22 marzo 1895: prima proiezione, privata, di un film da parte dei fratelli Auguste e Louis Lumière.
22 marzo 2021: voglio ricordare questo evento a dir poco epocale, che segna uno stacco e un progresso di cui oggi possiamo vedere i risultati. Non sapremmo mai immaginare la nostra vita senza un film, che sia visto per passione, per noia o per divertimento. Se la sera non sappiamo che fare, vediamo un film; se siamo stanchi, mettiamo su una puntata di una serie tv che in media dura tra i trenta e i quarantacinque minuti e via discorrendo. Da generazioni, i film sono centro delle nostre discussioni, molto più di ogni altra arte, di ogni altro modo di esprimersi. Perché accade questo? Perché tutti quanti siamo attratti dal cinema e invece le altre arti rimangono più settoriali e ad appannaggio del gusto e della passione personale?
In breve, a dare vantaggio ai film (intenderò con film anche serie tv e affini, per semplificare) c’è sicuramente una componente di fruibilità e temporale: banalmente, vedere un film in media occupa due ore della nostra vita, un libro sulle duecento pagine almeno otto o dieci. La fruibilità ormai è senza paragoni, basta avere un account Netflix, Prime Video, Sky ecc per vedere centinaia di film e serie con pochi euro al mese. Ma, anche prima di questi colossi dello streaming, bastavano pochi soldi e una serata per poter avere accesso ad un cinema. Un altro punto a favore è senza dubbio la compresenza di immagine e suono, soprattutto da qualche decennio a questa parte in cui la prima è generalmente preponderante nelle nostre vite. Film di Nolan a parte, un calo dell’attenzione di due minuti non comporta, di solito, una gran perdita nel complesso di una visione, e, se anche lo sguardo si distacca dallo schermo, la voce, la colonna sonora e i rumori consentono di mantenere un contatto con la proiezione in atto. Per concludere questo breve excursus, la visione di un film può essere collettiva: in una sala di un cinema con sconosciuti, sul divano di casa con amici, all’aperto in eventi estivi, così come accade anche per una mostra d’arte o un convegno letterario, ma, se sommiamo questa possibilità con quelle citate in precedenza, notiamo quanti siano i punti a favore dei film.
Voglio però concentrarmi su un tema più complesso: il rapporto tra cinema e letteratura.
Da sempre siamo abituati a ritenere, attraverso le trasposizioni cinematografiche di alcuni romanzi, il film come una ripresa con tagli e aggiunte arbitrari da parte dei registi e degli sceneggiatori di turno rispetto al prodotto originale. Questa operazione spesso ha portato, nello specifico quando il prodotto non è di altissimo valore, a considerazioni del tipo “il libro è sempre meglio del film”, che in molte situazioni mi sono trovato a condividere. C’è, a mio parere, una grande motivazione dietro questa frase: i libri lasciano spazio al lettore, alla sua capacità di riempire i vuoti, mentre un film non può permettersi molti buchi. Il lettore collabora, crea insieme allo scrittore. Per citare Eco, egli compie scelte interpretative che vanno oltre il testo in sé, ponendosi in relazione attiva e produttiva.
Ci sono due punti da analizzare: innanzitutto, esistono trasposizioni assolutamente degne di nota, benché a volte si discostino dall’originale stampato (Fight club è un film a dir poco meraviglioso, anche se il lavoro di Fincher prende spunto dal meno celebrato testo di Palahniuk; Il signore degli anelli di Tolkien è un capolavoro della letteratura mondiale, ma per questo non apprezziamo la trilogia di Peter Jackson? E per avvicinarci all’oggi, il Martin Eden di Pietro Marcello non è un prodotto valido anche se il libro è una pietra miliare del ‘900?); in secondo luogo, prendendo spunto dal primo, portare sullo schermo qualcosa di scritto in precedenza non vuol dire doverne rispettare ogni dettaglio, perché l’opera cinematografica è un prodotto a sé, per quanto faccia riferimento ad un lavoro già esistente. A sostegno di quanto appena detto, faccio scendere in campo due giganti uniti da un titolo comune e celeberrimo: Shining, scritto da Stephen King e girato da Stanley Kubrick. La polemica mossa dal re dell’orrore riecheggia anche a quarant’anni dalla prima proiezione nelle sale e nelle sue dichiarazioni non ha mai fatto mancare attacchi al regista, accusato di aver snaturato del tutto il suo romanzo, a partire dai personaggi, per arrivare al significato ultimo. Il risentimento di King è comprensibile (chi vuole vedere la propria opera snaturata?!), eppure ci troviamo a parlare di due opere colossali, magnifiche e inquietanti. Proprio questo è il filo del mio discorso: Kubrick ha ripreso la materia orrorifica di King e l’ha tradotta concedendosi delle licenze artistiche. Il suo è e rimane un prodotto artistico indimenticabile, al netto dei cambiamenti apportati.
