Elbrus

I confini (in)valicabili dell’umanità

L’uomo non ha perso l’ennesima occasione per dimostrare tutti i propri limiti, mentre il mondo alieno è qualcosa tutto da scoprire e, nelle premesse, sembra già preferibile alla Terra e agli umani che la abitano (p. 292). La conclusione di Elbrus spodesta la presunta perfezione dell’uomo, lo costringe a cedere lo scettro di tiranno dell’universo – prossimo passo: accettarne l’autogoverno – e con una sterzata anti-leibniziana afferma che no, il nostro non è il migliore dei mondi possibili. E sì, ci sono altri mille modi (e mondi) di vita che sfuggono alla mania di controllo umana.

Questo romanzo prende la fantascienza e la tinge di mistero; si immerge nella scienza e la spinge verso traguardi incredibili e terrificanti. Nulla è come sembra: anche nel perfetto mondo tecnologico c’è ancora spazio per l’incontrollabile. L’imprevedibilità, proprio quel quid che ci rende umani e ci conduce all’erranza (errore: non dar ascolto ai segnali di Madre Natura e a cambiamenti climatici ormai irreversibili; errare: oltre i confini della morale, verso la rincorsa ad una sperimentazione scientifica che corre, troppo e senza freni) porterà ad una conclusione incredibile, fuori da ogni controllo e aspettativa. Testo polifonico in cui convergono le distanze siderali della fantascienza, le vertigini iperboliche della scienza e la contingenza dell’animo individuale, umano e non solo.

A orchestrare questa molteplicità di temi ci pensano Giuseppe Di Clemente e Marco Capocasa. I due autori contribuiscono con la loro formazione, tra economia, condita di passione per la fantascienza, ad antropo-biologia, a catapultarci in un futuro affascinante e drammatico, trionfo della civiltà e al tempo stesso delle barbarie. Un’enorme lente di ingrandimento, che mette a fuoco questioni – manipolazione genetica, cambiamento climatico, migrazioni ambientali, disastri nucleari – palpitanti e vive già nel nostro presente.

La vicenda si svolge tra il 2155, momento di svolta per i personaggi e il 2113, quel passato che non passa, seme da cui germoglieranno devastanti conseguenze. Il rischio dell’ennesimo dito puntato sul presente dal piedistallo del futuro viene meno fin dalle prime pagine che gettano in medias res nella concitata vicenda di Andrus, affermato stilista improvvisamente caduto in uno stato di trance, in preda a visioni e deliri. Potremmo rifugiarci nella semplice spiegazione della schizofrenia ma ogni capitolo complica la vicenda e allontana dalla soluzione dell’enigma, in un rilancio continuo che tiene attaccati alla pagina. Merito della scrittura avvincente e della maestria dei due autori nel trattare una materia complessa in maniera puntuale, pur lasciando spazio alla creatività. Merito della curiosità che suscitano le vetture volanti del futuro, della tecnologia che pervade le strade e le case di Tallinn (nella capitale estone vivono gran parte dei personaggi), della convivenza con l’intelligenza artificiale. Morbosità voyeuristica su come saremo tra un secolo, vetrina sulla nostra discendenza e trailer del film che vedrà la nostra progenie ma la forza attrattiva di questa storia non si ferma qui. Al mondo potenzialmente freddo e asettico delle innovazioni tecnologiche fa da contraltare una storia polifonica che immerge nelle vite – e nelle menti – dei molteplici personaggi coinvolti in una vicenda travolgente per tutti, vittime e carnefici. All’infittirsi del mistero corrisponde la scoperta del fil rouge che unisce quelli che all’inizio appaiono come tanti atomi sconnessi tra di loro, ora costretti a condividere le incredibili, tragiche e possibili conseguenze della scienza.

