La finestra sul cortile di Marco Ferrucci
Che c’era quella sera di diverso?
Sarà stato per il caldo forse, che sembrava avvolgere tutto, sarà stato per quel leggero vento, che come un mantello copriva e appiccicava ogni cosa, insomma non riuscivo a dormire.
Il fatto è che quando tornavo dalla fine del turno non riuscivo proprio a riposare. Ero stanco morto, anzi letteralmente a pezzi, ma non dormivo. Allora per non perdere tempo a torturarmi, a cercare qualcosa fuori di me che non veniva, spesso mi mettevo alla finestra per l’altra parte delle ore che restavano, sino al turno successivo.
E mi arrampicavo quella sera ai pensieri del pomeriggio e di altri giorni e tra quei pensieri c’era stato l’ospedale e quell’ odioso esame clinico fatto proprio la mattina stessa e da dimenticare. E invece niente avevano potuto la camomilla, lo Xanax e altri pagliativi e veleni chimici presi in successione.
Così eccomi alla finestra a ripensare all’ospedale e a quel laboratorio di analisi. Quell’anziano malfermo, maglia a maniche corte, voce bassa che a tratti somiglia ad un filo che viene da lontano. Il figlio cinquantenne vestito da ventenne -ma da ventenne di venti anni prima, quando lui ne aveva già trenta passati- maglia a maniche corte attillata, capelli a spazzola con gel sbarazzino, jeans corti con calzini grossi sulla caviglia e scarpe grandi da ginnastica di colore blu.
Immagini improbabili di nessuna importanza che andavano e venivano come il languore allo stomaco, le ventate calde dal cortile, l’odore di spazzatura dai bidoni aperti e nozioni inutili sulle vacanze dei calciatori o l’oroscopo di ferragosto che affioravano alla mente a sproposito da chissà quale lettura di terza mano.
E ancora quel laboratorio di analisi, musica estiva intorno alle sale d’aspetto, del tipo “sole baci cuore amore”, infermiere a scodinzolare tra gli ambulatori e i lividi pazienti in attesa, segretarie in bianco con larghe divise rosa confetto da cui fuoriscivano di tanto in tanto esuberanti gambe abbronzate che non riuscivano a stare ferme -eccole dentro la piramide della direzione, a fare i pagamenti, dare quel minimo di indicazioni ai pazienti lividi in muta attesa come frati umiliati- e ancora interniste ai telefoni a lamentarsi pigramente dei propri ragazzi e della noia delle giornate al mare. Immagini più gradevoli certo, ma non tali da recare nessuna particolare emozione o alcun fremito sperabile.
Probabilmente per qualcuno sono un tipo strano. Parlo poco e soprattutto sono portato ad ascoltare, in ogni caso quando lo faccio non alzo mai la voce. Non molti mi conoscono e infatti amo per lo più starmene da solo perché gli altri in genere deludono e alla mia età di delusioni ne ho già collezionate troppe per avere voglia ancora di esserne sorpreso. Anche di gusti non sono proprio facile o banale.
Il fatto è che delle donne mi piacciono le rughe, i corpi vissuti e poi non amo le forme troppe levigate, del tipo insomma, a farla breve, che a un seno smunto, sparato verso il cielo, preferisco uno che senta il tempo, il peso della gravità. Sarò pure fuorimoda insomma ma mi fa decisamente più sangue una donna che ha conosciuto profondamente gli anni e anche la maternità. Non amo i corpi acerbi e glabri, mi piacciono le rughe, i segni decisi che hanno combattuto con le delusioni, le sconfitte, le cadute.
Per questo le immagini in serie di quei culetti mattutini vestiti da infermiere non mi dicevano niente, non aggiungevano piacere alcuno e come quelle inutili e frivole canzonette estive, come le zanzare che non riuscivo a levarmi di dosso, cercavo di scacciarle con fastidio dal ricordo.
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Era morta la Signora del quinto piano. Ci era rimasto male. Secondo il suo carattere, tendente a ingigantire e a farsi sopraffare, ne era rimasto scosso duramente ma aveva tenuto il ciglio asciutto e cercato di serrare l’emozione sino all’assoluta rimozione.
Di lei non sapevo praticamente niente, ad eccezione del fatto che era sposata con figli grandi, possedeva un suv di dimensioni ragguardevoli- che raramente guidava- e che le piacevano i cani.
Non la conoscevo bene e anzi non le avevo mai parlato veramente, se si eccettuano veloci saluti di circostanza o lo scambio di un grazie e un prego sulla soglia del portone.
L’avevo vista la prima volta dalla finestra nell’atto di mettersi un cappello assai ridicolo in un mese d’inverno di molti anni fa ed ero impazzito per i suoi capelli rosso fuoco e la maestosità delle sue forme che certo a pochi, oltre ai buoni intenditori come me, potevano piacere.
Quello che so è che era la più bella di tutte e non riuscivo davvero a ricordare tutte le volte che al turno del pomeriggio, solo per farmi compagnia, goffamente avevo cercato di rammentare i tratti di quel viso e l’espressione sdegnosa e un poco altera.
Quante volte l’avevo spiata scendere col cane, anzi con i tre cani diversi che avevo conosciuto, e poi tornare maestosamente dal parcheggio, come dopo aver compiuto una recita solenne. Pensò per un attimo alla fine di quel prezioso rituale giornaliero. E quindi all’assoluto spreco di tanta bellezza, all’inutilità assoluta della morte.
Se ci faceva caso dalle finestre che affacciavano sul cortile, si sentiva venire l’afrore delle candele accese.
La ragazza della finestra accanto per un istante si affacciò sul buio, l’argento dei capelli mossi danzava come onde sulla tela d’ombra. Dopo, per una buona mezzora, non c’era stato altro che silenzio.
Poi bisbigli, risa, man mano meno forti, parole sottovoce, sussurri divertiti dalle finestre aperte.
Odore di fiori consumati, sul cortile, di fiori disfatti dal caldo.
Pensavo alla bellezza, alla signora del quinto piano, pensavo che la vita continuava, nonostante tutto.
Le finestre ora erano quasi tutte spente, taceva ogni rumore, i gabbiani avevano smesso di volare soprai tetti, le cicale si erano stancate del proprio canto.
Dal mare, calmo e lungo, venivano solo vampe di caldo, c’era uno strano silenzio a metà strada tra l’impostura e il sogno.
di Marco Ferrucci