Pier Paolo Pasolini e Anatomia del potere (Metauro, 2021): Intervista a Georgios Katsantonis

In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, Mino Belà propone la sua intervista a Georgios Katsantonis, doctor philosophie in letterature e filologie moderne, studioso e ricercatore di Pier Paolo Pasolini, che presenta all’Incendiario il suo ultimo saggio, Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo (Metauro, 2021).

Riporto la presentazione che ci fece tempo fa lo studioso della sua opera, per poi lasciarvi all’intervista e allo scambio tra Belà e Katsantonis:

Il saggio propone una lettura critica delle tragedie “Orgia, Porcile e Calderòn” di Pier Paolo Pasolini volta a riconsiderare le tragedie pasoliniane come testi indispensabili per la comprensione della situazione politica dello scrittore durante gli eventi del 1968 e della sua visione critica e apocalittica del capitalismo. Si tratta di un volume in cui la drammaturgia di Pasolini viene affrontata secondo vari aspetti, oltre quello letterario e linguistico, anche attraverso un’analisi di impronta comparatistica e contestualizzazione storico-antropologica che permette così lo sguardo suoi legami con l’attualità che stiamo attraversando. Come tale, viene riconsiderata la posizione meno canonica del teatro all’interno dell’opera ultima di Pasolini.

Partiamo dalla scelta del titolo : Anatomia del Potere . Un titolo di forte impatto, un tema a cui Pasolini è stato sempre sensibile nella sua produzione artistica : il potere che aliena la realtà e devia le esistenze di individui che nascono ingenuamente puri.

Pasolini dalla metà degli anni sessanta passa da una concezione del potere inteso come sovranità a un idea del potere come dominio disciplinare repressivo che si esercita sui corpi degli individui. Questa attenzione teorica di Pasolini verso il potere non si traduce in termini giuridici di legge e di interdizione nemmeno un potere concepito come produzione concettualizzato da Foucault. Pasolini non si limita a sottolineare come il potere possa agire sul corpo e fabbricarlo, ma denuncia anche quanto esso pretenda di riscrivere la storia e la cultura di quel corpo facendo tabula rasa del suo passato. Questo è per esempio il caso di Calderón che attraverso il sogno si passa da una totale decostruzione alla successiva reimpaginazione della persona. Non a caso Anatomia del Potere si interroga sulla storicizzazione e politicizzazione del corpo nel teatro pasoliniano rintracciando le dinamiche del potere da un punto di vista anche filosofico che va al di là del teatro. Il titolo indica l’ispirazione generale del mio libro che è racchiusa in una domanda: Cos’è Potere? Come lo si identifica? Quali sono i meccanismi del Potere? Che spazio occupa il corpo nelle reti del potere? Ma secondo un significato più ristretto con questa espressione si indica il “nuovo potere” che Pasolini sentiva nell’aria, ma che non riusciva ancora a vedere e che non ha caratteristiche monolitiche o omogenee. In questo senso il presente lavoro si ripropone di effettuare una ricostruzione e discussione critica delle molte declinazioni del potere presenti nel teatro di Pasolini: dittatura del godimento (Orgia), industrializzazione totale della vita (Porcile), pratica di istituzionalizzazione/concentrazionamento del mondo (Calderón), che sono state finora trascurate nella letteratura critica sulla drammaturgia di Pasolini. Si tratta di una nuova lettura delle sue tragedie che viene a sfatare clichés, profondamente ancorati anche in coloro che conoscono solo superficialmente le opere teatrali di Pasolini e che impediscono, a mio parere, di cogliere la vera portata politica del teatro di Pasolini. Per esempio Orgia non è solo una storia sadomasochista tra un uomo e una donna. Dire questo è un po’ poco, c’è un costante ricorso all’approccio antropologico, alla “metafora drammaturgica”. Orgia è una metafora sulla reale impossibilità di godere dell’uomo moderno, e sulla necessità del male di spingersi sempre più verso l’eccesso, in un estremo tentativo di provare piacere.