Dopo questa serie di considerazioni più che nota, c’è da analizzare un’altra questione. Diamo sempre per assodato che sia il cinema a ricevere influenze dalla letteratura, ma non ragioniamo molto spesso su quanto succede nel senso opposto. Quanto gli schemi, le tecniche e il linguaggio del cinema influiscono sul prodotto letterario contemporaneo?
Piccole premesse necessarie: ci sono sempre stati scrittori dediti alla descrizione minuziosa di ogni dettaglio e particolare, c’erano durante il Rinascimento, nell’Ottocento e ci saranno sempre, così come ci sono scrittori che hanno una innata tendenza ad una scrittura da sceneggiato.
In molte opere dalla seconda metà del ventesimo secolo in poi, italiane o straniere che siano, è presente una tendenza sempre più diffusa alla descrizione, soggettiva o meno, di ambienti, situazioni, dettagli e movimenti che molto più di rado si incontrava prima, e allo stesso modo le scene, le azioni dei personaggi, la luce e la situazione climatica assumono peso nel complesso della narrazione. Non voglio certo dire che sia tutto dovuto all’influenza cinematografica, le correnti vanno e vengono così come lo stile e le strutture che le accompagnano, eppure i ritmi, l’attenzione ai suoni e alla visione dei personaggi vanno sempre più in quella direzione.
Capita inoltre, confrontandosi su un libro recente, o comunque contemporaneo (se per contemporaneo intendiamo dal Dopoguerra in poi), appena letto, di fare considerazioni del tipo “ci verrebbe fuori una bella serie/film da questo”, proprio perché in molti notano il modo in cui le strutture dell’una o dell’altra arte abbiamo sempre maggiori somiglianza. È cosa nota il fatto che l’influenza della televisione sia stata potente su molti scrittori nati dagli anni ‘60 in poi, e le analisi, facendo riferimento alla tv, non possono escludere la trasmissione sempre maggiore di film, soprattutto in prima serata. Risulta quindi evidente che una maggiore fruizione, oggi ai suoi sviluppi estremi, di prodotti quali film e serie tv abbia un’influenza non meno rilevante di quella dei molti libri letti, che si riflette sia sul modo in cui si scrive, sia sui gusti di chi legge, in particolare quando a dominare è una cultura delle immagini.
Per fare nomi illustri di autori che mi hanno fornito questa impressione, cito due che già erano apparsi in precedenza: per quanto abbia letto ancora poco di entrambi, gli statunitensi Stephen King e Chuck Palahniuk sono stati il punto di partenza di una riflessione che già era in atto da un po’ e che ha la sua maggiore espressione, a mio modesto parere, in una scrittura che procede per immagini, non tanto per capitoli e paragrafi o situazioni. Sono le immagini a scandire il ritmo della narrazione, a fornirle la struttura di base, ed è una tendenza che riscontro come sempre più presente con l’aumentare dei libri contemporanei che mi trovo a leggere.
Insomma, dal 1895 ne sono stati fatti di passi avanti, e le arti non sono mai isole, quindi è più che normale uno sviluppo non solo parallelo. Anzi, sarebbe questa la stranezza. Il fatto che i diversi metodi espressivi vengano a toccarsi e ad influenzarsi non può che contribuire al rinnovamento di materie mai statiche, che cercano sempre di espandersi e trovare nuovi appigli per sperimentare e crescere in direzioni diverse. Come ci sono capolavori, ci sono sempre prodotti di basso valore artistico, ma non è una colpa da attribuire allo sviluppo delle arti stesse, quanto piuttosto all’incapacità di saperle dosare o alla presunzione di talento e doti.
Questa settimana presenteremo un articolo di critica di Samuele Maffei, che compie un’analisi tecnica e approfondita del linguaggio di Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda in relazione a quello che definisce antispazio. Samuele va sviscerare la complessità delle varietà dialettali dell’antiromanzo gaddiano soffermandosi sulla spazialità che questi esprimono, in particolare il romanesco.
Nel fine settimana, faremo uscire un testo inedito di Marco Ferrucci, un brevissimo spaccato di una vita dopo: dopo ventidue anni, dopo la necessità di abituarsi a una vita differente, non più in due, a una routine a cui ci si abbandona per far scivolare il tempo in attesa che tutto si risolva, vivendo in un flusso di ricordi dolci, ma per questo terribili.
Il signore degli anelli ( migliaia di pagine!) l’ho letto tutto prima dei film: non sono rimasta delusa dalla pellicola una volta tanto (ma era successo anche con Trainspotting, nonostante le divergenze tra film e romanzo). E’ proprio vero che libro e film vivono ciascuno di vita propria come e’ pure vero che ci sono certi film che se li potevano risparmiare ( tipo: Io sono leggenda ) perché se proprio devono stravolgere la trama allora il film deve essere un capolavoro come Shining!
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