Recit di Pier Paolo Pasolini da Le ceneri di Gramsci (Garzanti, 1957), il testo completo:
Com’era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!
Con la mano, ferito, mi facevo specchio
per guardare intorno viali e strade in salita
vivi di gente nuova nella sua vecchia vita.
Giunsi nella piazza, accaldato e tremante,
ché gelo e sole insieme il quartiere accecante
sbiancavano con muta ed estasiata noia.
Ricco era il quartiere, ma popolana gioia
ne invadeva interrati ed attici con voci
vaghe ma violente, canti lieti e feroci
di garzoni, di serve e d’operai perduti
su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti.
Come non sentire, con la vita il cuore
esser diverso e uno, essere gelo e sole?
Come non sentire ch’è pura gratitudine
per il mondo anche l’essere umiliati e nudi?
Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l’amico, come incerto… Ah che cieca fretta
nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:
subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo…
Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia
se prima di ferirmi è passata per te,
e il primo moto di dolore che
fece sera del giorno, fu pel tuo dolore.
Intanto nulla era mutato sotto il fresco sole.
Anzi, l’indorarsi quieto del mezzogiorno
pareva eternare ogni cosa all’intorno.
Rifui solo: seguii con l’occhio l’auto
sparire con lui, nell’aria che ogni smalto
aveva perso ed era aria, soltanto aria,
l’aria in cui si vive, ignorati ed amari,
ogni giorno, mangiando silenziosi la vita,
sia ripugnante o dolce, lieta o nemica.
Com’era estraneo ora, ogni allegro grido,
per chi, ora, andava lungo un diverso lido.
Il guizzo di rossore che al sole occhieggiava
da una maglia o uno straccio per la sperduta strada,
era sangue colante dal petto ferito
d’un ignaro animale, stanato, inseguito…
Ché intanto il più recente giorno del creato
dorava il quartiere dolcemente gelato
di un sole mattutino ridestato dal fondo
dei più antichi giorni che dorarono il mondo.
Come portando sole la carretta spingeva
l’erbivendolo greve sopra il fango lieve;
radendolo il garzone, con un fischio d’amore
s’alzava sui pedali, cantava: Anema e core…
Tutto Monteverde tremava di martelli
da assolati cantieri ad assolati sterri.
Ma era solo un fervore di gente umiliata:
era solo la pace che una città occupata
spande nella sua luce come un tempo pura,
rassegnata a esser vinta, a brulicare oscura.
Meridionali voci, risa di vecchia gente
hanno allora un clamore che la storia non sente:
dove guizza più vivo uno straccio, uno sguardo
lì più morta al sole la natura riarde.
Ed ecco la mia casa, nella luce marina
di via Fonteiana in cuore alla mattina:
la mia tana, indifesa, cieca di speranza,
dove bruciare l’ultima remora che mi avanza.
Entro e mi rinchiudo, muto e spento come
un impiccato solo col suo corpo e il suo nome.
E con quanta dolcezza nella mia stanza cola
l’olio dardeggiante dello svenato sole!
Ah, lo so che le cagne, con il loro latrato,
ridestano ignare il Dio dimenticato:
sento come sono, ricordo come fui,
visto dallo sguardo improvviso di Lui.
Ma anche all’uomo più ingenuo nel petto ferito
il sangue si annera, anche all’uomo più mite
nello stupito occhio si annera il dolore.
Più fu un tempo tenero, più s’indurisce il cuore.
E conosce i geli, le indifferenze, i muti
e scorati disgusti di chi ormai si rifiuti
a vibrare ancora, e sotto essi celi
la sperduta violenza dei suoi affetti veri.
E a dare, egli innocente, ai colpevoli scandalo,
china muto lo sguardo, o ragiona tremando
– il duro disprezzo e lo spaurito riso
confondendo nel vecchio ed infantile viso –
rozzo e cavilloso, sgraziato e squisito.
E, se questo è orgoglio, per questo è punito.
Sconta in esperienze disperate ed oscure
l’inesperienza chi in essa resta impuro.
O sole che inondi d’un pasquale albore
la mia povera stanza, e mi bruci sul cuore,
nella tiepida onda con cui piovi dal cielo
fai qui dentro spirare fatto puro e leggero
l’urlo delle cagne, che strozzate e stolte
promettono disprezzo, disperazione e morte…
Ma perché costringermi ad odiare, io
che quasi grato al mondo per il mio male, il mio
essere diverso – e per questo odiato –
pure non so che amare, fedele e accorato?
Non sono ancora vivi e presenti uomini
che sono per vent’anni vissuti di passioni
soffocate in petto perché nemiche al mondo,
brucianti perché estranee a ogni triste e giocondo
atto della nazione, a ogni pena o festa
che più è ignara, più, per l’escluso, è onesta?
Uomini vissuti per vent’anni col cuore,
così fecondo, arso da infecondo rancore?
