L’uomo di Calcutta di Abir Mukherjee
L’uomo di Calcutta è un giallo poliziesco ambientato in India nel 1919, un’epoca di tumulti e rivolte, il periodo delle lotte per l’indipendenza che avverrà ufficialmente solo tanti anni dopo, ma che già nel primo Dopoguerra trova le sue radici indipendentiste.
È un romanzo affascinante, sia per la trama che si svolge attorno ad un caso di omicidio politico, sia per la narrazione storica degli avvenimenti, a tratti molto commovente e che fa riflettere sul male che l’essere umano è in grado di compiere. E che purtroppo continua a compiere.
Il protagonista è il Sahib Wyndham (non vi preoccupate per i termini indiani, perché in fondo al libro vi è un’interessantissima lista dei significati), un giovane capitano britannico, veterano della Grande Guerra, che porta con sé – e su di sé – le conseguenze psicologiche di quella tragica esperienza. Wyndham accetta l’incarico assegnatogli in India per sfuggire dai suoi ricordi dolorosi, che lo tormentano e che cerca di annegare con l’uso di oppiacei, ma invano. Infatti il dolore della guerra e dei lutti che essa ha comportato lo seguirà fino a Calcutta: non si sfugge dal dolore, bisogna affrontarlo e attraversarlo. Wyndham sarà in grado?
Con il capitano andiamo alla scoperta di Calcutta, della sua società, delle sue numerose contraddizioni e nelle viuzze complicate dei suoi quartieri più antichi e più poveri. Interessanti sono le tematiche che ritroviamo: dall’atteggiamento di iniziale superiorità da parte dell’uomo britannico nei confronti del popolo colonizzato, fino alla presa di coscienza del male umano.
È un romanzo coinvolgente e piacevole, alla fine del quale si è riflettuto molto, non solo per scoprire il colpevole, ma soprattutto sulla situazione storica. È uno di quei libri, di cui pensi “bello, bello, bello”. Non penso si debba aggiungere altro.
di Margot Cardullo