La spesa.
Salgo.
Li laviamo tutti e dopo a tavola.
Il tempo di lavarmi le mani di corsa e ai fornelli:
Due secondi, un contorno e un primo.
Intanto lavastoviglie vuota del pulito e già riempita dello sporco:
apparecchio la tavola, arrivano.
La grande: non ho fame, ho sonno.
La piccola: voglio il latte, ho poca fame.
Lui: io solo il primo.
Ma cazzo, dico io, mi sono fatta in cento per tutti voi, ho preparato il mondo e invece..
ma niente, fa lo stesso, mangio la foglia e sorrido.
Contenitori da avanzi, tutto via, pulisco, scopa e cencio da lavare e dare in terra e poi
ancora rilavare e strizzare sino a renderlo decente.
Crollano di sonno, una cosa mai vista, tutta la mia piccola truppa già andata!
Alle nove di sera lettone: dormono tutti.
Non ne poteva più di se stessa e del suo egoismo, non amando ormai più niente se non le
abitudini che restavano. Non ne poteva più di quel tempo consumato, svuotato, perduto. Di
quel lavoro scialbo che aveva rubato tutti i suoi sogni.
Lei voleva fare cinema un giorno e invece le era restata solo l’abbonamento via cavo e
qualche recensione da scrivere. Ma a che serviva guardare film o rincorrere le ultime
novità sulle riviste specializzate? A che pro scrivere ancora? Tempo buttato. Non era
quella la sua vita ormai e non lo sarebbe stata mai. Messa all’asta la creatività, vuotati i
sogni, al massimo poteva fare da spettatrice di quanto veniva propinato al pari di milioni di
consumatori che affondavano su poltrone sudice, ingozzandosi di birra e patatine.
A volte fantasticava su chi ce l’aveva fatta. Su amiche importanti che lavoravano in
Australia o in Islanda, cercava di immaginarne la vita piena di responsabilità, di impegni,
l’esaltazione di vivere da sole in un paese lontano e straniero. Lasciando tutto dietro, tutto
alle spalle, vivendo solo ed esclusivamente il presente. Ma era poi questo quello che
veramente avrebbe voluto? In realtà il suo mondo era quello, con i suoi orari, le sue
scadenze, i suoi impegni, le gioie e gli sconforti quotidiani che solo chi viveva una vita
così poteva comprendere.
Pensava ai giorni sereni in famiglia, alla sera scorsa, la cena veloce a parlare di cartoni
animati, sughi sciapi e dolci venuti male. A prendere in giro la vicina settantenne e la
mania per la forma, con le sue foto postate in ogni social.
Il bicchiere di Chianti di fronte alla tv, le chiacchiere giocose e persino un lento..5 passi
ballati in cucina, la pancia del marito che saltava e i bambini a ridere come matti.
Ecco la vita in cui stava dentro, ecco le abitudini che amava e a cui restava attaccata.
Eppure, erano proprio quelle le sere che si sentiva sbagliata. Se guardava dalla finestra si
paragonava alla caserma abbandonata davanti casa, a qualcosa di incompiuto, ad un relitto
inquietante che non vedeva più sole, incapace anche di cedere. No, non ne poteva più di
sentirsi vuota e sbagliata. Di essere una sorta di conduttore di infelicità. Non era giusto e
non ne aveva il diritto. Doveva spegnere quella maledetta sensazione di inutilità e di vuoto,
per cominciare a vivere con la dovuta intensità e cercare finalmente di essere presente alla
sua vita e dare senso alle cose, ora dopo ora, giorno per giorno.
E ora non ne poteva più neanche di quello che strillavano da mesi giornali e tv.
Del conto diabolico di morti, ricoverati e reclusi, delle telefonate degli amici, delle liste di
chi tornava a lavoro, di chi restava a casa e di chi il lavoro lo perdeva. Il morbo aveva
rapito le allegre serate insieme, le cene tra amici, la serata al cinema. Parte del suo mondo
ormai era andato da mesi, e non sapeva se sarebbe tornato. Probabilmente no, almeno per
un tempo indefinibile.
Questo voleva fare, mettere il cuore dentro un tritacarne, pulirsi e ripulirsi tutta e per intero
come dentro ad una lavastoviglie, dagli altri e da se stessa sopratutto, dormire senza
pensare, dormire profondissimamente, dormire finalmente da tutto, libera e leggera, cullata
dall’angolo più profondo della notte. E doveva farlo per se stessa e per chi voleva bene.
E invece i fantasmi la raggiungevano anche di notte.
Quella terribile malattia che dopo molti mesi li faceva stare ancora reclusi e sospesi in
una dimensione di falsa normalità, la perseguitava ormai anche nei suoi sogni facendola
tremare. Un tempo sarebbe stato un soggetto interessante, un copione tutto da costruire,
su cui sognare e fantasticare fino all’alba nelle notti estive. Già, ma non era quello il
momento, quel tempo sembrava lontanissimo, mai esistito, perduto, le idee erano
sparite, consumata del tutto la creatività sostituita da una opprimente sensazione di
ansia. Spiava di continuo la salute di se stessa e degli altri, si trovava ad ascoltare il
respiro dei bambini, guardava dritta negli occhi di lui per scorgere nuovi possibili e
inquietanti segni del morbo.
E tutto invece in casa rimaneva uguale, tutto dormiva, tutto era silenzio. Gli incubi erano
solo suoi e nessuno, nessuno poteva aiutarla ad uscirne.
Lui dormiva nel suo pigiama orrendo con un sorriso sereno, la pancia che sussultava lo
faceva sembrare una sorta di tenero e bonario Mangiafuoco in pensione.
E niente, non c’era altro che niente per lei adesso, una parola, una carezza, un mezzo
bacio, niente. Solo il raggio verde della televisione sul bianco corridoio.
Vagava nel mezzo della notte in soggiorno come una specie di mummia, aprì la finestra
e si trovò in terrazza, come ormai le succedeva spesso, a farsi domande e a parlare con
se stessa.
Mi chiesi se c’era un ordine o un disegno nelle cose della vita guidato da qualcosa o da
qualcuno o se pure invece tutte le cose nascono e si succedono e basta, senza finalità.
Per un momento ho risentito l’odore di quella vecchia casa ai tempi dell’Università. E del
resto che cosa sono gli odori se non un misto di indecifrabili passati. E quel passato
andato, come altri, fatto dell’umore dei termosifoni e del legno, dei ricordi di pranzi e cene,
dei nostri stessi abiti risposti e perduti per sempre negli armadi. Lasciati là per giorni,
mesi, anni, sino a sparire per sempre poi, un giorno come gli altri, ma diverso, un giorno di cui nessuno avrà memoria.
E’ stato un attimo
Il cielo era alto e impassibile, il vento come un mostro invisibile tagliava le luci gialle sulle
strade vuote per poi ficcarsi sui vasi delle piante morte per il caldo.
Affacciata alla finestra mi chiedevo da quale specie di fogna fosse uscito il mostro
repellente che spargeva morte e paura intorno a noi e trasformava il mio mondo
uccidendolo e portando via forse ciò che di ancora autentico restava.
Davanti a me la caserma abbandonata vegliava sui sogni e gli incubi della notte.
Cercavo solo un angolo di cielo dove riposare e invece si vedeva ovunque solo il relitto
della vecchia caserma abbandonata, dimenticato sul corpo martoriato ed esausto della
strada.
Marco Ferrucci