Il 27 marzo – giornata mondiale del teatro – le sale cinematografiche e i teatri potranno finalmente riaprire le porte. Questo è stato l’annuncio, a sorpresa, del ministro per i beni e le attività culturali Dario Franceschini.
Notizia tanto attesa quanto incomprensibile per alcuni, che non la reputano una questione necessaria e vitale – si sa, a che serve la cultura? È solo un capriccio, un passatempo di individui vanitosi, annoiati e improduttivi che decidono di dedicarsi a qualcosa che dovrebbe essere relegato al tempo libero, in quella zona sospesa tra le attività di produzione e di profitto. Insomma storcono la bocca, è proprio necessaria questa riapertura?
Dal mio punto di vista ho accolto la notizia con stupore e felicità. È stato un anno difficile per tutte le categorie di lavoratori ma alcune attività sono state più penalizzate di altre e senza dubbio, dopo il mondo del turismo, quello della cultura è tra di esse.
Un mondo molecolarizzato, fatto di realtà grandi, istituzionali e piccole, di quartiere; ricco e molteplice, coabitato da artigiani e professionisti, e senza dubbio in difficoltà da prima. Il cinema era già insediato dalle piattaforme streaming; Netflix, Amazon Prime e altre avevano già conquistato quella consistente fetta di pubblico non affezionato alla fisicità della sala.
Tuttavia – seppur con difficoltà – le sale continuavano ad essere frequentate da una nicchia di appassionati spettatori, disposti a uscire, pagare un biglietto e usufruire dello spettacolo cinematografico nel suo tempio adibito. Sì, perché si tratta di spettacolo, non è una semplice proiezione di un film. La sala ci accompagna nel viaggio di immedesimazione, ci culla fino a farci entrare in toto nel film; è il portale che ci catapulta in un’altra dimensione, ci fa avvinghiare ai personaggi tanto da immedesimarci con uno di loro e vivere le sue stesse esperienze. Ci fa seguire le peripezie della storia dilatando le nostre sensazioni ed emozioni, consigliare nella nostra testa i personaggi su quale scelta prendere, rimproverarli e quasi desiderare di parlare con loro, scommettere sui loro destini e abbandonarci a stravolgimenti e finali inattesi. Entrare in sala e sedersi sulle poltrone di velluto significa sospendere la nostra vita, metterla in standby per il tempo di durata del film, dimenticare noi stessi ed entrare nelle vite degli altri, in una storia in cui tutto può accadere, in cui non siamo padroni di nulla. Da soggetti egocentrici ci trasformiamo in passivi voyeur trascinati dalla corrente dell’inaspettato.
In questa nuova dimensione sono al centro le vite degli altri. Non conta più il nostro punto di vista presunto unico ed imprescindibile, spiamo gli altri per capire meglio le molteplici sfaccettature della nostra personalità. Quel personaggio, si proprio lui, sta parlando di me, come fa a conoscermi? Ci si sente chiamati in causa, ci sentiamo capiti e stravolti, disturbati nei nostri problemi personali e in questo stato di trance non c’è posto per la distrazione. E così lo squillo improvviso di un cellulare, le chiacchiere del vicino di poltrona o l’intervallo che lascia a metà una scena cruciale diventano sveglie improvvise, trilli fastidiosi che ci riportano nella dimensione abitudinaria.
La necessità di questi luoghi di cultura risiede nel loro essere gli ultimi bastioni dell’inaspettato. Avvolti in una routine frenetica in cui il mantra è produrre, rincorrere l’utile, velocizzare la produzione, consumare suolo, risorse e rapporti, in cui la vita viene ingabbiate tra le griglie di agende o pianificazioni settimanali, le sale cinematografiche, gli spettacoli teatrali, le pubbliche letture e i musei sono l’antidoto all’automatismo, al determinismo puro.