Si è spesso osservato riguardo al corpo visto da Pasolini come l’ultimo stadio di purezza dell’individuo, eppure entrambi i protagonisti di Orgia trovano la morte esercitando il loro unico atto di libertà non convenzionale. La stessa sorte tocca a Julian in Porcile. Come possiamo definire questo epilogo comune ? Un cortocircuito o una vittoria contro il potere che ci vuole a lungo in vita solo per seguire la sua dottrina?

Pasolini era innanzitutto un sismografo, lavorava più sul piano sociale, politico e, in questo senso, pedagogico. L’origine pedagogica è chiaramente filosofica. Nel “trattatello” pedagogico incompiuto presente in Lettere luterane, scrive: «L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito». In fondo, Pasolini, pone una questione cruciale: A quale tipo di educazione è sottoposto il nostro corpo?

Nell’analisi pasoliniana Potere, ragione e dominio sono, di fatto, sinonimi, e la violenza, l’assoggettamento, riguarda anche l’uomo nei confronti dell’uomo. Detto in altri termini, il dominio dell’uomo sulla natura si rovescia nel dominio dell’uomo sull’uomo, fino all’esito estremo. L’anatomia del potere si qualifica e si riproduce come un esercizio di educazione condotto con regole giocate sulla manipolazione totale e completa che il potere sta facendo delle coscienze e dei corpi. Abbiamo una relazione educativa con il potere, pratiche che strutturano spazi, scandiscono tempi, predispongono riti, manipolano corpi, scelgono linguaggi e utilizzano codici che determinano la nostra esperienza.

Pasolini tratta del corpo, o della corporeità, secondo una direttrice storico-concettuale, ponendo come asse tematico l’interrogazione sul corpo quale elemento di identità, nella sua essenziale funzione di costituzione del soggetto.

Il corpo diventa una sorta di topos o di oggetto privilegiato e la corporeità totalmente partecipe del linguaggio. L’Ospite misterioso che con la sua pura presenza corporea distrugge in Teorema le solide certezze borghesi è un personaggio che parla attraverso il solo linguaggio del corpo senza bisogno di altre parole.

Per tornare alla domanda sulla morte, la lettura della sua opera ci mostra che al concetto del sacro si lega strettamente il concetto di morte. Nell’atto di velare la morte la scrittura stessa si apre alla dimensione del sacro. Pasolini pensa alla morte come montaggio fulmineo della vita. Fin dal finale di Accattone, (in bianco e nero di Sergio Citti che sul punto di morte dichiara «Mò sto bene!») l’«estetismo funebre», come lo scrittore stesso lo definisce, è una presenza costante. La ricerca del sacro implica necessariamente una catarsi funebre. La morte può essere pensata nei termini di una performance dell’autore. L’esistenza si trova associata al male. È questo eccesso irresistibile che induce alla distruzione; non è forse quello che Bataille annuncerà a proposito dell’esistenza come malattia dell’umanità? La morte si configura nell’opera pasoliniana come la realtà da mediare per eccellenza, ciò che per definizione non può essere vissuto nella sua immediatezza e che richiede di essere velato. Velare la realtà della morte significa proiettarla su un piano simbolico nel quale vengano spersonalizzati tanto il morto, quanto il comportamento di chi resta. Mettere termine a un’esistenza non lo trovo affatto una vittoria. A un certo punto del libro scrivo che questo estetismo funebre non può ridursi a pura ostinazione individualistica ma rappresenta una riflessione sull’autorialità stessa. Io penso che la morte nell’opera di Pasolini sia l’approccio critico-trascendentale all’autorialità stessa. Un principio che domina la scrittura pasoliniana non come risultato ma come prassi. Pasolini mette in rilievo la parentela della scrittura con la morte, è la scrittura stessa ad essere legata al sacrificio. Lui stesso in un densissimo saggio in Empirismo eretico con il titolo Il cinema impopolare offre di fatto una spiazzante, e insieme illuminante, definizione del termine “autore”. Ne Il cinema impopolare Pasolini associa il concetto di autore a quello di morte, sostenendo che autore è chi rivela in qualche modo di “desiderare di morire”: è Pasolini stesso che scompare proprio perché si svuota nei suoi personaggi. L’opera invece di conferire l’immortalità ha ormai acquisito il diritto di uccidere, di essere l’assassina del suo autore. Non si tratta di incastrare il soggetto in un linguaggio ma si tratta dell’apertura di uno spazio in cui il soggetto scrivente non cessi di sparire.

