Rintocchi di un vecchio orologio, fogli di carta svolazzanti, ricerca spasmodica di una verità sfuggente. Il grande attore teatrale Umberto Orsini torna a dare voce e corpo ad uno dei personaggi che più hanno caratterizzato la sua carriera e – soprattutto – la nostra esperienza umana e letteraria, Ivan Karamazov. Il fratello letterato, protagonista della grande epopea dei Fratelli Karamazov, uscito dalla penna inarrivabile di Fëdor Dostoevskij; l’autore della storia del Grande Inquisitore, l’emblema del dubbio, al pari dell’Amleto shakesperiano, in bilico tra colpevolezza e innocenza, perennemente affacciato sul baratro più oscuro dell’umanità: il parricidio. Orsini torna per la terza volta – la prima è stata nello sceneggiato Rai di fine anni Sessanta – ad interpretare questo personaggio irrisolto, contorto, padre e specchio della nostra impossibilità di definirci. E lo riporta in vita sul palco di uno dei più bei tetri di Milano, il Piccolo Teatro Grassi.

75 minuti continui, che sfilano tutti di fiato, senza pausa, in cui il pubblico, dalle poltroncine rosse di velluto, assiste allo struggimento di questo personaggio, che si trova ancora dopo tanti anni in un’aula di tribunale abbandonata, che urla in un monologo cacofonico e profondissimo la sua innocenza, per poi contraddirsi e dire che sì, è stato lui ad uccidere il padre, è lui il colpevole della morte di Fëdor, il figlio che uccide il genitore, il personaggio di carta che uccide l’omonimo autore, in una spirale di vita e morte, di eros e thanatos, di forza propositiva e distruttiva, e si intreccia alla tragedia di un figlio in cerca di legittimazione, di un personaggio in cerca di autore, di un freudiano Es che ribolle e cerca di svincolarsi dai lacci del Super Io. Ivan, è lui ad aver istillato il seme dell’onnipossibilismo nella mente dell’esecutore materiale, il fratellastro Smerdjakov, il bastardo che la vita ha inchiodato al limite dell’umanità, il reietto ammalato di epilessia, malattia insondabile, misterioso sentore di follia o di divinità, basta solo spostare il punto di vista.

Per poco più di un’ora la contraddizione prende corpo sul palco, Ivan diventa l’abisso insondabile, lo gnommero che non si può sbrogliare, il dubbio amletico all’ennesima potenza. Ivan appare e scompare dietro il velo nero che apre la scena, si dimena, vuole divincolarsi dalla sua parte di parricida ma non vi riuscirà mai. Il vero protagonista della storia diventa dunque l’essere umano in quanto essere irrisolto, costruttore della scala a suo dire infinita che serve per raggiungere l’eterno, inventore e distruttore del senso, di Dio di cui Ivan ammette l’esistenza, per poi oscillare verso l’inesistenza e trasformarsi in Saturno che spalanca le fauci per fagocitare le sue stesse creature, bisognoso di un senso a cui appigliarsi ma che non riesce ad afferrare e anzi fa e disfa, come un’irrisolta Penelope. E così improvvisamente la vicenda di uno ci chiama tutti in causa, proprio nel momento in cui sentiamo l’abisso di un senso di cui non riusciamo ad appropriarci, ci ergiamo a costruttori di quella scala che conduce all’infinito, all’eterno, ma di cui non riusciamo a salire l’ultimo gradino, come nel paradosso zenoniano di Achille e la tartaruga: più cerchiamo di avvicinarci al Senso, più diventa inarrivabile.

Ivan, lo gnommero, il dilemma, l’irrisolto, reclama una fine, pretende un finale, una conclusione, una sentenza che non arriverà mai. Torna a parlarci la voce eterna di Dostoevskij, l’esploratore dell’animo umano, il minatore dei meandri e delle contraddizioni di ognuno di noi, di quella miscela imbrogliabile, come Ivan, di zone di purezza e di oscurità, di bene e male, di colpevolezza e innocenza.


Se siete a Milano vi consiglio di dedicare un’oretta a questo spettacolo, in scena al Piccolo fino a domenica 16 ottobre, non solo per la possibilità di vedere dal vivo un mostro sacro come Orsini, impeccabile nell’interpretazione di un personaggio che gli è stato e continua ad essere cucito addosso, non solo per la bellezza di questo teatro, non solo per l’immersione totale che uno spettacolo del genere vi regalerà, trasportandovi letteralmente in un’altra dimensione, ma soprattutto per vedere allo specchio l’intera vicenda dell’essere umano, per vedere plasticamente e direttamente la ricerca del senso che ognuno di noi intraprende ogni giorno e a cui diamo una varietà di risposte, perché in tempi di crisi e di privazioni come quelli che si sono purtroppo prospettati al nostro orizzonte, illusoriamente dorato, ancora una volta la risposta viene dalla grande letteratura, dall’arte, da uno dei pochi semi che possiamo continuare a piantare: basta solo curarli, dare poche gocce di attenzione, dedizione e passione, ma i frutti saranno incommensurabili, proprio come la voce con cui i grandi classici e i maestri continuano a guidarci, nel labirinto dell’essere umano come negli scenari incerti dei nostri hard times.
Di Eleonora Bufoli
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