Il mio piede sinistro (Non è il film con D.D.Lewis)

Io ho un piede. Ebbene, tutti hanno un piede mi direte voi, c’è chi ne ha anche due. Io li ho tutti e due ma uno in particolare è diverso dall’altro. È diverso nel fatto che essendo nato con polidattilia, il mio piede aveva sei dita. Sei, non uno di più, né uno di meno. O meglio, magari sarebbe stato più opportuno uno di meno dato che mio padre cacciò un “maccheccazzo” di cuore per quella sfiga inutile dopo avermi preso in braccio per la prima volta; ma tant’è.


Ora, oltre ad avere un dito in più il buon Dio ha deciso che qualcosa nel mio DNA andava troppo bene e quindi ha attaccato le dita rimanenti tra di loro. Ho l’alluce attaccato all’illice, e il trillice attaccato al pendulo. Credo che così si chiamino le dita dei piedi, non me ne vogliano i lettori. Per fortuna il famoso sesto dito me lo hanno tolto e ora ho al suo posto una cicatrice. Quello che mi spinge qui a parlare di ciò è che ad ogni persona a cui facessi vedere il mio piede faceva un balzetto sulla sedia indurendo le chiappette.


Bello non è, però che diamine, quando ti ricapita di vedere un tale prodigio della natura?! Inoltre è sempre stato motivo di ilarità per gli altri e imbarazzo per me. Imbarazzo anche quando al sottoscritto non importava nulla del tanto decantato arto inferiore, sinistro. Il motivo di questo inutile e presunto imbarazzo ve lo racconto in breve: la scena si svolge all’interno dello studio medico della mia pediatra. Dopo avermi fatto l’ennesima visita di controllo, mi squadra e mi dice che sono in notevole sovrappeso dato che la bilancia segnava due maledetti chili in più rispetto alla norma rachitica di riferimento. Forse a quel tempo pensavo troppo oppure ero stitico, ma lei credeva che io stessi prendendo una brutta piega e sarebbe stato opportuno correre ai ripari. Mi consiglia di iscrivermi in piscina. Io seduto sulla seggiola davanti a lei esordisco con un veemente ed epifanico NO! Lei mi chiede il perché, io replico dicendo che non mi piace e allora non trovando un motivo per cui non mi dovesse piacere la piscina, che tanto cara è ai ragazzi dai 10 ai 14 anni in evidente sovrappeso, tira fuori la storia del piede: “per caso ti vergogni del tuo piede con gli altri bambini?” tutto ciò accompagnato da un sorrisetto sardonico e vezzeggiesco, quei sorrisi che di solito si fanno ai bambini scemi.
Il neurone addetto alla comprensione del proprio corpo realizza che ha un piede strano rispetto all’altro (dato che fino a quel momento non me ne ero reso conto), ed esordisce attraverso l’apparato orofaringeo in un secco suono millenario: NO!


Ce ne andammo con mia madre, scocciati, più io che lei dallo studio e da quel momento cominciai a pensare che il mio piede poteva essere motivo di imbarazzo. E lo divenne. Per molto tempo stetti attento negli spogliatoi maschili a tirare fuori il mio piede fuori dal calzino. Mentre tutti gli altri erano in preda a paure anal-sessuali e tendevano a rimanere seduti per paura che qualcuno gli potesse appoggiare il cazzo sulle chiappe, io avevo paura che qualcuno potesse vedermi il piede. Per non parlare delle estati al mare: il destro fresco e perfetto fuori dalla sabbia, prostrato in avanti, messo in mostra in posa fallica e bestiale; e il povero piede sinistro, timido, brutto, rifugiato per tutta la lunghezza delle dita nella sabbia.


Vogliamo parlare della prima volta in cui ho copulato? A 16 anni non si ha tutta questa dimestichezza con le ragazze, di solito si è impacciati, voi figuratevi me. Bloccato, nevroticamente ossessionato dal mantenere i calzini, quando la passione ti porta con un solo movimento a toglierti anche i quattro peli di dosso per lanciarti in quella che è la tua prima scopata. Io fermo davanti al letto con lei che mi guarda e mi dice: “Che fai non te li togli i calzini?”. Tu ripercorri in quell’istante la sofferenza del primo approccio, la fatica nell’inviare il primo messaggio, l’imbarazzo della prima uscita, l’eccitamento del primo bacio e tutto ti riporta a quel momento in cui dovresti concludere quel climax ascendente con il primo vaginorgasmo della tua vita. Lei, però, ti dice che devi toglierti i calzini, ma non puoi farlo perché hai calcolato tutto e si metterebbe a ridere e passerai il pomeriggio a parlare del perché sei nato così, e che diavolo di figata è la natura mentre lei ti passa una sigaretta. Beh, fui più rapido, gli diedi giusto il tempo di finire la frase e poi con la linguetta alla Fantozzi che sporgeva dalle labbra chiuse, mi lanciai sul letto dei suoi e ringraziai iddio che non la trovai feticista.


