Tra il 1954 e il 1957 Roland Barthes compose una serie di brevi saggi sulla contemporaneità che lo circondava nella Francia di quel periodo, raccogliendoli ed ordinandoli nel testo che oggi conosciamo come Miti d’oggi. L’edizione Einaudi contiene una ricca analisi introduttiva di Umberto Eco, che chiarisce in maniera precisa le linee indicative utili per comprendere le numerose analisi che il francese ha proposto nella raccolta. In quanto semiologo, Barthes era solito cogliere segni ovunque nella quotidianità e nelle situazioni più tipiche e banali. «Il semiologo […] è colui che quando va in giro per strada, là dove gli altri vedono fatti ed eventi, scorge, fiuta significazione», riporta Eco nella sua introduzione, e compie tutto ciò interrogando ininterrottamente questi segni, intesi come linguaggio. Lo stesso Barthes, nella Nota alla seconda edizione francese, parla di critica ideologica applicata al linguaggio della cultura di massa e di smontaggio semiologico di tale linguaggio; poi, nella Premessa, nomina il mito in quanto linguaggio composto di segni, seppur lontano da quelli letterari a cui era abituato.
Il primo testo in cui ci si imbatte si intitola Il mondo del catch. In base alla descrizione riportata, il catch è il genitore dell’attuale wrestling, sia per la finzione e lo spettacolo pseudo-violento che offre al pubblico, sia per i personaggi ricorrenti e caratteristici che lo animano.
La virtù del catch è di essere uno spettacolo eccessivo. Vi troviamo un’enfasi che doveva essere quella dei teatri antichi. Del resto il catch è uno sport all’aperto […] anche dal fondo delle più luride sale parigine il catch partecipa della natura dei grandi spettacoli solari, teatro greco e corride: in questo come in quelli una luce senza ombre elabora un’emozione senza segreti. […] Il catch non è uno sport, è uno spettacolo, e non è più ignobile assistere a una rappresentazione catchistica del Dolore che alle sofferenze di Arnolfo e Andromaca. […] Il vero catch, detto impropriamente catch dilettantistico, si pratica nelle sale di periferia, dove il pubblico si accorda spontaneamente alla natura spettacolare del combattimento, come fa il pubblico di un cinema dei sobborghi. (R. Barthes, Il mondo del catch in Miti d’oggi, Giulio Einaudi editore, Torino, 2021, p. 5)
In questo spettacolo, secondo l’analisi di Barthes, tutto è segno immediato, chiaro quanto basta per essere compreso ma non così tanto da essere troppo palese. Si stabilisce un patto, insomma, tra spettatore e lottatore, come succede tra scrittore e lettore o tra attore e pubblico: chi osserva accetta la finzione scenica, potremmo dire artistica, e gode dello spettacolo in quanto rappresentazione, chi agisce su questa sorta di palcoscenico si impegna a non deludere le aspettative che si creano attorno alla propria figura. Infatti, il catch si fonda proprio su questo assunto: ogni personaggio ha un ruolo che di solito è denotato dal suo aspetto (viene portato come esempio Thauvin, «la carnaccia», ripugnante alla vista, corrispettivo della sua bassezza morale). Il corpo è un segno vero e proprio, soprattutto immediato.
