Pablo Cavallo ha una placca di alluminio che parte dal collo e gli avvolge mezzo cranio. Tre anni prima ha fatto un incidente quasi mortale, un anno e sei mesi di coma e patente stracciata. Svegliatosi, ha dovuto prima reimparare a reggersi dritto e camminare, poi a parlare e riprendere massa muscolare, quasi del tutto sparita. Già era magro di suo, ma ora che pesava quaranta chilogrammi scarsi, gli erano rimasti solo due piccoli occhi azzurri scavati ai lati del naso a punta, due splendide orecchie a sventola ed un enorme cazzo sproporzionato rispetto al resto del corpo, da qui il soprannome che si portava fiero, sin dalle scuole medie.
Ci mettiamo talmente tanto tempo a costruire noi stessi che basta una frenata brusca, dentro lamiere accartocciate in un groviglio di frenetici secondi, a perdere sé stessi e conoscenza, e dover ricominciare tutto daccapo. Piano piano aveva recuperato. Respirava tranquillamente, andava a pisciare da solo ed ogni tanto cacava pure, mangiava ancora tramite sondino naso gastrico, ma era fiducioso. Il più era la memoria. Quasi del tutto rasa al suolo.
I pochi input che alimentavano i suoi ricordi erano i discorsi della madre, malata di Alzheimer, e del fratello Adolfo. Suo padre era morto quando era in coma e sua moglie, Rita Rasoterra, per via della sua statura superminima, aveva approfittato per vendersi la casa popolare in cui abitavano e filare alle Canarie col suo amante storico, uno dei migliori amici di Pablo, Gino Stracchino. Pablo l’aveva preso per il culo una vita per via della sua igiene personale approssimativa e lui ora si era preso la sua rivincita, con gli interessi.
Gino e Rita avevano aperto un locale per scambisti a Las Palmas, il primo di tutta l’isola, e in poco più di un anno lo avevano dato in gestione, godendosi la loro provvigione considerevole, e disinteressandosi completamente al business passavano le giornate a bere, scopare e prendere il sole tutto l’anno. Manco male.
Adolfo invece non aveva tutte le rotelle a posto. Campava da sempre coi risparmi della madre e una piccola pensione d’invalidità. Si vestiva sempre uguale. Canottiera bordeaux anche a dicembre, giacca di pelle scura anche ad agosto, ciabatte da mare senza calzini, sempre. Era innocuo, ma la sua barba brizzolata di mezzo metro lo faceva sembrare un orco.
Neanche le due prostitute di colore che c’erano in paese lo facevano scopare e lui questa cosa non l’aveva mai mandata giù. Se la portava dietro da parecchio e negli anni aveva accumulato ben sedici denunce tra tentato stupro, circonvenzione di incapace, adescamento di minore e affini. Si trattava perlopiù di appostamenti in cui si metteva a spiare le giovani coppiette, e qualche inseguimento losco, ma nessuno con esito violento.
Insomma, Pablo, aveva perso tutto. Cominciai a portarlo al lavoro, perché abitavamo abbastanza vicini, e non avrebbe saputo come altro fare. Parlava solo lui, senza mai sputare. Oddio, pure prima dell’incidente era abbastanza logorroico, ma ora faceva venire quasi da vomitare per quanto parlava. Fortunatamente io sapevo ascoltare e poi ogni giorno lui ne inventava una nuova, più o meno involontariamente, fatto sta che faceva perlomeno sorridere.
Lunedì diceva di aver abitato dodici anni al Quarticciolo, lui romano de Roma, aveva bazzicato Silvio er paninaro, che in realtà nei panini ce metteva la droga.
Martedì, aveva vinto un concorso di poesia a Parigi, primo premio un milione di lire tondo tondo, con cui s’era comprato una Uno Turbo sedici valvole, usata.
Mercoledì, si era bucato con una scimmia di sei anni con Astrid, una ex modella belga, con cui aveva fatto anche un figlio, che il giovedì si chiamava Marco, il venerdì Vittorio, come suo padre. Astrid la settimana dopo era diventata Penelope, una cantante greca, con cui rubava motorini in adolescenza.
“ Ci fosse uno di voi stronzi che m’è venuto a trovare in ospedale!” Se ne usciva sempre, alimentando un certo astio per i sui colleghi, ed io che stavo nel calderone degli odiati, mi salvavo giusto per quei passaggi. Provavo a stemperare la cosa dicendogli che il coma gli aveva fatto notare la differenza tra colleghi e amici, ma ormai una linea marcata di disprezzo s’era ben definita, psicofarmaci e alcol avevano fatto il resto.
Nel suo profondo, un po’ reietto, un po’ sfigato stava covando la sua vendetta.
Pablo non aveva il cellulare; passavo sotto casa sua e, nonostante fosse molto presto, dovevo clacsonare e lui scendeva. Quel giorno era particolare, mi aveva chiesto di passare dal cornettaro acca ventiquattro perché voleva offrire la colazione a tutti i colleghi. E sfoggiando una mezza piotta ancora calda di bancomat, era sparito sulla discesa ripida del garage a pagamento di viale Roma, una di quelle serrande era già tirata su e faceva luce sulle altre, quasi sempre chiuse.
“Quanti cornetti ci posso comprare con cinquanta euro?” Tornò in macchina con due cartoni pieni fino all’orlo: ciambelle, bombe, trecce, danesi, maritozzi, tutti diversi, e ad ognuno dei suoi colleghi ne aveva assegnato uno, segnandoselo nella mente. Sapeva quale dare a Nicolina e quale a Gilberto. Mi guardò avvertendomi che io e lui avremmo mangiato un tramezzino, se lo sarebbe fatto preparare in mensa, tonno e pomodoro, e che in nessun modo avrei dovuto avventarmi sui cornetti.
Si mise sul sedile dietro ad armeggiare coi cartoni stracolmi di quel ben di dio. E, frugandosi nelle tasche come fossero vecchi cassetti pieni di polvere, tirò fuori una scatola di Mannitolo. Un lassativo con cui di solito ci tagliano la cocaina, ma abbastanza efficace da mandare tutti quanti i suoi colleghi dritti al bagno, e cominciò a sbriciolare pasticca dopo pasticca, spolverandolo sulle paste come zucchero a velo. Un colpo perfetto.
Alle nove entrò in scena. “Amici, sapete che in questo lungo periodo i cui sono mancato ho avuto dei problemini di salute non indifferenti, ma volevo festeggiare insieme a voi il mio ritorno alla vita!” Inscenando anche una finta commozione. Applausi scroscianti. E come belve si fiondarono sui due cartoni bianchi, ringraziandolo con finto interesse e qualche pacca sulla spalla.
Io mi godetti la scena seduto su una catasta di Epal, facendo finta di aver cominciato una dieta ferrea. Il suo piano era compiuto. Tempo mezz’ora la produzione s’era dovuta fermare. Tutti in fila al bagno o piegati su stessi che battevano i piedi in attesa del loro turno. I più impavidi riempirono di merda le siepi che circondavano il parcheggio. Patrizia era svenuta per le coliche. Ciacci tremava tutto.
Pablo era felicissimo e anche lui, goffamente, faceva finta di star male. Diede la colpa al pasticcere. “Avrà usato delle uova marce quell’infame, mo quando stacco gli vado a ribaltare il locale!”
Dopo un’ora l’azienda aveva deciso di mandarci tutti a casa. Epidemia di gastroenterite e giornata pagata.