L’altra metà delle fiabe – Il lato oscuro dei racconti che amiamo

In principio era la fiaba, popolata da principesse da salvare, orchi cattivi da sconfiggere, principi e megere, nani amichevoli e topi parlanti. Le nostre coscienze di bambini si sono formate in questa eterna contrapposizione tra bene e male, che ha poi trovato la sua massima espressione nel lavoro del buon signor Disney il quale prese le fiabe più popolari (in particolare quelle di Perrault, incluse ne I racconti di mamma oca), ne ha tratto delle versioni cinematografiche buoniste ed edulcorate. E se vi dicessi che le vere storie dietro le fiabe che conosciamo sono piene di sangue, sesso, nefandezze e sconcezze di ogni tipo?

È ciò su cui si basa uno stupendo volumetto della ABEditore, L’altra metà delle fiabe, a cura e con la traduzione di Antonella Castello. Il libriccino, una chicca tascabile con una copertina meravigliosamente illustrata, prende tre fiabe di PerraultCenerentola, La bella addormentata nel bosco e Il gatto con gli stivali – e le confronta con le loro versioni originali – La gatta Cenerentola, Sole, Luna e Talia e Cagliuso. Lo scopo di questa piccola perla è dare voce al lato più oscuro delle fiabe, eppure il più intenso, interessante e, oserei dire, educativo. Perché in origine, le fiabe ricalcavano e raccontavano una complessità tipica della vita reale, riuscendo alla fine a trasmettere importanti insegnamenti morali; oggi, sembrano invece spingere sulla contrapposizione bene/male, in un racconto della vita falsato e privo di gradazioni di colore.
Facciamo un passo indietro e partiamo dalle origini.

BASILE E LO CUNTO

C’era una volta uno scrittore napoletano, tal Giambattista Basile, che si mise di buona lena e raccolse con minuzia e amore le principali fiabe popolari della sua epoca in un volume che chiamò Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ Peccerille(Il racconto dei racconti, ovvero il passatempo per i più piccoli)[1] . Era il Seicento e, firmandosi con lo pseudonimo di Gian Alesio Abbattutis (anagramma del proprio nome), Basile diede vita a una delle opere più squisite – e dimenticate – del barocco letterario italiano, utilizzando sapientemente la lingua napoletana per creare atmosfere e suggestioni a oggi ineguagliate. Lo Cunto mescola con maestria le regole della commedia dell’arte (si pensi alla morale finale di ogni giornata, recitata da due servi-attori), la ritualità tipica del folclore del sud e le novelle medioevali per dare vita a un mondo che si muove costantemente sul filo degli opposti: l’ordinario e lo straordinario, il magico e il quotidiano, il regale e lo scurrile, il terribile e il soave. Non esiste forse rappresentazione migliore dei popoli del sud, così come della vita stessa.

Il Pentamerone, altro nome con cui Lo cunto è conosciuto, conteneva un racconto-cornice all’interno del quale furono incastonati altri quarantanove racconti, narrati nell’arco di cinque giornate da dieci donne anziane, alla maniera boccaccesca. Fu proprio la somiglianza con l’impianto narrativo del Decamerone a spingere Benedetto Croce, grande estimatore dell’opera e traduttore dal napoletano secentesco all’italiano, ad attribuire a Basile l’appellativo di “Boccaccio napoletano”.

Il testo fu pubblicato postumo tra il 1634 e il 1636, grazie alla volontà di Adriana Basile, sorella dell’autore e celebre cantante dell’epoca. Negli anni, il ricordo di Basile si sbiadì sempre più, almeno in patria, e si dovrà attendere il 1976 per vedere la sua opera tornare in vita: fu allora che il regista teatrale, compositore e musicologo napoletano Roberto De Simone ripescò La gatta cenerentola, una delle fiabe della raccolta, e ne trasse una celebre opera teatrale in tre atti, portata in scena con La nuova compagnia di canto popolare.

Diverso fu il destino fuori dall’Italia: il lavoro del Basile trovò ampia diffusione e apprezzamento in tutta Europa, al punto da essere tradotto in tedesco (da Felix Liebrecht nel 1846) e in inglese (da John Taylor nel 1848). Le fiabe furono inoltre riprese, rielaborate, ma soprattutto imitate da autori come Jacob (Hanau, Germania 1785- 1863) e Wilhelm Grimm (1786 – 1859) e Charles Perrault (Paris 1628 – 1703), che ne addolcì i toni per renderle, a suo avviso, più adatte a un pubblico di bambini. Da lì, di mano in mano, di bocca in bocca, le fiabe percorsero l’Occidente in lungo e in largo, furono rimaneggiate e ri-raccontate più e più volte – si pensi alle raccolte di Luigi Capuana (1882) e Italo Calvino (1956), in cui, seppur con titoli diversi, s’incontrano le stesse tematiche – e finirono tra le braccia di colui che le avrebbe distrutte: un certo signore di nome Walt Disney.

COME LA DISENY DISTRUSSE LE FIABE

Premetto che anch’io, come parte di chi leggerà, sono cresciuta con i film animati Disney, sognando di essere una principessa – non che ci fossero molte alternative, nei film della vecchia scuola. Al tempo stesso, però, avevo un’adorabile bisnonna che, sebbene fosse analfabeta, mi raccontava le fiabe che a sua volta erano state raccontate a lei, tramandate oralmente da generazioni di donne – pare che il racconto della fiaba sia sempre stata una prerogativa più femminile che maschile, quasi una sorta di magia segreta. Le fiabe della mia bisnonna erano truculente, violente e bellissime, raccontate in un modo che non causava né spavento né disgusto, neppure a me che sono di stomaco debole. Tutto aveva un suo posto, un senso nella dinamica della storia, anche la violenza più efferata.