Così la funzione del lottatore non è di vincere, ma di compiere esattamente i gesti che ci si aspettano da lui. […] Ogni segno del catch è dunque dotato di una chiarezza totale, perché bisogna sempre capire tutto, immediatamente. (p. 6)
Il semiologo francese, tuttavia, non si limita a questa analisi piuttosto semplice ma, rifacendosi ancora al teatro antico, lega tali figure a immagini tipiche del repertorio arcaico: la Giustizia, che in quell’ambito si rifà all’idea di occhio per occhio, dente per dente; la «esibizione che riprende gli antichi miti della Sofferenza e dell’Umiliazione pubblica: la croce e la gogna. Il lottatore è come crocifisso alla luce del giorno, agli occhi di tutti» (pp. 10-11) e dunque la sconfitta che si esprime con la durata dell’atto conclusivo; l’eroicizzazione, non nella reale misura etica del termine, ma stravolgendolo rispetto a quel patto a cui si accennava sopra: l’etica del catch è il rispetto dei ruoli, con varianti d’azione accettate ma che non devono mai ribaltare le aspettative. In sintesi, si procede ad una «solidificazione dei segni» (p. 14), che li cristallizza e li rende eterni e immutabili, pena la ribellione di un pubblico desideroso di figure stabili e in un certo senso rassicuranti, che rendano un’immagine conosciuta di passione, non la passione vera come si vedrebbe nel pugilato o nella lotta.
Si dice che la grandezza di un autore sia dovuta al fatto di rimanere sempre attuale man mano che passano gli anni. Racchiudere quella di Barthes in un singolo testo sarebbe davvero limitante, ma non si può negare che Il mondo del catch e Miti d’oggi in generale partecipino della sua statura intellettuale. Infatti, se andiamo a rileggere le pagine della breve analisi in questione, vedremo che molto di ciò che viene scritto è parte del nostro mondo, distante più di sei decenni dal suo.
Tanto per cominciare, l’enorme successo del wrestling tra gli anni novanta e l’inizio del ventunesimo secolo testimonia una continuità nei desideri di un pubblico sempre più vasto, dunque una sempre maggior rappresentanza della popolazione rispetto al passato. Tutte quelle caratteristiche che il catch fece sue vengono ereditate in maniera diretta proprio dal wrestling.
Inoltre, mi è parso interessante andare a vedere in che modo i concetti catchistici barthesiani si siano trasmessi a certi fenomeni della cultura di massa odierna. Ovviamente le modalità, i mezzi e la diffusione sono differenti, ma governati da principi analoghi.
Il primo pensiero è andato ai sempre più diffusi e seguiti reality show, protagonisti indiscussi della tv spazzatura che attraggono in maniera irresistibile folle di spettatori, tenendoli incollati per serate intere davanti alle vicende che ne caratterizzano i partecipanti. Dalle sale di periferia parigine si passa agevolmente ai divani di casa italiani, mantenendo inalterate buona parte delle modalità di svolgimento.
Naturalmente, non trattandosi di uno spettacolo che ha la corporeità come unico mezzo espressivo, la prima differenza è di natura semiologica: se ogni personaggio ha un ruolo ben definito e lontano dall’essere autentico al cento per cento, questa esecuzione del ruolo non passa più per il canale visivo, ma è ben più complessa sebbene riguardi solo quello comportamentale. Già in principio c’è una sorta di sorpresa legata alla mancata conoscenza dei partecipanti, in poche parole, non si sa da subito chi vestirà i panni dello stratega, del nemico di tutti, del playboy o della femme fatale. La costruzione avviene in maniera graduale e lascia una certa dose di suspance almeno sulle prime battute. Poi, una volta stabiliti, anzi, solidificati i ruoli, si continuano a seguire le vicende per affezione e curiosità. A questo punto le aspettative intorno ai partecipanti sono emerse e man mano che ci si avvicina al finale, che li si ami o li si odi, ci si aspettano da loro determinate azioni, determinate frasi, determinati schemi. Così come nel catch, il patto tra pubblico e personaggi va rispettato e si ammette una libertà di movimento limitata prima di recriminare incoerenza etica, per riprendere l’idea di Barthes.
