Forse tra quindici giorni mi si sarebbe potuta presentare un’occasione migliore; ebbene, non importa, l’essenziale è che possa mettermi a lavorare. Perdio! se restavo altri quindici giorni senza far niente, finivo al manicomio. il lavoro mi servirà di distrazione, mi aiuterà a tirarmi su, mi sembra già di essere un altro. (C. Cassola, Il taglio del bosco, Torino, Einaudi, 1963, p. 17)
Nel racconto lungo Il taglio del bosco (1950), Carlo Cassola, celebre per il romanzo La ragazza di Bube (vincitore del Premio Strega nel 1960), definito da Alberto Asor Rosa “tardo-neorealista”, racconta la vicenda di Guglielmo, un vedovo trentottenne, boscaiolo di mestiere, e del suo tentativo di superare la morte della moglie, da poco avvenuta. La necessità di andare oltre, tuttavia, è ostacolata da impedimenti inevitabili nel lungo percorso di elaborazione: disperazione, tristezza, riflessioni intorno all’amarezza di un’esistenza segnata dalla peggior perdita possibile e, infine, desiderio di morte.
Guglielmo tenta una disperata reazione alle afflizioni che il lutto gli infligge. I discorsi e i pensieri, espressi attraverso il narratore esterno, si dipanano lungo l’arco di un’intera stagione lavorativa, comprendente autunno e inverno. Nonostante la compagnia che lo circonda – i boscaioli, in totale, sono cinque – egli sembra abbandonato a se stesso e alla propria sofferenza. Nemmeno nel ricordo della felicità passata la consolazione si manifesta in maniera consistente, e, a parte un isolato momento di svago giocando a palle di neve, tutta la sua esperienza rimane circondata da un velo di oscurità interiore.
L’uomo che si annoia, che fatica, che soffre, si consola andando col pensiero ad altri momenti della sua vita: tira fuori dal passato ricordi cari, anticipa le dolci prospettive dell’avvenire. Questa consolazione era negata a Guglielmo. L’avvenire non aveva per lui attrattiva alcuna, ed evitava di pensarci; e quanto al passato… C’erano stati momenti belli nella sua vita, momenti che una volta ricordava con piacere. […] E ora avrebbe potuto consolarsi pensando che, malgrado tutto, dieci anni della sua vita era stato felice: ci sono delle persone a cui non tocca un giorno di felicità nella vita! Ma in effetti per Guglielmo quei ricordi non erano piú belli, non gli causava piú piacere richiamarli alla memoria. Era stata una felicità menzognera la sua, una felicità fondata sull’ignoranza e sull’inganno. Gli anni che sembravano i piú belli della sua vita, avevano invece preparato la sua sventura. (C. Cassola, Il taglio del bosco, pp. 75-76)
Laddove anche le tenere illusioni crollano, l’uomo si trova ad affrontare la desolazione e l’abisso. Proprio in questo inferno sulla terra, Guglielmo vorrebbe arrivare al nulla: sentire nulla, avere nulla, far passare gli anni e ritrovarsi più vicino alla morte; l’unico modo per farlo, è lavorare incessantemente, o dormire molto per non poter pensare («Quando Guglielmo sentiva il sonno venire, era contento, perché per qualche ora sarebbe stato liberato da ogni pensiero, e perché un altro giorno era passato», C. Cassola, Il taglio del bosco, p. 60).
Alla fine, concluso il taglio, il protagonista torna al paese d’origine e, mentre va a salutare la tomba della moglie Rosa, la prega affinché gli permetta di giungere alla rassegnazione, ancora nemmeno avvicinata. In questo modo, Guglielmo potrebbe andare avanti; altrimenti, gli sembra meglio morire.
La conclusione del racconto non mostra un’apertura di speranza, né tantomeno una retorica conclusione in cui il personaggio va incontro ad un riscatto. Nel finale, il vedovo è disperato, steso per terra; quando si rialza, in seguito all’incontro con un personaggio ignoto, guarda in alto, chiedendo alla moglie defunta consolazione, ma poi, il cielo si mostra privo di stelle. Niente di pacificante, nessuna natura che salva l’uomo, solo vuoto.
La vicenda esistenziale di Guglielmo, nella sua tragicità, fornisce un grande spunto di riflessione: non tutte le disperazioni sono guaribili e non tutti i dolori passano solo se lo si desidera.
