La produzione letteraria a cavallo tra Novecento e Duemila si fa rientrare all’interno di quella nebulosa categoria che è la Postmodernità: questo termine (vago, evocatore, provocatorio) richiama un concetto-base: il senso della fine dei tempi. Viviamo immersi in un eterno presente, consapevoli di tutto ciò che ci ha preceduti ma profondamente incerti su quello che verrà. La Postmodernità “viene dopo”: dopo l’età moderna, dopo l’avanguardia e soprattutto dopo la (grande) storia. Anche la letteratura è esausta, ha accettato la sua fine, non c’è più spazio per le grandi ideologie, per i grandi romanzi e per i grandi letterati; tutto è semplificato e svuotato di significato. La letteratura e la cultura si sono mercificate (svendendosi per pochi spiccioli) ed il pubblico è sempre più affamato di bestsellers e letteratura di consumo.
Nella letteratura della fine nulla di nuovo può essere prodotto, perché tutte le grandi opere sono già state scritte. Come fare per superare l’impasse? Se non si può scrivere niente di nuovo, non resta che riciclare ciò che si ha già a disposizione: il canone letterario. Riciclare, riproporre – ed ecco che ci piovono addosso gli interminabili sequel, remake e rifacimenti. La tradizione è diventata, in epoca postmoderna, un immenso serbatoio di immagini, tematiche e stili: tutto ciò che è stato scritto può essere ripreso, utilizzato e mescolato, a costo di perdere il suo senso originario a favore di una nuova prospettiva modernissima (ma a tratti svilente e, fin troppo spesso, deludente).
Uno dei canoni letterari più classici – quello che ha avuto più fortuna di tutti, vuoi perché si presta benissimo agli effetti speciali, vuoi perché è a metà strada tra l’eclettico e l’intramontabile – è quello del fantastico.
Il nocciolo di questo genere letterario (alcuni critici sono contrari: più che un semplice genere è un modo, una corrente che attraversa la modernità come una scarica elettrica, un intero universo) si racchiude nella celebre “esitazione” postulata da Todorov. L’esitazione è quella che prova il protagonista-lettore che sta leggendo una storia – all’apparenza normale, quotidiana, perfettamente gestibile – e all’improvviso si trova dinanzi ad un evento che non riesce del tutto a comprendere. Ecco, questo è il trucco del fantastico, che lo differenzia dalle fiabe, popolate da orchi e fate, e dal meraviglioso-mitologico: il protagonista non vive in un bosco incantato, ma nel mondo reale (quello in cui viviamo tutti noi, per intenderci) e perciò non concepisce che esistano cose come la magia e l’ultraterreno, quindi non si aspetta affatto di incontrarle sulla sua strada: è qui che il lettore esita.
Il fantastico è racchiuso nel momento in cui il protagonista della storia, perfettamente razionale, si chiede “ma sogno o son desto?”.
In questo modo si produce nel lettore quel sentimento di straniamento, definito da Freud come Unheimliche, il perturbante: il dubbio che il protagonista si sia calato delle droghe psichedeliche perché è ovvio che il fantasma che ha appena visto non può esistere davvero.
Insomma, il racconto fantastico è racchiuso in quell’attimo di incertezza e angoscia: il brivido lungo la schiena che avvertiamo mentre stiamo camminando in un mondo perfettamente reale – una città nebbiosa, un villaggio abbandonato – ma popolato da creature ai limiti della ragione – vampiri, licantropi, streghe – e da sentimenti irrazionali: il sudore freddo e quella vocina nella testa che ti dice “scappa!”.
Il secolo più ricco di testi fantastici è l’Ottocento: la sua cornice classica è l’epoca vittoriana, con i suoi tenebrosi castelli scozzesi e i rischiosi esperimenti scientifici.
Questa è l’ambientazione topica: perciò, sembra lecito chiedersi se possa esserci ancora del fantastico classico nell’epoca ipertecnologica della postmodernità. Già Todorov, ai suoi tempi, aveva postulato la sua morte, sancendo la fine del genere.
Eppure, i fantasmi sopravvivono: nelle megalopoli contemporanee c’è ancora spazio per i vampiri e i mostri della notte. Come fanno? Semplice: il Postmoderno non lascia scampo a nessuno, ricicla qualsiasi cosa, lo smembra e lo profana, lo taglia a pezzettini e poi incolla tutto in un collage-pastiche dissacrante e originale, che mescola il vecchio con l’assurdamente nuovo, senza pietà.
Una delle maggiori differenze tra l’ottocentesco e il postmoderno riguarda non solo l’impiego e l’influenza di nuove tecnologie – la televisione, il cinema e la fotografia – ma il nuovo quadro di riferimento culturale, oltre che scientifico. Alla figura-tipo dello scienziato (uno tra tutti: il celebre Dottor Jekyll) è subentrato il protagonista kafkiano, che non conosce più l’esitazione di Todorov ma accetta il suo destino grottesco e paradossale come parte degli eventi della vita.