Va in scena la rappresentazione della mente umana, dei suoi traguardi ed eccessi. Marchingegno anatomicamente perfetto, luogo freudianamente affascinante e mai del tutto conoscibile, essa è in grado di trovare cure per malattie devastanti, di garantire il miglioramento delle future generazioni; insomma, di tendere sempre di più l’arco e di promettere che la freccia scoccata avrà una parabola maggiore della precedente. Ma oltre le luci, ecco emergere le ombre di una scienza distruttiva, tracotante, demiurgica, pericolosamente attuale – come non ravvisare nella stupefacente clonazione (letteraria) di ibridi e nella scoperta di una somiglianza genomica tra uomini ed alieni, l’altrettanto terrificante e meravigliosa clonazione (reale) di specie di macachi così simili all’uomo?

Gli scienziati e i ricercatori sono in grado di infondere speranza con la sperimentazione di nuove tecniche come l’editing genetico ma sono anche dei moderni Victor Frankenstein senza scrupoli, con una pretesa creatrice rilanciata iperbolicamente – non si tratta solo di dar vita ad una materia inerte quanto di coinvolgere più specie, ibridarle, clonarle. Per decenni confinano sotto il monte Elbrus ibridi umano-alieni, giocano con la scienza sacrificando bambini nati con l’inseminazione interspecie, privano di individualità e trasformano in cavie da laboratorio. Il romanzo racconta i rischi comportati dal superamento del limite, l’abbandono della componente umana, la sottomissione alla dea omicida della mera razionalità, lo scontro con il proprio corredo etico e morale. Fardello pesante che accetterà di portare David Dunn, professore che immolerà sull’altare della scienza la vita, personale e di bambini stappati alle madri, ma il fardello lo logorerà sempre di più fino ad una sterzata riparatoria finale.

Andrus, Lubomìk, Nigul, David, Niina, Eras… tante sono le vite stravolte. Ognuno è strappato con forza alla propria “normalità” – in una polifonia del genere il relativismo è d’obbligo – che sia quella di abitante di un pianeta alieno, della carriera di stilista o di giornalista, della ferita incurabile di una madre e di un figlio divisi; costretti a vivere le esperienze degli altri, a condividerne il dolore, e proprio quest’ultimo sarà il punto di ripartenza per una vita diversa, migliore. Forse allora vera protagonista della storia è la possibilità di un miglioramento, che sia della specie umana, della propria carriera lavorativa, della propria maternità. Il viaggio che queste 300 pagine fanno compiere è straordinario e devastante, mostra il meglio e il peggio dell’uomo, la scia di dolore da esso lasciata ai propri simili e ad altre specie. Ma proprio quando tutto sembra collassare, ecco il momento risolutivo: l’amore, come in un finale dantesco, riesce veramente ad accomunare il sole e l’altre stelle.

L’amore è l’unica speranza a cui appigliarci dopo tanta distruzione: consentirà ai cloni di raggiungere un pianeta nuovo ed una vita migliore. Esso supera i confini spazio-temporali e mantiene in vita l’alieno Eras, la cui unica linfa vitale è la sua dama, presenza costante che attraversa il tempo, trascende la materia ed è essa stessa pura energia (p. 305). È quel filo invisibile ma indissolubile che lega da decenni una madre al figlio strappatole da una scienza delirante. E l’ultima parola del romanzo spetta proprio all’amore: l’unico punto da cui poter ripartire, l’unico baluardo del miglioramento. Esperienza veramente universale ed onnipotente, per la sua utopica non appartenenza a nessun luogo in particolare, il suo accomunare ogni angolo dell’universo. L’unica forza che spinge Andrus a risolvere anni di sofferenze nell’abbraccio di una madre ritrovata all’improvviso. La scienza gli ha portato negazione e dolore, l’amore risoluzione e conforto. La sua vita stravolta riparte proprio da qui: non è mai troppo tardi per amarsi come madre e figlio (p. 309).

Eleonora Bufoli

Un commento

  1. Marco Capocasa

    Desideriamo ringraziare Eleonora Bufoli e la redazione de L’incendiario per la bella recensione. Per chi volesse scambiare qualche opinione con noi riguardo a Elbrus, saremo felici di farlo qui oppure sulle pagine Fb, Medium e Goodreads che abbiamo dedicato al libro.

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