Più se ne parla, e più emerge in maniera chiara il fatto che in molti, oltre a temere questi stati d’animo, a volte accompagnati da difficoltà a livello psicologico, fingono che essi non esistano e si affrettano a cercare di evitarli o sopperire ad essi con distrazioni inutili e non risolutive. Il mito del benessere assoluto e della felicità costante è stato ormai sfatato da anni di eventi burrascosi e imprevisti, mentre in precedenza, sotto l’influsso di una astuta propaganda commerciale, in molti sono stati persuasi da queste dolcezze ingannevoli. Guglielmo, reduce dalla guerra e dal lutto, cerca la distrazione nell’allontanamento dal focolare e dal lavoro duro. Il problema di fondo è uno solo: nei momenti privi di impegni, la mente torna nei luoghi in cui il dolore si concentra. Proprio nella noia e nel riposo, la disperazione coglie Guglielmo, indirizzando il suo pensiero verso riflessioni amare. Il processo mentale che avviene, tuttavia, è del tutto naturale e per niente autolesionistico: la mente non si sofferma mai per caso su un preciso argomento, ma, qualora vi fosse un evento che si trasformi in pensiero dominante, si focalizza su di esso, per elaborarlo o per far sì che l’attenzione sia indirizzato dove è necessario.
La paura del dolore è condivisibile, nessuno vuole star male, tuttavia, non lo si può evitare, né è possibile, tantomeno, arrivare a non sentire nulla, anche nei casi più estremi. Guglielmo percorre il dolore, senza sapere quando questo sarà elaborato, se mai lo sarà. Come già accennato, infatti, non tutto è guaribile: esistono traumi, sofferenze e perdite sopra le quali non si riuscirà mai a passare sopra, e tutti, chi più e chi meno, si troveranno a doversi confrontare con la sofferenza dovuta alle ferite.
Vi sono, in aggiunta, metodi del tutto inefficaci per trattare il dolore e la disperazione, primo fra tutti, il confronto. Mettere a paragone la sofferenza propria con una maggiore altrui, fornisce solo l’illusione di un ridimensionamento. Chi soffre, non deve commettere l’errore di pensare di non averne il diritto o di doversi contenere, in rapporto a chi pensa stia peggio; altrimenti, quasi nessuno di coloro che sta leggendo, compreso chi scrive, sarebbe autorizzato.
Come già sostenuto, si deve arrivare a comprendere, ed è con ogni probabilità il passo cruciale da compiere, che vi sono dolori inguaribili, i quali segnano un’esistenza intera. Cosa si può fare in questi casi? Se non sono risolvibili, come se ne esce? Credo di poter dire che non se ne esce, non si può risolvere un nodo inestricabile alla maniera di Alessandro Magno, non siamo miti. Si può, tuttavia, cercare una strada di convivenza, ma il primo passo è l’accettazione. Infatti, accettare che vi siano sofferenze irrisolvibili, permette di procedere alla comprensione e alla coesistenza con essi. Attraverso un percorso lungo e lastricato di ostacoli, ricadute e periodi di desolazione, si può andare oltre, accettando la presenza di un fantasma.
Oggi, per fortuna, esistono numerosi metodi e aiuti, se si vuole cercare di affrontare la situazione, ma, anche in questi casi, bisogna compiere il passo più difficile: ammettere di averne bisogno; senza questa convinzione, tutto risulta inutile. I tentativi di stare bene, devono tener conto della presenza di una controparte negativa. Nel racconto citato, Guglielmo elabora i propri processi mentali attraverso una profonda crisi esistenziale, che lo porta a desiderare la morte piuttosto che vivere nel dolore. In motlidefinirebbero il suo comportamento stupido, banale e, al solito, con termini impropri, degno di un depresso. Chi parla in questo modo, non ha compreso nulla della sua vicenda, né, con ogni probabilità, delle dinamiche che possono attivarsi in una mente sofferente. La disperazione che lo attanaglia è una domanda di benessere infinita, alla quale non crede di poter accedere. Disperato è soltanto chi spera, mentre, invece, la maggior parte delle persone smette di farlo a livello conscio per non rimanere delusa. Guglielmo spera che il tempo passi e che la morte giunga per portare pace nei suoi tumulti interiori, ma il ragionamento giunge quando è al massimo punto di sofferenza, nelle ore di inattività. Risulta palese che la sua ferita è troppo fresca e profonda – come si potrebbe dargli torto – per essere vicino al poter stare meglio. Il desiderio di morte nel dolore, invece, meriterebbe un capitolo a parte, per la forte incomprensione che ruota attorno ad esso e alla morte in generale.
Il non eludere la presenza della sofferenza e della disperazione permette di viverle in maniera piena, e solo in questo modo, cioè attraversandole, si può avere una vera e reale percezione dell’esistenza. Se, invece, ci si nasconde e si ignorano questi stati d’animo, essi continueranno ad esistere lo stesso e a turbare ogni individuo, ma senza riuscire a riconoscerli. Cesare Pavese, nei propri diari, sostiene che soffrire è inutile e, con ogni probabilità, ha ragione; ma dal momento che si vive, che lo si voglia o meno, si è esposti inevitabilmente al dolore. Detto ciò, o ci si confronta con esso, nel tentativo di stare meglio, oppure ci si abbandona al nulla, spegnendo ogni emozione. Per concludere, verrebbe da dire che si deve solo scegliere tra le due opzioni, ma anche questo non accade in maniera sempre consapevole, perciò si può soltanto tentare di farlo.
Di Leonardo Borvi