Le associazioni tra Pasolini e il Marchese de Sade fanno pensare quasi ad una simbiosi tra i due. Orgia viene inoltre descritta come l’anticamera di Salò, che sarà l’opera più capace di tutte nel toccare le sensibilità dello spettatore, trattando in maniera forte il legame tra potere, corpo, sessualità e crudeltà. Si può considerare Salò come l’estremo tentativo per ciò che Pasolini vuole comunicare o si può trarre altro ancora?

L’ipotesi che cerco di mettere in luce è che le torture associate all’erotismo in Orgia sono rinconfigurate nelle forme sadiane di «dolore/ piacere», «profanazione », «animalizzazione», «morte »; ma il modo in cui queste vengono adottate dal poeta-regista è completamente diverso. Sade è sicuramente l’intertesto possibile, ma non il suo sadismo. Il confronto è funzionale nella misura in cui si tratta di comprendere qual è la specifica direzione verso la quale Pasolini è intenzionato a far procedere il discorso.

Il sadomasochismo in Orgia si libera di ogni veste o maschera filosofica: costituisce la negazione più evidente dell’Eros, la caricatura, la farsa. A differenza di quanto accade nella Philosophie dans le boudoir, in Orgia la sessualità non si consuma nel suo aspetto fisico di godimento. Il fine di Pasolini è denunciare il male che affligge il suo tempo: l’erotizzazione del fascismo, l’eros degradato e i corpi diventati oggetti d’uso.

