Tana libera tutti

76 anni fa un’Italia lacerata, ferita ed ansimante, riassaporava la libertà. Primavera per la natura, per le chiome degli alberi impreziosite di fiori colorati, per le distese erbose color smeraldo, imperlate dal bianco delle margherite. Primavera per il nostro Paese, svegliatosi dopo un lungo stato di torpore privo di dolcezza. Il sonno non è stato ristoratore; per anni le energie migliori sono state imbrigliate, bloccate e abbandonate ad uno stato di deterioramento.

Certo non è bastato un unico giorno per riportare magicamente l’ordine, per cancellare le atrocità commesse da ogni parte e per risanare le ferite della guerra civile e di un Paese bottino della sete tirannica di altre potenze. Eppure, quel giorno le strade si riempirono di gente festante, l’entusiasmo travolse tutti: improvvisamente si raggiunse la consapevolezza di una nuova riconquistata libertà.

Termine quanto mai ambiguo, sfuggente, la cui natura è conforme al nome professato – difficilmente racchiudibile in categorie o definizioni certe. Liberi ci si sente non nel momento in cui lo si è effettivamente ma proprio quando questa prerogativa, diritto, dono – chiamatelo come volete – ci viene sottratto. Improvvisamente ci si sente usurpati, privi di un qualcosa che ci ha fortunatamente e culturalmente sempre accompagnati ma senza la tracotanza di rivendicarne l’appartenenza esclusiva. E quei fantomatici giorni di aprile 1945 le persone si sono riversate per le strade – dopo tanti anni di silenzi, rintanamento in cantine e sottoscala, rifugio nel mondo chiuso come ultimo baluardo alla tirannia che infuriava all’esterno – proprio perché hanno risentito quel flusso vitale: quel senso di possibilità di scegliere tra molteplici alternative, di essere padroni del proprio destino, di avere il diritto a esprimere il proprio punto di vista – al meccanismo livellatore di massa si risponde con la dignità dell’uno. Ci si è riscoperti liberi.

E non fu una sensazione momentanea: dalla Liberazione è scaturita la rinnovata dignità che ognuno dà alla vita, propria e altrui, e l’esigenza di valori condivisi ed inalienabili su cui basare la società del futuro. Italo Calvino, nella Prefazione al libro cult della Resistenza Il sentiero dei nidi di ragno, ripensando a distanza di anni (siamo nel ’64) all’euforia che si tornava a respirare, parla di spavalda allegria: clima generale che ha spinto molti alla foga del racconto, all’effluvio di carta stampata, racconti, opuscoli nati dalla rinascita, vera e propria smania di raccontare. Finalmente si tornò ad avere la percezione che l’esperienza di ognuno potesse avere un peso, e si andava ad inserire nel coro di voci che si innalzava sempre più rumoroso, ricco di modulazioni ed armonia. Alla base di questa percezione condivisa troviamo la consapevolezza dello stacco netto dal passato: tabula rasa, ricominciare da zero. E la libertà, il percepire l’importanza e la gravità del periodo vissuto – la portata storica e generale dell’evento – il poter dare ognuno la propria pennellata unica ed irripetibile che avrebbe arricchito il quadro generale, tutto ciò è secondo Calvino alla base del Neorealismo, figlio dello stacco netto tra passato recentissimo e presente inedito, capitolo assolutamente nuovo per esprimere noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso. Per Calvino il portato dell’esperienza passata da pochissimo e condivisa da tutti non poteva essere razionalizzato, raccontato secondo i canoni e dettami tradizionali o seguendo uno schema fisso e universale: al posto del freddo e calcolato ragionamento troviamo il calore e colore cangiante dell’espressione, il personale, originale, irripetibile e unico punto di vista del singolo.

