Il vocabolario online Treccani fornisce come prima definizione di palinsesto: «manoscritto antico, su papiro o, più frequentemente, su pergamena, il cui testo originario è stato cancellato mediante lavaggio e raschiatura e sostituito con altro disposto nello stesso senso (in genere nelle interlinee del primo), o in senso trasversale al primo; tale consuetudine, documentata già in età classica e diffusasi più largamente, soprattutto per la rarità della pergamena, in età medievale nei grandi centri scrittorî (per es., a Bobbio), è stata causa della perdita di opere di grande valore, anche se la lettura, almeno parziale, della scrittura sottostante dei palinsesti è stata resa possibile in passato mediante particolari reagenti chimici, e facilitata oggi dal ricorso ai raggi ultravioletti, metodo più efficace e innocuo».
In breve, dunque, il palinsesto consiste nella scrittura al di sopra di un testo preesistente, ma cancellato. Lo stesso concetto è al centro del film Palimpsest, presentato in questi giorni alla Biennale del Cinema di Venezia nella sezione Biennale College Cinema, che promuove opere prime di registi con budget limitati (si parla di un tetto massimo di 150000€). Hanna Västinsalo, dopo aver conseguito un dottorato di ricerca in genetica molecolare all’Università di Helsinki, ha riflettuto sul modo in cui due individui, totalmente diversi, ma conviventi, reagirebbero e si adatterebbero rispetto ad un ringiovanimento biologico, attraverso il quale si può regredire ad libitum.
Juhani e Tellu sono due ultraottantenni, ormai ridotti l’uno a camminare col sostegno di un bastone, l’altra sulla sedia a rotelle. Grazie alla terapia, possono tornare indietro e recuperare dapprima le forze, poi l’aspetto giovanile e infine tutte le esperienze ad esso correlate, il tutto nell’arco di pochi mesi. Nel frattempo, la moglie di Juhani muore, e si viene a conoscenza della precedente dipartita del figlio di Tellu. L’uomo, ormai tornato trentenne, assiste al funerale, ma viene disconosciuto dalla figlia, più anziana di lui, mentre la donna vive una spirale discendente che la porta ad abbandonarsi alla dissolutezza più totale, per lo più caratterizzata da sesso e alcol. Entrambe le vite, benché del passato si conosca davvero poco, sono ormai ricche di traumi e dolori che non possono essere superati.
L’occasione di riscrivere la propria vita, come accade per un palinsesto, è molto ghiotta. I due protagonisti agiscono in maniera differente. Juhani decide di iscriversi al corso universitario di astrofisica, in cui riscontra diverse difficoltà, e di arrestare la regressione, trasferendosi, inoltre, in una casa al di fuori della clinica. Tellu, dal canto suo, porta l’esperimento alle sue più estreme conseguenze: in un primo momento, viene mostrata quarantenne, poi ventenne, attraversa a ritroso l’età preadolescenziale e infine ritorna neonata; tutte le fasi adulte della sua vita sono caratterizzate da una crescente dissolutezza, fin quando l’approdo ad un’età più giovane non la blocca.
Si tratta di un film che suscita molti quesiti, dubbi e riflessioni. Se un’opera artistica regala un lascito simile, vuol dire che, al di là degli aspetti tecnici, è un buon prodotto almeno nella sostanza. Essendo una prima, la regista e il produttore erano presenti, così il pubblico, me compreso, aveva la possibilità di porre domande e confrontarsi. Ho sollevato una questione abbastanza spinosa, domandando direttamente ad entrambi se, nella loro visione, sarebbe facile per gli individui adattarsi in maniera così rapida ad un cambiamento radicale. L’adattamento è una caratteristica umana stupenda, ma sembra improbabile che in poche settimane una ultraottantenne cresciuta tra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 si trasformi in una ventenne sfrenata e senza limiti o preconcetti. C’è da dire che, insieme a tutto il corpo, anche il cervello, in un certo senso, ringiovanisce, quindi diviene più elastico e pronto a nuove esperienze e stimoli esterni, benché, fino ad una determinata fase del trattamento, i ricordi di tutta la vita rimangano. Il problema dei ricordi si pone soltanto nell’età infantile, durante la quale i processi mentali non permettono alla memoria di agire come nelle fasi successive; dunque, tutto va perduto.
Preme affrontare il tema rimasto irrisolto, e che forse rimarrà tale fin quando non esisterà davvero una simile possibilità: saremmo in grado di adattarci così facilmente? La risposta, certo, si basava su uno scenario del tutto ipotetico; la regista ha affermato che servirebbe un percorso di terapia per cercare di superare tutte le fasi dell’esperimento, e su questo è facile concordare. Sorgono spontanee due domande: sarebbe abbastanza? E poi, perché non darne nemmeno un accenno nel film? Sembra tutto fin troppo lineare, benché travagliato, e non sarebbe corretto relegare l’argomento ad un tema secondario per giustificarne l’assenza. Forse poteva risultare una forzatura, o forse era necessario parlarne.