L’intertestualità con l’opera di Sade è possibile solo se invertita. Il diritto universale di godere si è trasformato in dovere. Se il libertinismo si presenta come un atto rivoluzionario di libertà, nel sadomasochismo moderno di cui parla Pasolini la libertà perde ogni suo fondamento. L’uomo libero, illuminista e libertino di Sade si è trasformato, nella società contemporanea, in schiavo della propria perversione, soggiogato anche dagli stessi strumenti che lo sviluppo, la crescita della ricchezza e il circuito produzione-consumo gli hanno dato. Si potrebbe dire che la massima della Philosophie dans le boudoir «ho il diritto a godere del tuo corpo» diventi in Orgia «ho il diritto a usare del tuo corpo»; e c’è da chiedersi se non sia questo un punto di partenza per lo scenario apocalittico immaginato da Pasolini in Salò. Dal punto di vista tematico Salò ruota intorno al rapporto schiacciante tra Potere e singolo individuo, dicotomia su cui Pasolini comincia a riflettere già in Orgia e dopo in Porcile. Quello che mi interessa far notare è che in Pasolini ci sono due tipi di sessualità diverse: il sesso borghese falsificato che trasfigura il corpo sotto il dominio del potere e il sesso esotico, popolano che trasfigura il corpo fuori dal dominio del potere, Trilogia della vita. Si tenga presente che in questo contesto in Orgia l’uomo sevizia e tortura la moglie e alla fine si impicca travestito da donna, Julian in Porcile muore sbranato dai maiali e in Salò la gioventù viene macellata dal potere senza volto che caratterizza la società dei consumi negli anni ’70. Allo stesso modo, le figure e i personaggi che popolano la Trilogia della vita rappresentano la vitalità sopravvivente del sottoproletariato. Possiamo notare che il primo tipo di sessualità falsificata, ha come sistema geometrico fondamentale il corpo e la messa in scena del suo «oltraggio». Quindi, da questo punto di vista il discorso che Pasolini fa nel 1975 è applicabile anche a Orgia perché in Orgia il sesso ha proprio quella valenza di obbligo sociale di cui parla qualche anno dopo. Diciamo che in Orgia Pasolini aveva intravisto il nuovo codice dell’eros anche se però la maggiore lucidità su questo arriva proprio dopo il 1973-74. Ma nel caso di Saló c’è ancora di più, la società si trasforma in un campo di concentramento dominato dai padri di Salò. Cosa già anticipata nella tragedia Calderón, in cui Pasolini mette concretamente in scena la completa istituzionalizzazione del soggetto «trasformandosi da essere umano in un membro di una società-Lager». La continuità tra fascismo fascista e fascismo consumista è completa e assoluta. La nuova forma del potere secondo Pasolini, una forma totale e totalitaristica, non lascia più nessuna alternativa. Non esiste la possibilità di alternative che nascono dentro la società dominante. Non sarà possibile essere fuori dal sistema e fuggire dalla pratica del concentrazionamento se non suicidandosi, come la pianista in Salò e come il suicidio collettivo di tutta la popolazione di Numanzia in Porno-Teo-Kolossal. Il pessimismo nell’ultima fase della sua vita è così infinito che preclude ogni via di scampo. Lo sterminio non è accaduto una volta, qualche tempo fa, ad Auschwitz. Sta accadendo oggi nel mondo governato dal capitalismo, nel mondo in cui viviamo ci dice Pasolini. E basta citare la strage infinita dei morti sul lavoro dalla mancanza di prevenzione.

In Porcile Julian è il protagonista che vive in una sorta di personalissimo terzo polo, che coesiste a fatica con il primo rappresentato dal potere ed il secondo rappresentato dell’antipotere. Egli resta in disparte , non si sente né rappresentato, né capito, né accettato, e trova serenità con sé stesso solamente nella ricerca di quel piacere “diverso” che sarà poi la sua condanna a morte. Pensi che oggi la figura di Julian concettualmente possa rappresentare i giovani che non hanno qualcosa in cui credere? Sentimento sicuramente amplificato, per non dire definitivamente esploso, da tutto ciò che la pandemia ha causato sul piano psicologico e sociale.

Porcile è una spietata parabola di un’attualità spaventosa sulla società occidentale del ventesimo secolo ma permeata di una specie di macabro umorismo, con protagonista un ragazzo assente, vicino al tipo dei giovani di oggi, che decide di “non esserci più”, di non prendere parte al gioco, di non condividere, e di scomparire. Se spostiamo il discorso sul rapporto con la nostra realtà, ci accorgiamo che tanti giovani di oggi spariscono dietro ad uno schermo. Con l’avvento della pandemia sono soprattutto i giovani che soffrono di un acuto isolamento sociale. In questi mesi hanno annullato incontri, feste, viaggi e seguito lezioni da casa, collegati con un Pc.