Ecco lì, dietro il lume fragrante del sole
tra sterri e impalcature, l’oleato fulgore
d’una periferia nuda come un inferno,
un fiume di terrazze contro lo sfatto schermo
dell’agro nella cui vampa diffusa fiata
tra le gru la Permolio la vampa ranciata;
e infossa il divorato vallo la Ferro-Beton
tra frane di tuguri, qualche marcio frutteto,
e file di cantieri già vecchi nel mattino.
Quasi allegri, è vero, con il loro destino
per vie calde d’asfalto, contro baracche e prati,
garzoni, operai, serve, disoccupati
brulicano al più recente giorno del creato
che dora il quartiere dolcemente gelato
di un sole mattutino ridestato dal fondo
dei più antichi giorni che dorarono il mondo…
E, però, lo so bene!, se smaniano angosciosi
i latrati in quel sole, tra i rioni festosi,
e minacciano morte, sordidamente ossessi
contro chi tradisce perché è diverso, essi,
nell’aria troppo dolce, nell’umana innocenza
non sono che i messi della mia coscienza.
1956
Nell’atto della lettura si instaura un filo di congiunzione tra il lettore e il testo letto. Qualsiasi testo è una bambola matrioska, e chi legge riesce ad aprire una parte o tutte delle sue scatole, portatrici di messaggi, immediati o più profondi. I messaggi delle scatole poetiche sono dipendenti dal contesto di ricezione: un testo può veicolare messaggi diversi in base a spostamenti spazio-temporali. La genialità di chi c’è dietro il messaggio, dell’autore, è di rendere il nucleo della matrioska essenziale: il messaggio originario, in modo indipendente dai cambiamenti contestuali, resta sempre valido, determinante, universale. Pier Paolo Pasolini ha inserito all’interno della bambola del suo Recit uno di questi nuclei.
Sfrutterò l’immagine del filo, dei fili di congiunzione, come per uscire dal labirinto, seguendo tre dei lanciati da Pasolini, e al terzo raggiungere finalmente il nucleo del Recit (1956), componimento presente in Le ceneri di Gramsci (Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti Editore, 1957). Le undici poesie della raccolta, l’eponima in settima posizione, sono ceneri private di momenti storici: legandola alla sfera di questioni private, Pasolini scrive dell’Italia del dopoguerra degli anni ’50, della mutazione antropologica sociale italiana, innescata dal boom economico. La smania individualista di progresso sociale ed economico ha mutato il genere umano, comportando uno svilimento morale e la perdita dell’antica e ingenua innocenza e purezza intrinseca. Pasolini ritrova quest’aura antica nel sottoproletariato romano, nella memoria friulana, in chi è umile e quindi automaticamente vero. Il Recit, nel corpus delle Ceneri è la più vicina alla sua sfera privata, più intima, ai messi della coscienza; è personalmente il suo nucleo. In distici di endecasillabi, con prevalenza di rima baciata, in alcune occasioni ipermetra, rare assonanze, è l’ottava poesia delle Le ceneri di Gramsci. Il momento privato che genera il componimento è un incontro romano in zona Monteverde. Il suo amico e collega Attilio Bertolucci lo attende per comunicargli la notizia, riferita da Aldo Garzanti, della denuncia per oscenità e pornografia al romanzo Ragazzi di vita (Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti editore, Milano, 1955). È presente, infatti, nel romanzo un rapporto sessuale tra ragazzi dello stesso sesso. Pasolini ha già precedenti giuridici; si ricordi il processo del 1950, in cui l’autore fu condannato per atti osceni in luogo pubblico, e accusato ma poi prosciolto dall’accusa di corruzione di minori.
La casa editrice e l’autore verranno poi assolti dalla denuncia, ma l’evento genera il dolore. La dilaniazione originata dalla comunicazione di Bertolucci è resa eterna dalle lame di luce del mezzogiorno, che fermano il tempo e condannano l’autore in questo stato. Lo sfondo di questo mezzogiorno è una Roma divorata dal metallo, dal progresso snaturante del boom economico, sfondo allietato dalla voce di chi è ancora umile, dai garzoni, operai, servi e disoccupati; la loro voce invita alla pace, all’innocenza latente. I personaggi del sottoproletariato ritornano costantemente nelle opere pasoliniane, ritorna il loro rumore in Le ceneri di Gramsci, i loro canti o i suoni del duro lavoro. Sono la voce della parte d’Italia rimasta davvero viva e vera negli anni in cui Pasolini scrive, al contrario del resto, colpito dallo svilente progresso. È centrale, infatti, nella poesia eponima la critica al progresso delle classi abbiette che è presente nell’ideologia marxista gramsciana; per questo argomento Pasolini non condivide totalmente i pensieri di Gramsci:
«Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere;».