L’impresa prometeica – una sorta di elisir di vita eterna tratto dalla leggendaria pietra filosofale – non sembra scuotere i personaggi più di tanto; in un certo senso, quel corpo lo conoscono già, e se ne devono solo riappropriare. Ma cosa dire della mente? Se è vero che, come anticipato, il cervello diventa più elastico tornando a stadi della vita più remoti, rimane tuttavia, nel film, invaso dai ricordi e dalle abitudini precedenti. Dal canto loro, i personaggi reagiscono al nuovo stato, decidendo di sfruttarlo per scrivere una storia del tutto nuova sul loro foglio di carta. Juhani cerca di andare oltre il cielo, come il Gagarin della canzone che si sente in una delle scene conclusive; Tellu torna indietro e ricomincia davvero daccapo, poiché, regredendo alla fase neonatale, riesce a cancellare tutti i ricordi e le facoltà acquisite in precedenza. A Icaro le ali non si sciolgono, anche se molti venti lo fanno vacillare nel proprio volo, ma alla fine supera il primo esame di astrofisica; Prometeo riesce a ingannare il destino mortale, sottraendosi temporaneamente alla morte, per fare tabula rasa della memoria e concedere agli uomini la gioia di una vita senza morte (almeno per un po’ di tempo).
C’è da chiedersi: lo faremmo? E in che modo affronteremmo la questione?
Non sono domande utopistiche poiché, per stessa ammissione della regista, quando ancora studiava erano già al vaglio alcuni esperimenti e studi circa questa possibilità. Certo, la terapia psicologica sarebbe di grande supporto, ma anch’essa sarebbe puramente sperimentale, data la casistica inedita e la difficoltà in cui si potrebbe incappare nel vivere un’età già conosciuta in un momento storico, sociale e tecnologico, nonché della propria esistenza, differente. Inoltre, in maniera dissimile rispetto a Benjamin Button, la regressione risulta, in questa occasione, molto rapida; chissà come sarebbe nella realtà.
Al solito, non si può essere banali e dire “sarà un bene” o “sarà un disastro”, e non si possono nemmeno formulare ipotesi certe: si può soltanto analizzare l’uomo in quanto tale, con le sue precedenti esperienze rispetto a mezzi rivoluzionari e a novità come questa. Elettricità, volo, scrittura, internet: il livello è questo. Non sarebbe solo bioetica, ma analisi ontologica, poiché si va ad intaccare una caratteristica sostanziale umana: la morte dopo una graduale corruzione iniziata nel momento della nascita. La questione si eleva ben al di sopra delle precedenti, in un certo senso. Abbiamo sempre sognato di nascere di nuovo, o di ricominciare da zero, ma, a quanto pare, non siamo così lontani dal rendere questo sogno possibile.
È necessario interrogarsi sugli scenari che la soluzione in questione prevedrebbe: due vite, che poi diventerebbero di più, donando una sorta di immortalità; il corpo e il cervello, chissà come affronterebbero uno stress simile nel tempo; ma in particolare, dal punto di vista psicologico, nel caso di una regressione non totale, come riusciremmo a tornare costantemente indietro e ad adattarci a tempi diversi, modi di vivere diversi, sviluppi diversi? Per non parlare del senso di onnipotenza che la sensazione di poter ingannare la morte indurrebbe in molti individui.
Siamo sicuri che ne trarremmo così tanti vantaggi? Siamo sicuri che violando le leggi naturali in maniera così forte non avremmo delle ripercussioni impossibili da gestire, quali un aumento incontrollabile della popolazione, problemi politici e sociali, per non parlare dei disagi che emergerebbero dalla presenza di distanze generazioni totalmente fluide? Siamo sicuri che spingersi sempre oltre, tipico della natura umana da millenni prima delle Colonne d’Ercole, sia sempre la soluzione migliore? Nessuna risposta, nessuna pretesa di avere la verità in mano, eppure queste, e molte altre, sono le domande necessarie su cui in non troppi decenni ci dovremo confrontare. Forse il produttore lì presente, nella semplicità e nel fraintendimento della domanda, a cui comunque ha tentato di rispondere, è stato capace di riassumere il modo di porsi dell’essere umano in ogni circostanza: «Alla fine» diceva «ci abitueremo a questo come a tutte le altre cose».
Leonardo Borvi per la redazione de L’Incendiario.