Tornando al personaggio di Julian, accenno soltanto che qui si configura essenzialmente uno scontro generazionale che non si fa con parole, (mai Julian e suo padre vengono in contatto), proprio perché la generazione dei figli ha già perso in partenza, è già inevitabilmente vinta dal mondo capitalista. Senza mezzi termini, Pasolini afferma che nella fusione tra i due imperi economici le cui fortune affondano nella complicità con il nazismo, nasce l’Europa moderna: ”il neocapitalismo” in cui egli vedeva anche una continuità col fascismo. Come ho già accennato, nell’analisi pasoliniana Potere, ragione e dominio sono, di fatto, sinonimi, e la violenza, l’assoggettamento, riguarda anche l’uomo nei confronti dell’uomo. È qui che entra in gioco Spinoza, personaggio il cui ruolo richiede attenzione. In entrambi i suoi scritti politici, sia nel Trattato Teologico Politico, sia nel Trattato Politico, Spinoza afferma una tesi brutale: il diritto di ciascun individuo coincide con la sua potenza. Si tratta di un punto nodale, perché è la definizione stessa della tragedia. Spinoza dice che nella sua teoria dello stato, la potenza che hanno gli uomini stabilisce in natura, i loro diritti. Da questo punto di vista, il diritto naturale di ciascuno è determinato dalla sola potenza. La potenza dell’altro limita la mia potenza poi con l’altro posso cercare degli accordi e questa è già la politica. E proprio questa logica che Pasolini mette in scena con la contromossa – che è forse trattata molto velocemente da Pasolini e per questo sfugge spesso ai lettori o agli spettatori – in cui è iscritto il grande messaggio di questo testo. E in questo contesto attraverso la Fusione tra potere (Klotz) e contropotere (Herdhitze) ha vinto la figura di colui che vuole tutto per sé. Il che potrebbe significare che Julian è orfano di padre e figlio del discorso del capitalista. Rientra in queste connotazioni anche la magnifica raffigurazione del padre Klotz, paralitico, su una sedia a rotelle. È l’immagine che evoca la condizione della caduta del padre. In questo caso al Padre evaporato si sostituisce la paternità onnipotente e padrona del capitale. È impossibile non vedere i tristi rimandi all’attualità, con i padri capitalisti che nel perseguire cieco dei loro interessi non lasciano alcuna speranza, alcun futuro ai propri figli. Nemmeno la ribellione ed è davvero grave. E questa è la nuova subdola violenza del “Potere” secondo Pasolini che segna anche la fine della polis, la fine della borghesia e c’è da chiedersi se le figure di Klotz e di Herdhitz non appartengano già a una dimensione totalmente postborghese, a un capitalismo puramente mercatorio. Pasolini coglie la natura profondamente distruttiva del capitalismo che identifica unilateralmente crescita economica con conquista del benessere. E, sorprendentemente, non dobbiamo andare molto lontano. C’è un’assoluta coincidenza: Oggi la pandemia di Covid-19 ha ulteriormente messo in luce il furore autodistruttivo della nostra società capitalistica, impegnata a tutelare solo i mercati, non si ferma neppure di fronte alla prospettiva della vita abolita. Agisce come un catalizzatore, una vera e propria riscrittura di processi di interazione con la costante messa in scena del cosiddetto lockdown sempre più frequente nella nostra società a “distanza”, (per alcuni aspetti paragonabile al carcere).

Nella società di oggi, tutto va a ritmi molto veloci, il progresso è galoppante e tocca tutti gli aspetti della nostra vita. Abbiamo tutto a portata di mano, eppure la noia la fa da padrone. Nella noia si sviluppa la corsa all’omologazione, in particolare nel modo attraverso i media, spesso mezzo per rendersi ridicoli o auto-mercificarsi pur di avere attenzioni. Se penso al Calderón, e in parte ricollegandomi alla domanda precedente, è questo l’unico modo per evadere dall’ordinario e vivere nel proprio “sogno”, finendo a proporre un’immagine di sé stessi completamente alterata (trovandosi poi, nel concreto, costantemente smarriti come Rosaura ad ogni suo risveglio)?

Pasolini in un articolo pubblicato sul Corriere della sera il 9 dicembre 1973 con il titolo «Sfida ai dirigenti della televisione» (divenuto poi «Acculturazione e acculturazione» negli Scritti corsari)aveva descritto lucidamente l’avvento dell’epoca della spettacolarizzazione. Arrivò addirittura provocatoriamente a lanciare un tentativo estremo di arginare il “genocidio culturale” verso cui ci si stava indirizzando la teledittatura.