Quest’anno con i luoghi della cultura aperti a intermittenza ci siamo privati di questo antidoto. Il brusco freno postoci dalla pandemia ci ha fatto capire che la vita di prima, turbinio frenetico in cui una visione sempre più antropocentrica stava instaurando un rapporto di puro sfruttamento con ciò che ci circonda, dall’ambiente ai rapporti umani, non è più sostenibile. Ci ha imposto uno stop tanto improvviso quanto inaspettato e ci ha indotto a cambiare marcia. L’unico aspetto positivo che se ne può trarre è la riscoperta di tutto ciò che abbiamo sempre dato per scontato. Non è scontato presentarsi con una stretta di mano o congedarsi dandosi due – o come va di moda tre – baci sulla guancia. Non è scontato abbracciarsi, sfiorarsi, stare accalcati. Non è scontato il potere di un sorriso, parlare attraverso il labiale, vedere il volto delle persone, non veicolare la comunicazione esclusivamente con lo sguardo e con la voce ovattata dalla mascherina. Ecco, ci stiamo riappropriando dello stupore, del non dare per scontato, dell’inatteso.
Dopo un anno di chiusure il cinema e il teatro appaiono le vere fabbriche di sogni della contemporaneità. L’unica esperienza che ci differenzia dagli automi, l’unica evasione possibile nella quotidianità, l’unico modo per catapultarci nelle vite degli altri. Sono grandi campanelli di allarme pronti a svegliarci dallo stato di torpore, di abitudine, di noia e di presunte certezze adamantine. A non farci sentire arrivati, protetti e al sicuro dal dubbio. A mostrarci che la realtà è molteplice, sfuggente; a farci calare nei panni dell’altro, per poterlo comprendere meglio. A non farci sentire padroni della verità e a credere nell’imprevedibile, nel cambiare opinione, nel sapersi adattare alle circostanze e cogliere insegnamenti dagli imprevisti.
Insomma, accolgo con gioia questa notizia perché credo che sia l’unica soluzione ad una mentalità rigida, violenta nell’arroccarsi a difesa delle proprie posizioni, priva di creatività, che non si lascia visitare dallo stupore e dall’inaspettato.
Questa settimana pubblicheremo due testi che ci mostrano i mille lati possibili della realtà, i punti di vista inediti, secondari, liminari, frantumando l’aspetto tutto d’un pezzo di una realtà austera e grigia; perché ancora oggi c’è posto per ciò che ci metta in dubbio, che non ci faccia sentire a nostro agio, che apra porte e visioni inedite.
Angela Santomarco presenterà la sua analisi del fantastico nella letteratura postmoderna. In un mondo in cui tutto è già stato detto e visto, in cui è sempre più difficile stupire ed essere originali, la nostra individua lo spazio per il perturbante, per il senso di stupore, meraviglia, paura e incontrollabilità figlio delle storie di fantasmi, mostri e vampiri dell’Ottocento vittoriano e trasmutato in senso di inettitudine, di mancanza di certezze, di provvisorietà e spaesamento del moderno individuo del primo Novecento. Fino al realismo magico di Bontempelli, alle visioni e alla realtà trasfigurata di Landolfi e Savinio, alla perdita totale di fiducia nel futuro e nelle certezze dell’uomo iper-contemporaneo. Un viaggio necessario per ripercorrere le diverse declinazioni del fantastico, da due secoli visto come una via di fuga da visioni univoche e rigide, dalle trappole di una realtà austera, per spiare la realtà – e noi stessi – da inediti occhielli.
Stefano Tarquini presenterà il suo primo racconto inedito per L’Incendiario: Mannitolo. Gli ingredienti per una lettura sconcertante ci sono tutti: storia esilarante, stile tagliente e sarcastico, personaggi deformati, smontati e rimontati per mostrare le mille sfaccettature che si nascondono sotto un’apparenza impeccabile. Si ride per la vicenda raccontata, per il finale esplicativo del titolo, per le ipocrisie dei personaggi – che sono anche le nostre – e per la labilità dei rapporti umani. Attraverso la chiave dell’ironia, fa esplodere la realtà, restituendocela sotto forma di coriandoli colorati, esilaranti ma anche dolorosi, che fanno ridere per far riflettere.
“Abbiamo bisogno di combattere l’apatia, l’indolenza, il pessimismo, l’avidità e il disprezzo per il mondo in cui viviamo, per il pianeta. Il teatro – e il cinema – ha un ruolo nobile, nel dare energia e spingere l’umanità a resistere alla sua caduta nell’abisso”. Shahid Nadeem nel suo messaggio internazionale per la giornata mondiale del teatro del 2020.
Eleonora Bufoli per la redazione de L’Incendiario