Il contrario di abitare

Vincenza

L’assolo di civette snellisce la lama già sottile,
si stringe lo spazio tra un filo d’erba e l’altro.
Una signora anziana sale lentamente tre gradini,
i suoi passi lasciano impronte nell’aria.
Indugia sul pianerottolo,
sotto una fioca lampadina,
dentro la cornice del portico.
E si guarda indietro un istante.
La riesco a ricordare solo piegata da una gobba
di fatiche, mai lamentate;
comprava da me le tagliatelle all’uovo,
qualche detersivo,
un po’ di formaggio;
nei giorni di festa il suo cortile si affollava di auto
e mia madre le vendeva l’arrosto girato.
Il nostro abitare il mondo è abitare delle intercapedini.
Spegne la luce e rientra in casa.

Parietaria

Marica è un temporale.
Di quelli primaverili
che lasciano in giro l’odore di parietaria.
È abbastanza per tagliarmi i respiri.
Educata e graziosa,
dovunque in questa stagione:
veste il mondo intero, camuffata
per banalità, gialla di sole e rossa di passione.
Ma è verde di incoscienza
e armonia selvaggia.
L’attraverserò senza toccare niente,
ne uscirò a mani vuote.
Potrò solo correre,
fradicio, trascinando via con me
il mio sconfinato amore,
senza raggiungere mai
un tetto o un riparo,
da quest’aria gravida di parietaria innocente.

Veduta di campagna con bar

Le macchine procedono a velocità dissonanti davanti al bar,
io riconosco le persone che le guidano.
L’aria assume le tinte gialle del neon.
È una stazione emotiva cui non riesco ad adattarmi.
Il Bianchi viene a comprare mezzo chilo di pane
e la pagnotta per Agata alle dieci in punto,
Flavio e il Cioni fanno avanti e indietro in moto
perpetuo, per Campari e birra “ghiacciata, mi raccomando”.
Vittorio finisce di pranzare prima di mezzogiorno
e viene a prendere caffè e Futura e poi chiede:
“ancora non c’è Bronzino?”, e così via.
Ronzano nel sottofondo i frigoriferi,
tintinna il perno arrugginito della ventola,
dalla cucina si incuneano timbri metallici e aroma unto.
Come affacciato a un fiume, osservo fluire
le battute riciclate di bar in bar dai clienti;
con cadenza regolare viene urlato il mio nome
– mi riacciuffa questa assurda dimensione.
La mia giornata è impressa nel solco della sedia.
Il giorno s’inabissa nella notte e riemerge identico.
Dio è qui che ha appiccicato la sua gomma da masticare.
Vorrei accadesse qualcosa, anche la più tragica,
per compiacere la mia nevrastenia e far cedere
il chiodo che sorregge questo quadro intollerabile.
Penso a Bucarest, a un fratello che ci abita:
è un’ora più vicino ai sogni.

Capitale

È notte e c’è la luna piena,
ma da questa casa non si vede.
Che casa è se non si vede la luna?
Esco e le strade sono luminose di lampioni
e insegne accese malgrado i negozi siano chiusi.
Le strade sono schiacciate dai palazzi.
Il cielo del mio quartiere è occupato dai palazzi.
Che quartiere è se non si vede la luna?
Una ragazza e un ragazzo tergiversano muti.
Poi lei dice: “tra noi finisce adesso”.
E lui risponde: “la nostra storia non è mai iniziata”.
Poi lui va via e lei lo segue.
Che amore è se non si vede la luna?

Per non nascondersi più

A Roma piove da settimane, un’acqua nera,
già fango prima di graffiare il suolo, inghiottisce Roma
e il poco mondo che sono in grado
di comprendere, ma gli altri non lo notano.
Quando provo a spiegarlo al mio amico,
quello ingenuamente mi indica il cielo
sereno e non sa quanto ti logori non sentirsi zuppi,
non avvertire le ossa gelate rabbrividire,
concentrarsi e non percepire il rumore delle gocce sull’asfalto,
mentre tutto intorno a te è solo temporale.
Oppure, individua un signore con gli occhiali da sole,
senza notare, chiaramente, l’insolita posa di sua moglie:
innaturale e scomoda sulla sedia, pur di sfiorare le sue ginocchia.
Le finestre spalancate sono per lui una prova,
ma in tutte quelle case nessuna ha il mio stesso inquilino,
che è ancora lì, son certo, riesco a udire il suo martello
ferire senza posa i nostri muri, e il mio avvenire.
Gli dico allora che non importa e che bisogna perdonarsi sempre,
tutte le cose, per non nascondersi più.

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