Nello sfondo del mezzogiorno pasoliniano del Recit, l’annuncio dell’amico comporta il latrare delle cagne, i mostri interiori del poeta. Le cagne sono i messi della sua conoscenza; sono il suo dolore, rancore, odio, verso chi considera una colpa l’amore verso qualcuno dello stesso sesso. E questi mostri si scontrano contro chi tradisce perché è diverso, contro chi fa dell’orientamento sessuale un motivo di diversità. Il Recit segna così, nella produzione edita di Pasolini, il primo riferimento in poesia al suo orientamento sessuale.
Come le cagne, mostri orrendi dilaniano la Fedra di Jean Racine, alla quale Pasolini si collega. È il filo intertestuale invisibile di congiunzione, il collegamento tra il componimento pasoliniano e la classicità tragica, che è reso evidente da Giacomo Magrini, in Pasolini Spitzer Bertolucci Recit senza accento, in Paragone. Letteratura, 1994. Il critico svela il mistero riguardo al titolo scelto, Recit, per questo ottavo componimento delle Ceneri: Pasolini richiama la tragedia Phédre di Racine, del 1677, più specificamente il Récit di Teramene nell’atto quinto, e il Recìt di Fedra, nella terza scena del primo atto. È lo stesso filo che si collega a due scene diverse della tragedia. Le figure di Teramene e Bertolucci si sovrappongono, secondo Magrini, entrambi portatori di cattive novelle: Taramene riporta la notizia della morte di Ippolito; allo stesso modo Bertolucci riporta a Pasolini la denuncia per oscenità a Ragazzi di vita. Il poeta intreccia, invece, nel suo componimento il suo sentimento a quello di Fedra, che, seppur differenti, sono entrambi accusati di una colpa inconsistente. Ripercorro sinteticamente la vicenda di Fedra e gli episodi cui Pasolini fa riferimento. Nel recitativo dell’atto primo la donna rivela alla sua serva Enone il suo amore per Ippolito, il figlio, avuto da prime nozze, di Teseo, suo marito. Nel secondo atto, dopo essere venuta a conoscenza della morte del marito durante una spedizione per mare (ma in realtà è vivo, e ritorna nel terzo atto) Fedra rivela il suo amore a Ippolito. Dopo il ritorno di Teseo, questa passione quasi incestuosa, per la quale Fedra si sente colpevole, la spinge in uno stato di menzogna: cerca di discolparsi, inganna il marito accusando Ippolito di averla stuprata. Teseo maledice il figlio, invocando la vendetta del Dio Nettuno. Il giovane muore, caduto in mare, dopo aver sconfitto un mostro marino. Fedra, colpita dai sensi di colpa, ammette a Teseo di averlo ingannato e si toglie la vita avvelenandosi. L’occhio oggettivo del lettore contemporaneo riesce a vedere la vera natura della colpa di Fedra: è illegittima, è una colpa che non sussiste, non ha consistenza, in quanto non è può essere considerato incestuoso un sentimento in cui non si ha nessun rapporto di sangue con chi si ama. A dimostrazione della sua innocenza, la rivelazione di questo amore avviene solamente dopo la notizia della morte del padre/marito Teseo. Questa colpa illegittima è il filo invisibile tra Racine e Pasolini, trasporta questa ambiguità di una passione, innocente ma colpevolizzata, dall’ambito tragico alla realtà italiana degli anni ’50. Denuncia, nel suo Recit, Pasolini l’orrendo del contesto degli anni’50, che fa di una colpa, un’accusa, l’amore verso qualcuno dello stesso sesso. Svela l’inconsistenza di queste accuse, l’inesistenza delle basi morali su cui si sorreggono queste, e di conseguenza anche la denuncia nei confronti di Ragazzi di vita non può sussistere. Conferisce autorità alla sua poesia intrecciandola con la matrice classica, con la storia del personaggio di fama, la cui passione è ingiustamente colpevolizzata.
Dal suo presente Pasolini, dopo aver collegato la sua poesia alla cultura classica tragica, lancia l’ultimo filo, stringe il presente e il futuro, inviando il suo messaggio universale di monito, affinché la realtà, simile metaforicamente agli orrori del labirinto del Minotauro, migliori attraverso il suo filo. Le sue cagne, il dolore prorompe in versi liberatori, interrogative retoriche autorevoli, il nucleo della matrioska, il suo messaggio universale di uguaglianza, di rispetto, di libertà sessuale, valido nel ’56, valido oggi nel 2020, in cui assurdamente e continuamente si ripropongono atti ignoranti di discriminazione. Concludo riportando i suoi versi, che sono vessillo della vera essenza della cultura, custode di verità:
«Ma perché costringermi ad odiare, io / che quasi grato al mondo per il mio male, il mio / essere diverso – e per questo odiato – / pure non so che amare, fedele e accorato? / Non sono ancora vivi e presenti uomini / che sono per vent’anni vissuti di passioni / soffocate in petto perché nemiche al mondo, / brucianti perché estranee a ogni triste e giocondo / atto della nazione, a ogni pena o festa / che più è ignare, più per l’escluso, è onesta? / Uomini vissuti per vent’anni col cuore, / così fecondo, arso da infecondo rancore?».
Antonello Costa