Se è vero, come è vero, che per ogni azione – intesa come scarto dalla stasi, dal grado zero – può ricostruirsi il sistema di orientamento spaziale che la determina, è altrettanto vero – va da sé – che l’enunciazione, come sovvertimento del non detto, può essere circoscritta in un sistema spazio più o meno unitario. E ancora: se è vero che il mondo del secondo dopoguerra fatica a tenere in un quadro delineato le coordinate spazio-temporali, anzi piuttosto si caratterizza per una frantumazione del cronotopo, è altrettanto vero che uno dei rispecchiamenti possibili, anche lucaccianamente, è quello di un linguaggio che renda conto di un tale cambiamento. Sulla falsariga di queste premesse, occorre scongiurare qualsiasi interpretazione in senso meramente artistico dell’operato gaddiano per quello che concerne la promiscuità linguistica del Pasticciaccio, un romanzo-non romanzo (un giallo-non giallo) che, uscendo tre anni prima dello scoccare dei Sessanta, sembrava anticipare tutta una tradizione che in quegli anni farà della corrispondenza parola-realtà il suo vessillo. Facendo un salto in avanti di sei anni, approdando sull’apertura de La cognizione del dolore, si legge: «barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine». Detta così – e l’intento è ironico – l’operazione risulta essere più banale di quanto effettivamente non sia. Il pastiche linguistico che accompagna il dottor Ingravallo nella caccia all’assassino della Balducci rende conto di una parcellizzazione più spaziale che idiomatica, più realistica che artistica: è la Roma in cui la romanità galleggia in una miscela di parlate, dal napoletano alla bell’e meglio di Fumi, al turpiloquio dei personaggi subalterni, alla lingua istituzionale della burocrazia, alle iuncturae aspre tenute insieme dal trattino. Così, lo spazio in cui si muovono i personaggi, minuziosamente descritto dall’autore, non senza un effetto di iperrealismo, trova la sua controparte in una frantumazione dello spazio linguistico, secondo una continua frizione tra spinte centripete e spinte centrifughe. A testimonianza del contrasto tra le meticolose coordinate spaziali e le scoordinate parole che le delineano, basterà citare un passo in cui le direzioni da seguire per raggiungere la casa della Tina a Torre del Gheppio sembrano tanto più confuse quanto più sono descritte con precisione: e in questa interferenza tra linguaggio e luogo resta immerso anche il protagonista:
«Là,»e si voltò: «so’ tre chilometri emmezzo puro quattro: nun c’è che d’anna’ avanti co la machina. Quanto ar ritorno, poi, si è che lei, dopo Tor der Gheppio, avete d’anna’ puro a la Pavona, alora potressimo scegne fino a Casal Bruciato: a imboccà l’ardeatina, appunto. Prennenno su quella ne la direzione d’Ardea s’aritrovamo subbito, saranno du chilometri nemmanco, a Santa Palomba là dove ce stanno chelle antenne (le additò) che se vedeno dapertutto, fino da Marino. Là, si lei volete, s’incrocia su la strada de la Solforata e de Pratica de Mare: sicché, p’er Palazzo, potemo venì su diritti fino a la Pavona che in tutto, da Casal Bruciato, saranno sei chilometri o sette, a dì tanto. Co la machina una quindicina de minuti.» «E vabbuò,» disse Ingravallo, a cui quella toponomastica aveva procurato du strizzatine de mascelle […]. (p. 298)
Al netto della sovrapposizione tra le due spazialità, quella topografica e quella linguistica, per una mappatura della narrazione occorre parlare di due assi di un piano cartesiano che ha come risultante la deflagrazione di qualsiasi localizzazione possibile. L’asse delle ascisse x – il senso di orizzontalità rende bene l’idea della collocazione spaziale tout-court – corrisponde allo spazio del significato,cioè alla definizione meticolosa di strade, palazzi, mercati, chiese, monumenti e botteghe, in cui ogni componente viene chiamata per nome, esteso per una rete di geolocalizzazione che abbraccia Roma e provincia, da Marino a Tivoli, da Ladispoli alla Sabina, salvo sconfinare nella provincia di Rieti se non addirittura nell’immediato Abruzzo di Carsoli:
