Lessico della mancanza

Bianca

Il tuo nome non mi piaceva e ti chiamavo

Bianca.

*

Le mie giornate senza Bianca

sono arrotolate dentro la calma:

ricucire gli strappi e poi

tagliare via quella sezione del vestito;

cucinare minuziosamente un pasto caldo

e poi, dalla padella, gettarlo nell’immondizia.

*

Un po’ mi manca quella distanza,

ogni secondo, andandosene, ci accostava.

*

Adesso, Bianca, ogni rintocco batte

e graffia la tua fotografia alla parete,

e sbiadisce la tua ultima sagoma.

*

Una volta, prima dell’alba,

Bianca disse: “finalmente è completa

la rivoluzione; e la notte e il giorno

si spartiranno l’universo” e non fiatai,

*

Lascia che la sentenza annegasse in quel lago –

tra il cuore e la gola – dove

restano sepolti gli annunci inappellabili,

che si compiranno senza curarsi di te.

*

Non è la massa complessiva dei funghi

né il vestito chiaro che Bianca non si mette mai.

Non è la lampada che precipita dal comodino

né l’aria che si fa scura nei suoi interminabili discorsi.

Non sono il presente e il passato che si confondono

per un addio più lungo del dovuto.

*

Pochi sanno aspergere lacrime di mille colori.

Pochissimi hanno passioni squarciate tanto vulnerabili

da non poter essere pronunciate ad alta voce.

Quasi nessuno è all’altezza di morire di desiderio,

come una preda, tra le braccia del cacciatore.

*

Il tuo nome non mi piaceva e ti chiamavo

Bianca, prima che l’anatema mi raggiungesse.

*

Brutalmente rioccuperai la tua identità,

e Bianca scompare con me.

Uomini-sabbia

Siamo uomini-sabbia,

equivalenti, ammassati, sottili, trascurabili;

in balia della pietra e dell’aria,

del tuttavia che ridimensiona la fantasia.

Per questo motivo Pierpaolo ha rotto il bicchiere,

stamattina. Quello che avevi rubato per me.

E non mi sei mancata.

Si è liberato dei frammenti,

mi ha chiesto scusa

e non mi sei mancata.

Nel pomeriggio Lorenzo ha buttato la spazzatura:

adesso non c’è più nessun bicchiere

rubato per me, sopra il lavandino.

E non mi sei mancata.

Briciole di vetro – probabilmente – sono annegate

in fondo al tubo di scarico.

Resti di cibo e tanta acqua per pulire ogni ricordo

– persino il tuo– gli saranno di compagnia.

Proprio perché non mi manchi

ho passeggiato serenamente sul luogo del decesso,

mentre dalla finestra entravano i rintocchi di una campana

Anita dipingeva e sulle sue guance e sulla sua tela

gocce marroni rotolavano giù.

Non mi sei mancata, no;

siamo uomini-sabbia e i nostri sogni

non sono che ombre irrilevanti.

Se mi fossi mancata sarebbe andata diversamente:

ogni cosa si sarebbe seccata al mio sguardo,

il marmo del tavolo si sarebbe crettato

e la pelle del conduttore in televisione sarebbe sgualcita e ingrigita,

scoraggiandomi a cercare uno specchio

per fissare le mie lunghe ciglia appassire

e precipitare laggiù in fondo, assieme alla polvere di vetro,

quasi sabbia, ma non mi manca.

Se non fossimo uomini-sabbia

Mi ameresti di nuovo,

e succederebbe presto,

sarebbe semplice per chi ha dei sentimenti,

e se proprio tu fossi l’unica ad averli

vorrai vedermi di nuovo e non potrai,

e questo sarà il perché: siamo uomini-sabbia.

E tu ci crederai, non avrai alternativa.

È così che deve andare, cadranno le tenebre,

l’acqua che ci inghiottirà – attraversandoci –

diventerà sempre più scura

impedendoci di vedere attraverso,

non proveremo nostalgia.

L’ora di smetterla

Echeggia – stridulo – un odore d’erba bagnata.

Ogni tramonto il sole richiama a sé i suoi sudditi,

le nuvole e tutto ciò che sta in cielo sembrano raggiungerlo;

anche le distrazioni.

