Anche visto solo da lontano, sullo scaffale di qualche libreria o biblioteca, o da vicino, nelle mani di qualcuno che lo stava leggendo, Q ha sempre esercitato su di me uno fascino magnetico che attirava alla lettura.
Forse per la sua copertina dallo stile minimalista con pochi ma misteriosi elementi: su una facciata bianca campeggia il nome dell’autore (o meglio: del collettivo che ha scritto il libro) e il titolo del libro, rielaborazione grafica, senza troppi fronzoli, di una Q presa da un alfabeto di Albrecht Durer, come ci informa la quarta di copertina.
Forse, proprio per quel titolo, muto e impossibile da decifrare. Forse, infine, proprio il fatto che non fosse stato scritto da un singolo autore, ma da un collettivo. Piccolo ma fondamentale excursus: il nome del collettivo, Luther Blissett, viene per primo coniato dall’artista e performer inglese Harry Kipper che, negli anni ’80 comincia a firmare le sue opere con questo pseudonimo (un centravanti di origine giamaicana che in Inghilterra impazzò per qualche anno prima di fare una breve e deludente comparsata anche in Italia, al Milan). In seguito, lo stesso Kipper avrebbe trasformato questo pseudonimo in un personaggio aperto e inafferrabile a cui tutti potessero concorrere semplicemente utilizzando Luther Blissett come nome per marchiare le proprie opere collettive. In seguito, alcuni autori italiani, della sezione bolognese, cominciarono a firmare i propri libri con un altro pseudonimo, quello di Wu Ming, con cui sono conosciuti tutt’ora.
Insomma, a più di 20 dalla sua pubblicazione (avvenuta nel 1999, stesso anno in cui il collettivo decise di non partecipare alla premiazione del premio Strega a cui erano stati candidati, coerentemente con le loro posizioni sfacciatamente antisistema), Q rimane un libro che sprigiona una certa qual forza eversiva sin dal primo contatto e che riesce a non deludere nel corso della lettura per almeno 3 ordini di ragioni.
In primis, la materia della storia: ci troviamo in pieno ‘500, secolo gravido di avvenimenti. Il racconto copre l’intera durata delle guerre di religione (uso volutamente il plurale perché furono più di una e tutte inestricabilmente connesse) del XVI secolo, dall’affissione delle tesi di Lutero a Wittemberg nel 1517 alla chiusura del vaso di Pandora, sigillato dalla formula cuius regio, eius religio (a ogni terra, la religione del suo principe) promulgata ad Augusta, nel 1555: “Quarant’anni, tanto è occorso per strappare nuovamente ai popoli la scelta del proprio destino, e agli uomini quella della propria fede” (p. 639). In mezzo decenni di speranze, rivolte, faide e restaurazioni che seguono da vicino (ma non esclusivamente) le vicende della comunità anabattista, il movimento religioso nato da una costola del protestantesimo e che predicava l’uguaglianza degli uomini e la separazione tra Stato e Chiesa; e che, non a caso, era ferocemente avversata da entrambi. Si passa quindi attraverso la disfatta nella piana di Frankenhausen nel 1525 (quando vengono massacrati i seguaci del predicatore Thomas Muntzer), l’epopea, degenerata in paranoica tirannide, della città stato anabattista di Munster, le conseguenze del Concilio di Trento a metà secolo e il terrore provocato dall’incipiente potere della Santa Inquisizione.
In questo variegato e composito contesto si affollano personaggi, realmente esistiti, di ogni genere, alcuni dei quali si stagliano con enorme vividezza. Uno su tutti, Jan di Leida, un lenone che vorrebbe “diventare il primo santo pappone della storia” (p.213), si presenta “sdraiato su un divanetto corto, con una mano avvinghiata a una coperta e l’altra ai coglioni […] nudo, dalla cintola in su, tutto spalmato d’olio sul petto” (p.212) e che sarà uno dei protagonisti del regno anabattista di Munster. Oppure messer Pietro Perna, commerciante italiano di statura minuta e ingegno gigante che riesce a cavarsela in ogni situazione e può parlare con lo stesso fervore di affari e vini toscani.
