La scorsa settimana, quella del 18-24 ottobre, è stata la Settimana mondiale della lingua italiana (#SLIM2021) e ha coinvolto una serie di iniziative, soprattutto social. Tra queste, voglio ricordare quella dell’Accademia della Crusca, che ha reso disponibile gratuitamente il formato ebook di “Dante, l’italiano”, edito dall’Accademia e curato da Giovanna Frosini e Giuseppe Polimeni.
Sicuramente la lingua italiana nel mondo viene associata subito a Dante, il poeta decisamente più conosciuto e amato all’estero. Ogni tanto però penso ai paradossi che ci si pongono di fronte: guardando alla storia della lingua italiana, è noto che la lingua si sia codificata in forma scritta grazie alle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, pubblicate nel 1525. Ebbene, Bembo non ha preso Dante come modello, anzi, lo ha scartato prediligendo nettamente Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Se Bembo fosse vivo oggi, probabilmente si stupirebbe nell’apprendere che questi due poeti, seppur molto conosciuti, non sono sempre i prediletti (sia dagli stranieri che dagli italiani, mi verrebbe da dire). Lo so, probabilmente a questo paradosso ho pensato solo io, che mi sono sempre occupata di questi temi di linguistica italiana. Vorrei quindi ragionare sulla lingua, in generale, e non solo su una. È strano che ci sia una settimana mondiale di una lingua in particolare, mentre alle altre lingue venga dedicata solo una giornata. Questo ci fa riflettere sulla percezione che i parlanti stranieri hanno della nostra lingua, e ci dovrebbe spingere ad apprezzare ancora di più il fatto di essere dei nativi.
L’imposizione della lingua dall’alto compiuta da Bembo non è l’unico caso presente nella storia: solo prendendo ad esempio l’Italia, si pensi a quante volte nel corso dei secoli un potere forte ha preso una decisione valida per tutti. È il caso della scelta di seguire il modello manzoniano nell’istruzione scolastica post repubblicana, a scapito di tutti i parlanti dialettofoni che si trovavano a dover imparare da capo un’altra lingua. È il caso dell’era fascista, in cui erano vietati tutti i forestierismi e i prestiti stranieri per una (discutibile) ragione nazionalista. Si pensi a come la lingua possa veicolare non solo la forma più alta di comunicazione fra gli uomini, ma anche ideologie, e come possa essere modellata dai poteri forti per forgiare il pensiero. Mi viene in mente il caso di 1984 di Orwell, che sfrutta proprio la facoltà cognitiva del linguaggio come forma dei nostri pensieri per sviluppare una neolingua all’interno del sistema del Partito, comandato dal Grande Fratello. In un passo, il protagonista Winston Smith pranza con un suo conoscente, il filologo Syme, specialista in neolingua. Syme racconta di come il Partito stia lavorando a un nuovo dizionario: «Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere». E ancora più avanti: «Anche la letteratura del Partito cambierà, anche gli slogan cambieranno. Si potrà mai avere uno slogan come “La libertà è schiavitù” quando il concetto stessi di libertà sarà stato abolito? […] In effetti il pensiero non esisterà più, almeno come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare». È sicuramente un’estremizzazione, ma questo passo mi fa pensare a come, se si volesse, la lingua potrebbe essere lo strumento ideale per la deformazione delle coscienze e del pensiero, come già accaduto (in misura minore) in passato. Quello che sta affermando Orwell sembra essere qualcosa di impossibile, di lontano, di assurdo. Come si possono eliminare le parole e i concetti? Può sembrare un’esagerazione, ma se si riflette bene, quale altro potrebbe essere il modo per convincere un’intera società se non quello di lavorare sul modo in cui comunica?
Vorrei quindi che dopo la settimana della nostra lingua italiana ognuno ragionasse su quanto diamo per scontata la facoltà del linguaggio, e su quanto dovremmo pensare alle parole che usiamo, o su quanto le parole che usiamo ci diano la libertà di pensare.
A proposito di lingua madre, presentiamo questa settimana il resoconto dell’esperienza della prof.ssa Natalia Marraffini al Salone del Libro di Torino (#SalTo2021). Gli occhi con cui descrive quel mondo sono entusiasti come quelli della Natalia diciottenne, quando lo ha visitato per la prima volta. Oggi invece, la donna che è diventata ci racconta com’è stare al Salone da scrittrice, e ci fornisce una splendida testimonianza delle emozioni provate per aver vinto il Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre. Noi dell’Incendiario cogliamo l’occasione per rinnovarle i nostri complimenti, e per ringraziarla di questa collaborazione.
Gloria Fiorentini per la redazione de L’Incendiario.
L’imposizione di parole d’ordine a livello globale, in una situazione di globalismo delle merci, delle persone e anche delle malattie, è l’inizio della negazione delle altre lingue e la base della neolingua. Semplificare, togliere, sostituire, perdita di senso, limitazione del pensiero. Sembra che il processo sia partito.
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È naturale che una merce che diventa di uso globale assuma il nome della lingua d’origine (banalmente, la nostra pasta). Per quanto riguarda il resto basta saper distinguere e usare le parole italiane laddove ci sia la possibilità (perché meeting e non riunione?). Tuttavia, eviterei di demonizzare i prestiti, le lingue sono belle perché variano!
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A forza di prendere in prestito pronunciamo le parole latine in inglese 😉
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