Le culture originali sono piegate all’omologazione, veicolate dai medium, la televisione, “autoritaria e repressiva”, in un adeguamento ai modelli “voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma “pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.” Riletto oggi risulta essere una delle più precise analisi della nuova era, quella della cosiddetta “neo-civilizzazione berlusconiana” che ha eroso la capacità individuale di elaborazione dei fatti politici,sociali,culturali, ingenerando nella massa dei telespettatori una sorta di ”narcosi”. In questo contesto mi preme citare Guy Debord che ha intuito con lucidità spaventosa che il mondo reale si sarebbe trasformato in immagini e che lo spettacolo sarebbe diventato la principale produzione della nostra società. Nella sua analisi insiste nell’identificazione tra capitale e spettacolo giungendo ad una intuizione assolutamente geniale: “Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale”. È noto il lessico con cui negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane Pasolini cercherà di cartografare delle tragiche trasformazioni del tessuto sociale italiano: acculturazione, mutazione antropologica, neocapitalismo, omologazione, progresso e sviluppo. Ma Pasolini in Calderón elabora anche una nuova nozione di fascismo da integrare alla critica della società degli anni ’60 e ’70 quella del ”concentrazionamento del mondo”. In Calderón mette in parallelo – filosoficamente – l’assoggettamento dei reclusi nel lager con l’opera di mercificazione degli individui della società consumistico-capitalista. La società capitalistica è concentrata su un processo di istituzionalizzazione, dove il potere tende a insegnarti il suo modo di vedere le cose, di non farti cercare una visione alternativa delle cose, ma al contrario di farti credere ciecamente a ciò che ti viene insegnato, una meccanica del potere che possiamo assimilare per certi versi alle istituzioni totali studiate da Goffman. Nei risvegli vissuti in quattro scene o quadri la protagonista Rosaura si trova davanti a una realtà che non riconosce ma che deve accettare restando passiva e inattiva. E geniale il ritorno alla normalità nella vicenda della prima Rosaura, nell’immagine di un anello, simbolo della ricca famiglia aristocratica cui la ragazza appartiene: (“Un anello d’oro / antico, perché nostra madre Doña Lupe / l’ha ereditato. […] La prima cosa che tu hai sempre fatto, ogni mattina, / è infilarti al dito questo anello. Infilalo!”). In questa immagine si concretizza l’abuso delle nostre facoltà, la non libertà d’azione, ovvero la perdita di autonomia individuale, tipica delle le istituzioni totali. Questa immagine dimostra in maniera esemplare che i mutamenti in corso nel mondo rafforzano la nostra “istituzionalizzazione” e diminuiscono il nostro potere di decidere, il nostro diritto di opporsi. Oggi da molte parti tentano di sottrarci questa facoltà, di interdire in noi questo potere. Pasolini cerca di fotografare questo scenario postfascista, un mondo dove gli uomini si trovano internati, “colonizzati” e agiscono per volere e impulso altrui come i burattini.

Per chiudere, una domanda che sorge spontanea di fronte alla tua analisi meravigliosamente maniacale delle tre opere di cui abbiamo parlato : dal tuo punto di vista cosa penserebbe Pasolini della società odierna?

È una domanda molto difficile che mi è stata fatta molte volte e a cui ho sempre risposto con un certo imbarazzo. Avrebbe avuto la conferma di quello che pensava? Non ho dubbi che Pasolini commenterebbe la realtà in ogni modo possibile includendoci anche i social network, podcast qualsiasi cosa pur di raccontare, analizzare e cercare di decifrare il presente. Non ci vuole troppa fantasia per capire che Pasolini, in qualunque contesto porterebbe avanti il suo motto: «Io vivo nelle cose e invento, come posso, il modo di nominarle».

Ringraziamo Belà e Katsantonis per questo scambio; se siete incuriositi da saggio vi lasciamo qui il link per l’acquisto:

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