Giacomo Pozzi regala a noi incendiati l’Incipit del suo nuovo romanzo, Un Baobab toccò il cielo dell’Africa, pubblicato lo scorso maggio 2022 per Tempo al libro. Rinnovando i nostri ringraziamenti, presentiamo a voi lettori pertanto l’Incipit della sua opera prima:
«Non capisco…»
«Come non capisci?! E dire che ho sempre pensato con stima tu fossi un ragazzo perspicace», rise.
«Davvero, non capisco cosa c’entri lei. Poi la faccenda mi sembra un po’ articolata, e se devo essere sincero con te, ricoprirmi di molte responsabilità mi agita».
Ford prese dal cassetto un paio di forbici da sarta e gli occhiali che sistemò sulla gobba del naso aquilino. Aguzzò la vista stropicciando le palpebre dietro le grosse lenti incastonate nella montatura in nuovissimo acciaio satinato e poi, con un tono rassicurante, mi disse: «Ora ti mostro». Ford fece una breve pausa, inspirando lentamente una profonda boccata di quell’aria ferma e polverosa capace di ingolfare atletici polmoni. «Ti mostro come fare per portarlo con te».
Inconsciamente aggrottai la fronte, forse per concentrarmi meglio. Ford era uno di quegli uomini velati da un fascino saggio e antico: folta barba bianca e ampie sopracciglia brizzolate, vestito da montagna con abiti lisi, mani dure e callose e piene d’esperienza.
Solitamente il suo sguardo era limpido, e celava una sfumatura accattivante, quasi giovanile, tipica delle persone che amano la vita e sanno apprezzarne ogni attimo, e tutte le volte che qualcuno lo faceva sentire vecchio – domandandogli l’età ad esempio – Ford stava al gioco e, da buon simpaticone qual era, riduceva gli anni e i pochi capelli rimasti appiccicati dietro la nuca a una semplice e grassa risata di scherno.
Tenendo con la mancina le forbici appuntite, Ford prese con l’altra mano libera un gomitolo di spago di colore beige, tirando fino a tenderne l’estremità; avvicinò lentamente le forbici al filo che stringeva tra l’indice e il pollice destri, e ne tagliò circa venti centimetri, per poi riporre il gomitolo sul piano di lavoro.
Era il silenzio a fare da oratore in quella stanza, rotto solo dai lenti e sibilanti respiri di Ford, che si univano ai miei più veloci e ansiosi.
Gli oggetti attorno erano ben disposti, e gli spazi erano organizzati
in modo che qualsiasi persona, lì dentro, potesse trovare dove fosse riposta ogni cosa; Ford era un uomo molto ordinato, e teneva a tal punto al suo laboratorio che permetteva solamente agli acari di quell’aria polverosa di danzare attorno a lui, amici in compagnia dei quali passava le ore a inventare le sue stramberie.
Nessun orologio poi: nella stanza nessuna lancetta, nessun ticchettio,
nemmeno il tempo.
«Ora scegli un seme», mi disse Ford.
Indugiai qualche secondo; accanto a me, sul banco di lavoro, ve n’erano disposti circa una ventina. «Ah, non preoccuparti troppo… Scegli col cuore ragazzo, non con la mente. L’istinto, spesso, vince sul pensiero!», mi incoraggiò.
Dopo averli osservati tutti, riflettendo per una decina di secondi, presi in mano per prima la più grande delle sementi, molto simile al nocciolo grinzoso d’una pesca ripulita dalla sua polpa dolciastra; poi una semente poco più piccola, molto coriacea e di color nero pece; ma riposi anche quella.
Ford assentì annuendo: «Bravo, rimani in ascolto».
Il mio sguardo cadde su un seme in particolare, a forma di piccolo rene, poco più grande di un acino d’uva passa.
«Questo» affermai con sicurezza, guardando l’ombra minuscola e cortissima che il seme mi disegnava nel palmo della mano.
Glielo porsi, sorridendo appena, ma Ford non si accorse minimamente del mio compiacimento; tutto a un tratto s’era fatto molto serio, e notai che accompagnava quella cupa espressione del viso barbuto con un leggero tremito delle mani, sgambettando nervosamente con la gamba sinistra sotto al piano di lavoro.
Ford si tolse gli occhiali dal naso per pulire le spesse lenti dallo sporco, alitandoci sopra l’aria umida e calda della gola per farle appannare, e lucidandole accuratamente con precisi movimenti circolari, utilizzando un panno in cotone di color azzurro pastello che solitamente teneva mal spiegazzato nel taschino della giacca; era scocciato, sbuffava, odiava questa procedura saltuaria ma obbligata.
Lenti perfette dopo un paio di minuti, Ford si rimise gli occhiali sul naso: tenendo il buffo seme stretto tra le dita, iniziò a osservarlo meglio, da ancora più vicino, facendolo roteare davanti ai suoi occhi con lenti movimenti del polso.
«Bene, bene, bene» sussurrò, tra sé e sé.
Ford mi rivolse un’occhiata fulminante e statica. «Allora!» esclamò all’improvviso elettrizzato, facendomi sobbalzare. «È molto importante incastonare i semi senza scalfirli, altrimenti ne rovinerai l’essenza, tutto ciò che sono. Pare bizzarro, ma hanno una loro energia vitale, sai, e il proprio carattere singolare, esattamente come noi uomini… Dovresti imparare ad approcciarti loro allo stesso modo in cui ti relazioni con il prossimo». Ford si voltò nuovamente a guardare il seme. «Dovete diventare un tutt’uno: il tuo cuore, il suo centro», aggiunse infine.
«E lo spago?», gli chiesi stupidamente.
«Semplice! Lo avvolgerò con cura per farne un ciondolo, perché tu non lo perda e perché il seme non si rovini».
Ford riprese in mano il filo tagliato poco prima con le forbici, e iniziò il minuzioso lavoro, avendo cura di far aderire il pezzo di spago alla superficie di quel piccolo rene, evitando così che, muovendosi, il seme potesse scivolare via.
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