La notte centouno si sparge rapidamente

fuori e dentro di me, come la certezza che domani

ancora qui sarò a vegliare

lo strazio di cento notti,

a temperare i raggi della luna,

a scucire i merletti dell’oscurità per ritrovare

un capello che abbia trattenuto mezzo bisbiglio.

È in una di queste notti che un poeta si toglie la vita.

Se qualcuno avesse spalancato la porta

mi avrebbe trovato a farfugliare sopra un foglio

umido e bianco, senza la forza di sollevare una penna;

di notte in notte il foglio si impregnava

e rimaneva bianco. E la porta rimaneva chiusa.

Più che di scrivere, ho sperato

di veder comparire qualcuno.

Come scrivere con questo frastuono

di cani che mi cercano dai fondali della mia anima?

Sono costretto a ignorarli:

ho i funerali da organizzare,

il parroco da chiamare,

i parenti da avvertire,

la bara da scegliere;

e questo amore che non vuole morire.

È colpa mia se non so più dir parole

che trattengano quella vita che ora defluisce lentamente

dal mio corpo. È colpa solo mia se

l’esatto opposto di un paesaggio primaverile

è un cassetto dove nascondermi i ricordi;

è colpa mia se a venticinque anni si può decidere

di andarsene da Roma e dal mondo e io

faccio di tutto per non capire,

mi scuoto di rimpianti senza effondere una parola;

è colpa mia se è finito anche settembre.

– Quando c’è – la pioggia è il suono prediletto nella notte

e i miei passi penosi verso lo specchio in bagno.

Com’è fatta la mia faccia e cosa c’entra con me?

Finalmente va alla deriva per chilometri e chilometri di buio,

se domattina l’oscurità non si dissolvesse

potrei non scrivere e continuare a gattonare sul foglio bianco

fino all’arrivo della voce che mi dica: “Fabrizio,

è ora di smetterla”.


Il giorno nel quale nessuno domanda più di te

Ecco il giorno nel quale nessuno domanda più di te,

Roma è sazia di pettegolezzi:

“buon lavoro”, mi dice,

“che fai stasera?”, mi chiede.

Ecco, è oggi che finisce una storia d’amore,

quando tutti intorno si sono rivestiti

e le flaccide, decrepite, prostitute ricominciano

bambine con il destino segnato.

Roma, distratta, abbassa gli occhi;

potrei svignarmela e pensare una bugia

per non ammettere che non è così che deve andare,

non è così che si deve vivere.

“Buonasera”, mi dice,

“che lavoro fai?”, mi chiede.

Poesia senza amore

Che un riflesso di luci dietro a una porta
non mi faccia immaginare nessuno,
forse non è un dramma.
Che una terrazza umida e buia
compensi una perdita, senza narrazioni,
forse è più giusto.
Che un autobus si arresti sotto casa
e io non mi affacci a guardare fuori,
forse è risparmio di tempo.
Che inchiudere gli errori nella propria immagine
germini scelte lucide e sensate,
forse è un’istruzione per la maturità.

Che io giaccia nell’assenza di pensiero associativo,

sia sempre e mai nel perché sono qui?,

forse rende il lavoro più proficuo.
Che io non veda più in ogni bacio il suo asciugarsi,
più in generale, in ogni oggetto un oggetto smarrito,
forse è libertà.
Che non ci sia il grande freddo o il grande caldo,
non si debba buttare i vestiti o cercarne altri,
forse garantisce equilibrio.
Che inizi a chiedermi chi io sia,
non più il cielo nero, tanto quanto lui era me,
forse è salutare.
Che non si possa salire a cavalcioni su uno sguardo,

tessere baracche nelle quali abitare,

avanzare di fianco all’irrealtà,

essere ingenua gallina e predare la scaltra volpe,

pianificare eventuali viaggi all’indietro,

sollecitare le nuvole a raggiungere la montagna

e rimandare alla sera ogni atto di dolore,

forse rende la vita tollerabile.

Che io non sia felice, certo neanche triste,

e scriva lagnose poesie senza amore

forse, forse, forse, non è un dramma.

Fabrizio Sani.

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