Era l’alba, e più. Le vette dell’Algido, dei Carseolani e dei Velini, inopinatamente presenti, grigie. Magia repentina il Soratte, come una rocca di piombo, di cenere. Di là dai gioghi di Sabina, per bocchette e portelli che interrompessero la lineatura del crinale, il rivivere del cielo si palesava lontanamente in sottili strisce di porpora e più remoti ed affocati punti e splendori, di solfo giallo, di vermiglione[…] Di là, da dietro a Tivoli e a Càrsoli, flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, con falsi-fiocchi di zafferano, s’avventavano l’una dopo l’altra a battaglia, filavano gioiosamente e sfrangiarsi […] La metà opposta del tempo, là là sopra il litorale di Fiumicino e di Ladìspoli, era un gregge color marrone, sfumava in certe lividure di piombo […]. (p. 210)
L’asse delle ordinate y – il senso di verticalità favorisce l’astrazione del concetto – di contro, corrisponde inevitabilmente allo spazio del significante, cioè alla fiumana idiomatica che investe la pagina rompendo gli argini di qualsiasi caratterizzazione spaziale:
La necessaria frequenza della malavita, l’approfondimento abbreviato, ottenuto così per intuito, de queli «stati de famija», lo aveveno ridotto che lui, là pe llà, te spifferava tutte le «coabitazzioni», ponghiamo, de via Capo d’Africa o de via Frangipani, e fin su a li Zingari, a via de li Capocci, ar vicolo Ciancaleoni: e giù poi, passata piazza Montanara nun ne parlamo nemmeno, a via de Monte Caprino, ar vicolo de la Bucimazza, a via de’Fienili: quanti nun ne conosceva! (p. 81)
La funzione xy che si delinea è tanto più ineffabile linguisticamente quanto più spazialmente circostanziata: detto in altre parole, tanto più le vie trovano il loro posto nel reticolo geografico con autoptica acribia quanto più la concretezza del luogo – lato sensu del cronotopo – viene meno. In un tale dedalo chiaroscurale, sottraente referenzialità sul punto della presa, non resta che affidarsi alla caduca bussola della deissi, ultima spiaggia dopo una procella di astrazione (o distrazione – dal luogo reale) in cui non si finisce di sprofondare: un sistema di localizzazione che orientando disorienta, secondo una mappatura apparentemente garante di una stringente corrispondenza significante-significato, ma che in realtà dà man forte al sistema di spazializzazione despazializzante su cui si fonda l’intero romanzo (poema, giallo, ecc.) gaddiano. Inoltre, l’uso dei deittici trova, per ovvi motivi, terreno fertile nelle situazioni dialogiche in cui l’individuazione di un luogo da raggiungere richiede l’attivazione della funzione visiva, le stesse situazioni in cui il pastiche linguistico è maggiormente esibito: una convergenza di mancata referenzialità a scanso di qualsiasi tentativo di designazione enunciativa.
«Tor di Gheppio è là» fece il volonteroso ometto indicando, «verso la masseria del Palazzo. La Crocchiapani abita là, in una de quelle case che vedete, il mucchietto a sinistra». Emerso allora dalle ondulazioni di quella Creta senza popolo, che le maggesi, a tratti, inverdivano, lo spigolo acuminato d’una torre si disegnò nel cielo come scheggia, d’un antico dente d’un’antica mascella del mondo. Le case dei viventi, mute nella lontananza dei coltivi, antistavano: ma un poco più di qua. Discesero. «E la Pavona, la stazione?» domandò Ingravallo. «Lu paese della Pavona è chillu,» indicò l’ospite ancora: «è là sotto, vede? Chella è la stazzione. A traversà li prati saranno venticinque minuti: e annà de bon passo. Ma se bagnamo tutti.» «E la Roma-Napoli?» «Là» […] (p. 298, corsivo mio).
In conclusione, per una sistematizzazione spaziale del Pasticciaccio occorrerebbe parlare di luoghi testuali più che di luoghi in senso stretto, di percorsi narrativipiù che di strade investigative, di città idiomatiche più che della Roma mussoliniana: occorrerebbe parlare dell’universo-Gadda come di uno spazio altro, insieme astratto e concreto, in cui i significanti possono prescindere dai significati e significare solamente se stessi.
Samuele Maffei