Questi sono gli episodi più imbarazzanti che mi sono accaduti, ma questo non è un film di Woody Allen e le sofferenze riguardanti il mio piede non hanno inficiato sulla mia mente tanto da farmi odiare la vita e le persone più di quanto io odi la Mercedes, che ripetutamente vince campionati del mondo di F1. Parlare di queste cose ha una finalità non è uno sfogo, fatevi una ragione voi che già state leggendo da 5 minuti. Questi eventi mi hanno portato a riflettere sul nascondimento. Si, quante volte noi lasciamo nella parte più appartata di noi qualcosa che ci appartiene ma ci spaventa. Un pensiero, una parte del nostro corpo, una frase che vorremmo dire, una puzzetta alla cena coi suoi. Nascondiamo sempre qualcosa. Perché lo facciamo, da cosa siamo spinti a farlo? Ovviamente il mio pluralis maiestatis, è un’esagerazione, parlo per me. Beh, io l’ho fatto perché mi vergognavo essenzialmente. Perché non ero come gli altri, non mi adeguavo ad un canone. Ci piace così tanto arrotolarci nel canone, nella regola, permettere che ci costituisca che ci dica cosa fare, che ci guidi, perché è molto più difficile costruire noi stessi, la nostra personalità, smettere di essere figli e provare ad essere noi e quindi ingarbugliarci la vita e il pensiero tra le sofferenze per costruire qualcosa di nuovo.

La regola ci dice che se le cose vanno male hai la possibilità di salvarti applicandola. 1+1=2. Siamo matematica, o algoritmo, questa parola che oggi ci piace così tanto come se fossimo dei piccoli computerini, tutti uguali a digitare, tac tac tac, come me mentre sto scrivendo queste righe.


La mia maestra alle elementari mi diceva sempre che le case per farle ci vogliono gli anni, e mentre le fai se sbagli una cosa viene tutto giù. Le fondamenta sono le più importanti perché se le fai male poi viene il terremoto e la casa cade. Poi devi passare alle pareti, che devono essere solide e poi il tetto, che non deve permettere alla pioggia di entrare. Che metafora del cazzo! Lo sapete perché è una metafora del cazzo? Perché la vecchia si è scordata di metterci dentro le persone, e le persone il tubo del gas te lo lasciano aperto e sappiamo poi che succede. E una volta che la casa è distrutta che fai? Niente? No, la tiri su un’altra volta, più e più volte così. La mia cara maestra si è scordata l’opzione del restauro, che è anche più importante. Che cosa c’entra questo col nascondimento e col piede? C’entra eccome. Le cose nascoste a volte possono nuocere come le persone dentro ad una casa che si scordano il gas acceso. Se le parti più fragili di noi continuiamo a tenerle chiuse, a non tirarle fuori aprendo una finestra, la casa viene giù. E una volta che è venuta giù abbiamo la forza di rimetterla in piedi? Prevenire è meglio che curare. Pensateci, non abbiamo paura del problema in sé ma dell’effetto che può suscitare sugli altri.


Il mio piede alla fine l’ho tirato fuori, ho capito che le risate o lo schifo che producevo erano un bene. Ho donato ad una persona un motivo per raccontare qualcosa di me, e per renderla speciale, dato che può dilettare i suoi amici o parenti con una storia di un ragazzo, un suo amico, che non solo ha una cicatrice perché un dito glielo hanno tolto ma ha anche le dita dei piedi attaccate. E tutti a ridere a immaginarsi davanti a loro chissà quale gobbo di Nôtre-Dame, che infesta tra i golem le loro passeggiate. E invece eccomi qua, per chi mi conosce sa che non sono Brad Pitt. Però oh.

Poteva andarmi peggio.

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