Un pubblico vasto ed eterogeneo come quello odierno non può, tuttavia, accettare strutture così lineari, dunque abbiamo a che fare con personaggi che cambiano nel corso del tempo: il marginale che man mano diventa protagonista, il cattivo della storia che si redime intessendo rapporti con gli altri tramite una maturazione personale, il personaggio preferito da tutti che va disfacendo la propria figura tramite una serie di scelte sbagliate. La sorpresa di fronte a questi cambiamenti, in particolare quelli negativi, forse è meno violenta grazie alla presenza di uno schermo a fare da filtro emotivo, ma ha un’intensità non così diversa da quella dei presenti nei sobborghi parigini. Le emozioni sono però simili e la ricerca simbolica altrettanto. Ciò che differisce in tal senso, è che queste non muovono più solo contro chi va fuori ruolo, quanto piuttosto contro chi agisce in una maniera percepita come errata. La Giustizia che si traduce in vendetta rovinosa nei confronti di chi sbaglia; l’Umiliazione e la Sofferenza pubblica che allo stesso modo vanno contro i cosiddetti cattivi; l’eroicizzazione di chi arriva fino in fondo nella maniera più pulita e positiva accomunano in parte il catch e il mondo dei reality, perché regalano un’immaginazione di passione che cattura e regala una buona dose di certezze. Il dubbio rimane riguardo al vincitore, che una volta intrapreso un percorso diventa quasi secondario rispetto a tutte le dinamiche che si sono andate sviluppando.
La presenza di una così variegata cerchia di personaggi dà vita ad amicizie e ad antipatie, come succede nella vita quotidiana. A risultare interessante è tuttavia la nascita di dicotomie, che fanno sempre parte dello spettacolo: veri/falsi, coerenti/incoerenti, graditi/non graditi che spesso si alleano per somiglianza e necessità di status. Partendo dal presupposto che tutti sono personaggi (non che tolga loro la possibilità di essere veri, non me ne vogliano i pirandelliani in cerca d’autore) che interpretano un ruolo e vestono una maschera (ancora grazie Pirandello), etichettarsi ed agire in un certo modo permette loro di semplificare la propria immagine agli occhi degli spettatori. Agendo così, i partecipanti si rendono più immediati, come nel catch, e quindi rendono più semplice un giudizio, talvolta prevaricando la scoperta di molti aspetti del loro essere. La dicotomia, inoltre, è un’arma di difesa, perché la si usa per nascondersi giocando allo scoperto. Per riassumere, esasperando i difetti altrui o gli errori, si tolgono dal centro i propri anche ammettendo qualche pecca secondaria. La tanto decantata coerenza rimane una chimera, dato che l’essere umano in quanto tale è incoerente, eppure viene sbandierata come valore primario e punto di forza di ogni concorrente. Nel catch, è parte del patto iniziale, nei reality no, ma questo non toglie che sia elevata di continuo a nota di merito. Essere veri, poi, si affianca a questa ricerca spasmodica di coerenza, perché l’una non può prescindere dall’altra: tutti sono cristallini, limpidi e privi di menzogna e non lo è nessuno, poiché tutti si accusano a vicenda. A differenza dei personaggi della pièce teatrale più celebre di Pirandello, in cui i personaggi sono veri in quanto è vero il loro dramma, qui tutti sono veri perché si autocelebrano come tali dinanzi a costruzioni che altro non fanno che rispecchiare i desideri di chi è dall’altra parte dello schermo.
Per concludere, quei segni che Barthes tanto aveva ben colto nel catch, non hanno fatto altro che adattarsi ai tempi e ai modi della nostra contemporaneità, mantenendo tuttavia i loro significati originari ed effetti simili su un pubblico sempre più desideroso di personaggi.
Questa settimana presenteremo l’ultimo capitolo della dissertazione di Lorenzo Valerio sul tema del finis vitae. La responsabilità individuale e statale sono al centro del discorso che cerca di decostruire i falsi miti della società: la demonizzazione del dolore e la felicità assoluta. Il percorso intimo di chi decide di farla finita non è argomento di giudizio dal momento che riguarda l’interiorità individuale. L’uomo deve fare i conti con la propria coscienza, non con quella degli altri.
Leonardo Borvi per la Redazione dell’Incendiario