Le culture del corpo

Ho recentemente terminato La canzone di Achille di Madeline Miller, testo ormai ben conosciuto fin dalla sua prima apparizione in Italia nel 2013, premiato dalla critica con l’Orange Prize nel 2012 e dai lettori con un’esplosione di vendite (si sono stimate 10 mila vendite solo nel giugno 2021). La storia è ben nota a chiunque abbia frequentato la scuola, dove fin dalle medie si fa epica, una “submateria” gestita dai professori di italiano. Il romanzo ripercorre la storia di Achille e il suo fedele compagno Patroclo, incentrandosi sulla versione secondo cui i due siano in realtà amanti. Miller prende come perno del racconto il loro amore e lo usa come ragione profonda di ogni scelta di Achille legata alla Guerra di Troia.

Nonostante conoscessi benissimo il finale tragico della storia, ammetto di aver avuto una stretta al cuore alla morte di Patroclo e alla successiva reazione di Achille in preda al dolore. Ciò che penso sia il punto forte di questo romanzo (che rimane, a mio avviso, un romanzo leggero ma leggermente più profondo dei contemporanei, in cui l’introspezione dei personaggi è ormai appannaggio solo di pochi autori) è la scorrevolezza. Purtroppo, complici gli impegni e le tante ore passate sui libri per studiare, anch’io faccio fatica a leggere volentieri la sera dopo una giornata stressante, e preferisco vedere una serie tv poco impegnativa. Con questo libro mi è successo totalmente il contrario: l’ho eletto come compagno di viaggio durante un lungo percorso in treno e da lì non me ne sono più separata. Ero talmente rapita dalla lettura che riservavo la mia ora di riposo postprandiale al testo, e divoravo interi capitoli. Subito dopo ho deciso di continuare su questa scia con Il canto di Calliope di Natalie Haynes, sicuramente meno famoso ma altrettanto valido. Quest’ultimo riserva a ogni capitolo la storia di una donna, greca o troiana, e il suo ruolo nella famosissima Guerra, traendo spunto da tradizioni meno note rispetto a quelle dell’Iliade e l’Odissea.

I due testi mi hanno portato a una riflessione comune: ciò che ogni volta urtava la mia sensibilità nella lettura era la narrazione di donne ridotte in schiavitù. Forse la bravura delle scrittrici o complice la mia innata fame di libertà, non potevo sopportare l’idea delle violenze di guerra e della vendita delle ragazze dei popoli vinti come schiave al miglior combattente. Soprattutto, non riuscivo a sopportare l’idea che, nel momento in cui si toglie la libertà a un essere umano, ogni cosa diventa appannaggio del conquistatore, a partire dalla gestione del proprio tempo a quello del proprio corpo. Mai avevo riflettuto su quanto le culture del passato ritenessero queste abitudini naturali, tanto che Patroclo nota subito come Briseide conoscesse qualche parola di greco «Soltanto poche parole che suo padre aveva imparato e le aveva insegnato quando aveva saputo che l’esercito stava arrivando. Una di queste era pietà. E poi e per favore e che cosa vuoi? Un padre che insegna alla figlia a fare la schiava». Non è più così difficile entrare in empatia con Polissena, figlia di Priamo che viene sacrificata prima che i greci lascino le sponde di Troia per sempre, e che affronta con coraggio il suo destino perché è meglio morire che vivere essendo privati di tutto.

Ratto di Polissena di Pio Fedi. Loggia della Signoria, Firenze

Che cosa insegnano i padri di oggi ai propri figli? Naturalmente non si insegna più la lingua del conquistatore nell’eventualità che si faccia gli schiavi, anzi, le lingue straniere sono insegnate per aprirsi all’altro, per capirlo e per condividere. Oggi la schiavitù è abolita, ma ci sono altre cose a cui siamo talmente abituati che non ci rendiamo conto di quanto siano aberranti. E riguardo al nostro corpo, siamo davvero sicuri/e che si possa definire nostro? Siamo sicuri che possiamo avere una libera scelta, a 360 gradi, su quello che ne vogliamo fare?

La risposta forse è qui e qui.

Gloria Fiorentini per l’Incendiario

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