinceva sulla stanchezza e aumentai la frequenza delle bracciate, ma percorso un altro quarto di strada il rapporto si invertì e il freddo che avevo sconfitto con tanta fatica tornò a pervadermi il corpo non appena cominciai a rallentare. Dovetti prendere una pausa per recuperare le poche energie con cui sarei dovuto andare avanti. Mi attaccai per qualche istante ad una boa che mi era sembrata distare una decina di metri, ma questo era ciò che appariva al mio sguardo stanco. Avevo dimenticato la difficoltà di calcolare le distanze in acqua.
In quegli ultimi istanti non cercavo più le lettere. Dopo essermi ripreso a respirare in maniera più regolare, alzai gli occhi al cielo, ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo più a trovarle. Dovetti puntare lo sguardo più in alto, sopra la mia testa per incontrarle, ma ora che distavano pochi metri, vidi che il caos dei loro movimenti era cresciuto in maniera incontrollabile. Mi sentii rassicurato nel vedere quelle lettere lì vicino, ma l’impossibilità di metterle in ordine faceva apparire quell’impresa come inutile, e ancora più inutile del mio romanzo.
D’un tratto, senza sapere davvero perché, mi abbandonai a quella visione con la mano ancora attaccata alla boa. Cosa avrei dovuto fare? Tornare indietro, almeno per qualche minuto, era escluso, ma rimanere lì sarebbe stata quasi una condanna al congelamento.
Immerso in quella decisione che avrei dovuto prendere entro pochi istanti, avevo perso di vista quanto stava accadendo sopra di me. Le lettere erano scese al livello della mia testa che emergeva dalla linea dell’acqua e le vidi accerchiarmi. Non avrei saputo dire di che materiale fossero costituite, di certo escludevo l’inchiostro dato che non erano mai state stampate. Per un attimo rimasero ferme, ma ancora in disordine. All’improvviso, cominciarono a muoversi in tondo, tutte con la stessa velocità che andava aumentando all’aumentare dei giri compiuti. L’acqua tornò ad incresparsi all’interno del cerchio, non potevo stabilire se la stessa cosa stesse accadendo al di là delle lettere, la loro velocità ormai non mi permetteva di vedere oltre. Anche il rumore dell’acqua che veniva smossa cominciava ad aumentare e gli schizzi sulla mia faccia mi impedivano di tenere gli occhi aperti. Percepivo, anche senza vedere, l’aumentare vertiginoso della velocità con cui le lettere mi giravano attorno e all’improvviso mi sentii risucchiare da un mulinello appena formatosi come in un tubo degli scivoli dei parchi acquatici. Mi parve di scendere in un una gola. Il freddo da cui mi sentivo avvolto era indescrivibile e crebbe la sensazione di essere tirato verso il basso con sempre maggior forza. Sin dal primo momento avevo capito che oppormi sarebbe stato inutile e, dopo pochi secondi in cui avevo tentato invano di lottare, mi abbandonai agli eventi, in attesa di poter capire, o di morire annegato.
All’improvviso, mi sentii sbattuto addosso a qualcosa che non saprei riconoscere nemmeno adesso. Dopo qualche istante il freddo cessò e cominciai ad asciugarmi più in fretta di quanto pensassi. La superficie su cui posavo la schiena era del tutto liscia e tiepida, un grande sollievo dopo quegli ultimi minuti. Godetti di quel leggero tepore per un po’ e mi distesi. Ormai ero asciutto e rilassato, nonostante quanto era appena accaduto. Ci volle più di qualche secondo perché mi tornassero alla mente i bizzarri eventi di poco prima.
Non appena cominciai a tornare indietro a quanto era accaduto, sentii sopra la mia testa un suono simile a un fruscìo scorrere da destra a sinistra, poi ancora da destra a sinistra, ma più vicino e molto veloce. Infine, qualcosa di ruvido, a scanalature, mi accarezzò mentre mi passava sopra da destra a sinistra con lo stesso suono di prima, da destra a sinistra e mentre mi passava sopra ebbi l’impressione di sentire un mormorio, come se qualcuno avesse parlato.
Un istante dopo sentii come se una montagna intera mi fosse stata gettata addosso, poi il buio. Buio quasi sempre. Ogni tanto quella montagna mi viene tolta da sopra e di nuovo luce, per poco, pochissimo tempo. In questo lungo buio una domanda ogni tanto mi tormenta: ma dove sono sparite le ultime parole del mio romanzo?

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