Sono in tanti dall’altra parte. Li vedo con i miei occhi: compatti, ordinati e pronti all’attacco. Mi hanno mandato in avanscoperta e qui, solo, in mezzo al campo di battaglia, immagino già che cadrò presto, come la foglia appassita che mi è appena rotolata davanti. Fa freddo senza i propri commilitoni accanto, una folla di disperati che sa per certo quale sarà la conclusione di tutta questa assurda storia che si ripete da sempre. Non volevo nemmeno venirci in questo posto, non sono fatto per la guerra.
Mandano sempre i più deboli in ricognizione per sondare il terreno e non ti danno nemmeno un compagno. Posso parlare solo con me stesso e dirmi quanta paura ho, quanto temo che questi istanti siano gli ultimi per me. I miei passi tremanti si scontrano col terreno piano e regolare. Le gambe stanno per cedere. Resto in piedi perché non posso fare altrimenti ma, se fosse per me, mi stenderei a terra implorando pietà o scapperei a nascondermi al sicuro.
Che ci sto a fare in questo posto? Io non appartengo ad un mondo del genere, ma non ho scelta. Chi ha deciso che devo trovarmi a fronteggiare questa guerra?
Dicono che noi combattenti in prima linea siamo più importanti di quanto non sembriamo. Dicono che le nostre manovre sono cruciali per pianificare gli attacchi da sferrare ai nemici e che se rimaniamo compatti possiamo essere i risolutori dei conflitti. Dicono che il nostro sacrificio può essere decisivo per la vittoria finale. Io invece dico che non siamo altro che numeri, che vittime costrette a combattere i propri simili senza nemmeno sapere perché lo facciamo. I comandi che arrivano dalle retrovie non tengono conto di chi siamo, ma di quanto possiamo essere utili, o non esserlo.
Nessuno sa cosa sto pensando mentre il tempo scorre, quanti modi in cui potrei morire mi ha suggerito la fantasia. A loro non interessa di me, i miei sentimenti non sono nulla di fronte alla prospettiva della gloria. A me questa storia del “sacrificarsi per un bene superiore” non ha mai dato l’idea di avere senso. La spacciano come vitale, come motivo d’orgoglio per noi stessi da quando esistiamo, ma mi pare una scusa come un’altra per mandarci al macello. E poi, quale sarebbe questo bene superiore? Che beneficio ne trarremo? Un ringraziamento dopo che siamo stati fatti fuori da avversari meglio armati? No, grazie.
Eppure mi trovo qua a fissare i miei nemici, perché sembra che li debba considerare tali dal momento che hanno una divisa di colore diverso dalla mia. Non capisco se quello che sento è solo il freddo di fine novembre o se ogni mia percezione è amplificata dal terrore che mi pervade la mente che non posso far valere e il corpo che non mi appartiene più. Da qualche secondo gli arti mi formicolano e mi sento sempre più debole. La schiera di soldati che ho davanti sembra infinita. Tutti sono impassibili. Vorrei tanto sapere se cercano di studiare le mie mosse o semplicemente si stanno organizzando per sferrare la loro offensiva. La divisa che indossano mi inquieta, dà un’idea di solidità, di impenetrabilità che spero sia solo un’idea.
Perché proprio io sono dovuto andare in ricognizione? Lo sapevo che non sarei dovuto capitare troppo vicino al re. Tra tanti anonimi guerrieri ha scelto il primo che gli è capitato sotto lo sguardo. Mi è stato comandato di andare avanti e non ho potuto fare altro che eseguire l’ordine. Non sta a me scegliere. Per di più, opporsi quando ormai si è sul campo di battaglia ha meno senso che trovarcisi.
O Dio! Uno si è staccato dalla schiera e si sta dirigendo verso di me! Vorrà attaccarmi? Ma che senso avrebbe, un morto per un altro che lo sarà a breve? Forse vuole solo portarmi un messaggio da parte dei suoi comandanti. Eccolo che si avvicina sempre di più, dritto per dritto verso questo punto in cui mi trovo da solo a tremare. Riesco a vedere chiaramente i suoi lineamenti. Non siamo poi diversi, è più che altro la divisa che ci distingue. Finalmente si arresta, a pochi passi da me e mi fissa proprio come faccio io, impassibile. Nella sua posa rivedo la stessa rigidità che c’è in me adesso.
Qui, uno di fronte all’altro in un attimo che potrebbe essere l’ultimo prima che le ostilità comincino – ma che dico, sono già iniziate – sembriamo condividere le stesse domande e i dubbi che si agitano nella mia mente mi pare di vederli riflessi nella sua espressione paralizzata. Ma perché ci troviamo a combattere con lo stesso sentimento di pietà reciproca? Perché non possiamo sottrarci al nostro destino che è morte e nient’altro? Non sono pronto al grande passo. Non mi interessa la gloria, voglio solo vivere ancora perché questo vento gelido diventi un giorno la brezza che attenua il caldo torrido di fine luglio e poi ancora vento gelido; perché questi soldati tornino al chiuso nelle loro case e spirino quando il cuore avrà compiuto l’ultimo sussulto stremato dalla vecchiaia; perché il rumore metallico delle armi che tolgono la vita sia solo il ricordo delle guerre passate che non vivremo più. Perché tutto questo non può accadere a noi che restiamo immobili a sperare di non dover mai ucciderci e diventare carnefici di chi si addolora come noi per un destino ineluttabile?
Mentre queste domande mi riempiono la testa, lo sguardo fisso al mio opponente, quasi non mi accorgo che un mio compagno si è sistemato appena poco distante da me, un passo indietro e uno a sinistra, mentre una voce lontana dice “pedone in E4”.