Il perturbante del Novecento, rispetto a quello del secolo precedente, perde la sua vena spettacolare ed esplicita; risulta indebolito poiché torna come rivisitazione consapevole, ma alleggerito dall’intervento distanziante applicato rispettivamente dalla nostalgia e dall’ironia. Diciamocelo: l’apparizione stereotipata del fantasma (catene trascinate e ululati notturni) non creerebbe più lo stesso scompiglio, ma verrebbe vista come un evento casuale e caotico tipico del mondo casuale e caotico in cui stiamo vivendo: è vintage. La reazione più probabile sarebbe uno sbadiglio.
Dato che hanno smesso di spaventare (e di essere originali), il fantastico postmoderno tende a liberarsi delle figure topiche dell’alterità – come i vampiri e i fantasmi, che lo hanno storicamente caratterizzato – per spostarsi sul piano del linguaggio e della metascrittura: il cuore pulsante dell’agire letterario postmoderno.
Esaurita la capacità di stupire e perturbare a livello semantico – attraverso ciò che viene detto nel racconto – nel Novecento viene prodotta l’impasse fantastica attraverso ciò che, invece, non viene detto nel racconto. La metaletterarietà scuote le fondamenta di tutti i generi letterari, stravolgendo le regole del gioco. Non si tratta più, banalmente, di scrivere un racconto.
Il testo si autoproblematizza, riflette su se stesso, si contempla in quanto oggetto creato dalla scrittura stessa. Ogni barriera viene abbattuta, poi ricostruita, poi distrutta di nuovo. Le parole sono tranelli, traggono in inganno e spaventano tanto quanto farebbe un’esitazione vecchio stile.
Il vampiro, se davvero esiste, si può combattere: tutti conosciamo i trucchetti, li abbiamo imparati da secoli di letteratura. Il racconto fantastico postmoderno instaura il terrore grazie ai suoi stessi vuoti semantici, alle parole non dette, alle frasi lasciate a metà, giocando di un terrore non esorcizzabile. Un puro interrogativo: molto più inquietante di una legione di fantasmi. La scrittura della contemporaneità non racconta niente ma nasconde tutto e, quando vuole, cede qualcosa al lettore stordito, che fa fatica a restarle dietro; trasferisce su un altro piano tutto ciò che prima faceva paura ma che ora apparirebbe obsoleto. Dal cimitero si passa all’inconscio, dai fantasmi siamo giunti ai rimorsi: quelli sì che ci perseguitano.
Anche Calvino nelle sue Lezioni Americane si chiede se possa esistere una letteratura fantastica del Duemila «in una crescente inflazione d’immagini prefabbricate» e quindi quanto sia lecito parlarne ancora in un mondo in cui l’immaginario rischia di venire schiacciato dalla pressante abbondanza di informazioni che tolgono alle facoltà dell’immaginazione per consegnare ai lettore – o meglio, allo spettatore – manufatti già pronti per essere immediatamente fruiti.
Eppure, nonostante in tanti abbiano decretato la fine dell’immaginario – della capacità umana di costruire mondi e universi a partire da un punto e virgola – nel nuovo secolo il fantastico non muore né scompare, ma – come un essere metamorfico – si evolve, cercando nuove strade e assumendo nuove forme, tutte diverse e uniche, particolarissime.
Se l’Ottocento è stato il secolo di Hoffmann, Gautier, Mérimée, Stevenson, di Henry James ed Edgar Allan Poe (tra gli altri), nel Novecento abbiamo assistito alla nascita del fantasy – sancito dal capolavoro di Tolkien – e di chi come lui si è cimentato nello scrivere di creature magiche e quasi mitologiche in un universo “altro”. La realtà è stata deformata dalla profondità di sentimenti e paure nuove, tipiche della schizofrenia contemporanea, ed è esplosa nelle opere di autori come Kafka, che hanno saputo parlare di un altro tipo di buio. Poi c’è stato il realismo magico e tutte le sue sfumature simboliche, intrecciate e meravigliose, di Màrquez. E poi ancora il Neofantastico di Cortàzar. E l’Italia? Se all’inizio non è riuscita a tenere il passo, nel XX secolo si è imposta sul panorama mondiale, tramite autori come Alberto Savinio, Massimo Bontempelli, Tommaso Landolfi e Antonio Delfini – per quanto riguarda la prima metà del secolo – Dino Buzzati, Italo Calvino e Anna Maria Ortese e poi, a partire dagli anni ottanta, Antonio Tabucchi.
Evolvere significa cambiare, adattarsi a dover vivere in questo eterno presente che è il nulla, la negazione di ogni certezza, la consapevolezza di essere giunti alla fine dei tempi: c’è chi ci vede l’assenza di ogni genuina ispirazione e chi, come questi autori, lo spunto per scrivere storie agghiaccianti, capaci di far esitare anche il lettore più diffidente.
Angela Santomarco