A distanza di tre quarti di secolo ci troviamo nuovamente di fronte a un’esperienza collettiva, che ha toccato a suo modo tutti, nessuno escluso. La parola libertà oggi torna a farsi sentire come non mai. Uscita fuori dall’agone politico e istituzionale è tornata ad essere un’esigenza sentita da tutti proprio perché da un anno ce ne sentiamo usurpati, ci viene sottratta e riconcessa a piccole dosi come se fosse una risorsa a cui attingere poco alla volta, da non sperperare.

Proprio il non disporne più nel modo e momento in cui vogliamo l’ha trasformata in un bene raro, introvabile: è dunque aumentato il valore e prezzo per guadagnarla. Omnia preclara rara – tam difficilia aggiunge Cicerone a Lelio. Lì la preziosità caratterizzava l’amicizia ma mai come in questo periodo abbiamo imparato ad attribuirla anche alla libertà.

Quest’anno forse il giorno di Liberazione verrà sentito maggiormente. Molti comprenderanno meglio il clima generale che – prima nel male poi nel bene – accomunava tutti, il senso di sentirsi privati di un bene inalienabile e la possibilità di riappropriarsene con le imminenti – tanto attese quanto temute – riaperture. Si è parlato di rischio calcolato; ebbene sì, all’espressione calviniana dobbiamo accompagnare questo rinnovato – e illusorio? – senso di libertà con il calcolo. Dalla spavalda allegria di 76 anni fa dobbiamo recuperare l’entusiasmo, la voglia di cambiamento e di uscirne tutti insieme. Ognuno è immerso nel vortice generale e spetta al singolo la risposta – personale ma dalle conseguenze collettive – insita nella veste etimologica della responsabilità.

76 anni dopo il tripudio della primavera risboccia sull’Italia e si percepisce la stessa fame e voglia assoluta di libertà. Ma proprio come allora non si tratta di una vittoria schiacciante: ferite ancora calde, palpitanti, potranno essere guarite con la pazienza – virtù dei forti – il tempo e la responsabilità di ognuno. Oggi, inoltre, siamo ancora nel bel mezzo del vortice ma siamo anche chiamati ad uscirne con le nostre forze, con la nostra scelta ragionata. L’augurio per questa giornata della Liberazione è che lo spirito generoso, collettivo, solidale e comunitario di 76 anni fa possa scendere sul capo di ognuno di noi e come in una rinnovata Pentecoste civile e sociale, possa guidarci nel rimparare a gustare a sorsi la libertà, a non buttarci avidamente sopra di essa. Che il risveglio possa essere graduale, responsabile, privo di strappi repentini.

Questa settimana presenteremo l’esordio sul nostro Incendiario di Fiorenza Panaccio con il suo Se mi amasse davvero. È il racconto dei silenzi, degli strappi, delle separazioni e dei ricongiungimenti di una coppia. Una prosa semplice e potente, cristallina e tagliente, in cui emerge una ferita inguaribile, una comunicazione fondata sul non detto e il dolore di due vite che dopo aver viaggiato sullo stesso treno saranno costrette a percorrere binari paralleli, diversi, privi di punti di incontro.

La poesia tornerà protagonista con l’intervista che Domenico Dolcetti farà al giovane autore di Rime in prima copia, Antonio Semproni. L’incontro tra due amici diventa viaggio nei meandri dei versi, nello scrigno privato e segreto di ognuno di noi. E come per incantesimo il poeta parlando di sé chiama in causa tutti. Il lettore, da osservatore voyeuristico dell’intimità altrui, diventa soggetto posto sotto la lente di ingrandimento. E forse non è questo reciproco chiamarsi in causa, sentirsi toccati, feriti, colpiti ed emozionati da versi che sembrano improvvisamente conoscerci meglio di chiunque altro, il potere e la magia della poesia?

Che la nostra anima possa sempre restare vigile, non cadere nel torpore ma continuare ad alimentare la spavalda allegria e il fuoco della curiosità, genitrici di conoscenza e libertà.

Eleonora Bufoli per la redazione de L’Incendiario

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