Ma oltre ai personaggi il libro disegna un’interessantissima mappa geografica europea dato che la storia si lega a doppio filo a una serie di luoghi. Per lo svolgimento la trama è quindi affascinante anche osservare la cartina, punteggiata da numerose città o borghi, ricostruiti e variamente evocati. Si parte dalla Germania accademica, quella di Wittemberg e della sua università, per spostarsi in quella polverosa di Allstedt fino ad arrivare nei rumorosissimi centri di Augusta o Norimberga; ci si sposta poi al sud tra l’intellettuale Strasburgo e Basilea per tornare nelle Fiandre tra Amsterdam e Anversa, brulicanti di vita e polo centrale dei commerci; e, infine, il viaggio si conclude in Italia, a Venezia, presentata, in maniera molto suggestiva, dal protagonista attraverso una tela che vede nello studio di un pittore appena arrivato in città: “incredibile labirinto d’acqua e terra, pietra e legno, dimora di almeno centocinquantamila persone di diversissime razze, con chiese in numero superiore a cento, sessantacinque monasteri e forse ottomila case da meretricio” (p.435).
Il secondo aspetto rilevante del libro è relativo alla costruzione della storia stessa. Ci sono due punti di vista che sapientemente si alternano nella narrazione. Un primo è, per così dire, dall’alto: le lettere che vengono mandate a Benedetto Carafa, silenzioso pezzo grosso della curia romana che non appare mai direttamente ma che tesse dietro le quinte oscure trame geopolitiche, dal suo fidato braccio destro. Questa corrispondenza epistolare unidirezionale ha il compito di scandire i momenti della storia, fungendo spesso da transizione da un episodio all’altro.
Il secondo punto di vista è dal basso e ci viene direttamente dal protagonista della storia: un anonimo (nel senso che è senza nome; o meglio, ne ha troppi) anabattista tedesco che tenta di sobillare il fuoco della rivoluzione in giro per l’Europa. A questa altezza e dalla sua voce vengono raccontate le vite e le vicende (compresa la sua) di tutti quei personaggi che, volenti o nolenti, si sono incontrati o scontrati con la grande Storia con la S maiuscola che dall’alto i potenti e i loro sottoposti hanno intessuto.
Oltre a questo, la voce del protagonista si serve di lunghi flashback per narrare le sue avventure: per esempio, la centrale epopea del regno anabattista di Munster fa parte di un suggestivo racconto nel racconto che il protagonista fa al suo ennesimo compagno di avventure qualche anno dopo: questa sovrapposizione dei piani del racconto permette da un lato di movimentare il libro e dall’altro ci consente di immergerci ancor di più nella storia.
In ultimo bisogna dedicare due parole sullo stile. Data l’estrema varietà di situazioni e personaggi che vengono presentati, il romanzo si muove su cadenze e registri differenti. Si passa dalle forbite lettere spedite a Benedetto Carafa, ricche di un linguaggio politicamente allusivo, al concitatissimo e spezzettato ritmo delle scene di battaglia. Tratto caratteristico, molto spesso, è l’unione di sacro e profano, di alto e basso, come nelle descrizioni “Cellario dice che Stubner è quasi sempre ospite del birraio Klaus Schlacht: il santuario ideale per un Isaia tedesco. L’incenso è un vapore denso che sa di cucine e di birra, i salmi sono i canti strascicati e le imprecazioni degli avventori” (p.43).
Q, in definitiva, è un romanzo complesso e affascinante: ben costruito e ben scritto su un argomento che metteva a disposizione tanto materiale. Il sugo della storia di manzoniana memoria che il protagonista tenta di estrarre alla fine è cinico e amaro, ma anche coerente con una storia che ha avuto i suoi vincitori ma ha lasciato per strada una moltitudine di vinti: “Non ci sono insegnamenti da trarne; non c’è alcun piano da seguire. Sono ancora vivo, ecco tutto” (p. 640). Ma un’altra chiave di lettura, assolutamente complementare, che ci illustra quale sia stata la spinta degli autori a scrivere questa storia e perché sia importante continuare a raccontarcela, ci arriva dal comunicato stampa che lo stesso collettivo diramò nel 1999, in occasione dei bombardamenti Nato sulla Jugoslavia: “Un’Europa in cui le scelte politiche sono determinate da banchieri tedeschi; in cui la fede religiosa è portata sulle insegne delle bande mercenarie. Un’Europa percorsa da colonne di profughi in fuga in cui la ribellione dei disperati è accolta dalla risposta compatta dei vecchi casati e dei poteri mercantili emergenti. La stessa merdosa risposta di sempre: cannoni e genocidi, e ancora ferro e fuoco […] Non ci hanno mai interessato gli appelli generici alla pace: la guerra, oggi come quattro secoli fa, ha una sua fortissima ragione di essere, ben radicata nelle scelte politiche ed economiche dei poteri multinazionali e degli stati. Degli Stati Uniti come dell’impero di Carlo V”
Marco Roberti