Finalmente posso annunciare la notizia: ho definitivamente preso il posto di Antonello nell’Incendiario. L’unica pecca è che devo cominciare ad usare obbligatoriamente “cara lettrice/caro lettore”, ma me ne farò una ragione. Scherzi a parte, voglio inaugurare oggi con questo editoriale il mio nuovo ruolo da collaboratrice linguistica per il team dell’Incendiario (sì, sarò quella che correggerà virgole e punti). Come forse i seguaci più attenti ricorderanno, prima di oggi ero una delle articoliste del blog, mentre ora la mia presenza sarà diversa, più attiva, e vorrei cogliere l’occasione per ringraziare i fondatori (e amici) dell’Incendiario per l’opportunità concessami.
Vorrei far partire il mio articolo d’esordio con una riflessione che è scaturita leggendo un post di @tlon.it, account che seguo da tempo con piacere e che consiglio. Il post è dello scorso 28 agosto, si intitola “I social offrono spunti, non approfondimenti”, e parla del ruolo dei social nell’informazione quotidiana. Negli ultimi anni si sta conoscendo una forma orizzontale della cultura: tutti sul web siamo sia fruitori che produttori di contenuti, senza alcuna forma di mediazione. Chiunque può scrivere un post o un articolo sulla recente situazione geopolitica afghana, anche se non ne è competente, e nessuno glielo impedirà. Poi, questo post sarà letto da qualcuno meno competente di lui che crederà a ciò che ha scritto e lo riterrà valido, magari condividendo anche con altri quell’errato pensiero. Al contrario, prima dell’era di internet le relazioni culturali erano verticali: c’era chi, insegnando, trasmetteva le sue conoscenze a chi apprendeva, e quest’ultimo assimilava senza dare qualcosa in cambio (il metodo tradizionale di insegnamento scolastico, per intenderci).
Internet ha quindi attuato una trasformazione antropologica del sapere: ogni settore culturale è costretto a fare i conti con i social e con le loro potenzialità, ma questo meccanismo di spostamento della cultura sui social porta alla secolarizzazione della cultura stessa. Poiché tutti possiamo reperire un’informazione semplicemente digitando sul motore di ricerca, si è portati a credere di riuscire ad avere un quadro completo di ogni fenomeno solo grazie alle notizie che si leggono online. È qui che nasce lo screditamento delle figure autoriali in ogni campo della conoscenza, ed è qui che trovano le loro radici le sempre più diffuse credenze che l’esperto in una materia X sia inutile, visto che anche io, ignorante, posso trovare la risposta su internet. Questo meccanismo antropologico si trova in ogni ambito: da Trump che ha portato centinaia di persone a iniettarsi il disinfettante nelle vene per combattere il Covid-19, alla sfiducia nella scienza e nel parere medico su vari argomenti (la pandemia ci sta regalando molti spunti al riguardo), al genitore che crede di saperne più dell’insegnante di suo figlio e che va a lamentarsi della struttura dei programmi scolastici, o al cinquantenne che diffida del parere del suo medico di base perché “ho letto su dottoricchipaxxerelli.it che ho questa patologia e morirò fra due settimane”.
Il rischio della dimensione orizzontale è che si perda il senso della complessità e della pazienza cognitiva: si deve capire che l’accesso alla grande quantità di contenuti è solo l’inizio della conoscenza, ma non dà delle competenze reali. Chi ha studiato per tanti anni e possiede un titolo di studio non può avere le stesse competenze di chi ha letto un paio di articoli su internet. Sembra un ragionamento logico e ovvio, ma i recenti sviluppi sembrano far capire che non è così. Si dovrebbe fare un lavoro formativo che consenta alla cultura orizzontale di dare valore alle competenze e che sia uno strumento di democratizzazione della cultura, ovvero che venga utilizzato per accorciare la distanza tra chi offre cultura e chi domanda cultura. C’è bisogno di imparare a scegliere i contenuti che vediamo online e di analizzarli in modo critico, e credo che il nuovo ruolo della scuola possa essere proprio questo: insegniamo alle ragazze e ai ragazzi, ormai sempre più al centro del dialogo sull’uso di internet, a leggere, selezionare e districarsi tra i contenuti da cui vengono bombardati. Come suggerisce Roberto Casati nel suo Contro il colonialismo digitale, è più utile dare come compito agli studenti quello di far finta di creare una pagina Wikipedia su un determinato argomento, piuttosto che assegnare una semplice ricerca. Quest’ultima porterà solo lo studente a copiare e incollare quello che c’è scritto sulla più grande enciclopedia online. Un uso distorto della cultura che è disponibile in rete è pericoloso, e può portare a conseguenze anche gravi, come stiamo vedendo con i recenti dibattiti sui vaccini.
Vorrei quindi terminare il mio primo editoriale ufficiale invitando a fare attenzione alle notizie lette online, e a non credere mai di essere arrivati a un punto di arrivo: che i social siano piuttosto uno spunto da cui partire per approfondire ciò che ci ha destato curiosità, un po’ come il «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità» di Spiderman.
Vi presento infine l’articolo leggeremo questa settimana: non casualmente ho citato Spiderman, visto che uscirà un approfondimento del nostro appassionato di fumetti Fabio Massimo Cesaroni sul nuovo film Spiderman: no way home, che sembra rielaborare una storia uscita nel 2007.
di Gloria Fiorentini