Le fiabe e i racconti folcloristici, infatti, hanno uno scopo evoluzionistico ben preciso: aiutano a formare il senso sociale nei bambini, mostrando loro la varietà di vizi e virtù di cui il mondo è composto e accompagnandoli nel percorso verso l’età adulta. Si tratta di un vero e proprio rito di passaggio, che perde il suo senso se viene svuotato del nucleo più profondo. Del resto, se ci fate caso, spesso i personaggi delle fiabe sono proprio bambini o adolescenti, raccontati nella loro crescita; le fiabe, in questo senso, rappresentano delle “istruzioni per l’uso”, una sorta di guida al rito di passaggio che dovrebbe aiutare l’ingresso tra gli adulti, fornendo una bussola sociale e morale.

FIABE A CONFRONTO

Come anticipato, il lavoro di ABEditore prende tre fiabe molto note – Cenerentola, La bella addormentata nel bosco e Il gatto con gli stivali – e vi contrappone la versione di BasileLa gatta Cenerentola, Sole, Luna e Talia e Cagliuso – con l’intento di mostrare tutta l’oscurità nascosta nel lato delle fiabe che abbiamo scelto di non vedere più. Come si svegliò davvero la Bella Addormentata? Che fine fece il gatto con gli stivali? E Cenerentola è davvero la dolce e amabile creatura che tutti conosciamo?

Cenerentola assassina

La versione che ricordiamo tutti – ormai irrimediabilmente “inquinata” dal cartone – include una scarpetta di cristallo, una fata madrina, dei topolini amichevoli. Il ruolo del cattivo è affidato alla matrigna e alle sorellastre, che nel lieto fine vengono punite con l’allontanamento dal regno, mentre Cenerentola convola a nozze con suo adorato principe.

Nella versione di Basile, Zezolla (la gatta Cenerentola), è figlia di un principe vedovo, risposatosi con una donna malvagia. Istigata dall’istitutrice, che vorrebbe prenderne il posto, Zezolla uccide la matrigna: fingendo di volerle mostrare un abito in una cassapanca, ne lascerà andare il coperchio, spezzandole l’osso del collo. L’istitutrice, divenuta la nuova matrigna, si rivolterà presto contro Zezolla, a cui sostituirà le sei figlie che ha tenuto nascoste, costringendola a fare da serva e rivelando quanta cattiveria ci fosse nel suo animo. Arriverà al punto da metterle contro il suo stesso padre, che ha potuto sposare solo grazie alle insistenze di Zezolla. Omicidio e ingratitudine, due temi assenti dalle versioni che conosciamo da sempre.

La bella addormentata violentata nel bosco

Quando nasce, la principessina Aurora riceve doni da tutte le fate del regno, tranne una. Una vecchia fata, non invitata al banchetto del battesimo, per dispetto la maledice: quando compirà sedici anni, si pungerà con un fuso e cadrà morta. Per fortuna, una delle altre fate riuscirà a mutare la maledizione e a fare in modo che Aurora non muoia, ma cada in un sonno profondo insieme all’intera corte. Trascorsi cento anni, un principe che si trova a passare di là trova Aurora addormentata e, colpito dalla sua bellezza, le da un bacio che la risveglia. E vissero felici e contenti.

Se non fosse che la storia originale racconta uno stupro, senza mezzi termini. La bella Talia, caduta addormentata a causa di una spina di lino, viene infatti ritrovata non da un principe ma addirittura da un re il quale, invaghitosi di lei al punto da sragionare, approfitta di lei e poi se ne torna a casa da sua moglie, senza pensieri. Caso vuole che dopo nove mesi, da quella violenza nascano due bambini, Sole e Luna; impegnati a cercare di succhiare latte dalla mamma, e sbagliando mira, succhieranno via la spina dal dito, facendola risvegliare. Se credete che la storia sia assurda, sappiate che non finisce qui: non solo il re tornerà a trovare Talia e faranno amicizia (chi non farebbe amicizia col proprio aguzzino?), ma la condurrà a palazzo insieme ai bambini. Qui saranno osteggiati dalla legittima consorte del sovrano, che darà ordine di uccidere i bambini, cucinarli e servirli al re, per poi gettare Talia nel fuoco. Per fortuna si salveranno tutti, meno la regina cattiva che brucerà tra le fiamme con cui voleva uccidere la rivale.

La gatta con gli stivali e il padrone ingrato

Il figlio più piccolo di un povero mugnaio riceve in eredità un gatto, che si rivela essere un ottimo aiutante. Grazie alla sua astuzia, infatti, riuscirà a far ottenere al suo padrone non solo grandi ricchezze, ma anche la mano della principessa.

Quello che però successe dopo, nessuno lo conosce. La gatta della versione di Basile, infatti, deve fare i conti con l’ingratitudine del suo padrone che, dopo aver speso grandi parole e grandi promesse, quando la crede morta da ordine di gettarla dalla finestra. Ed è lì che la gatta salta sulle quattro zampe e comincia a ingiuriarlo in tutti i modi possibili, abbandonandolo per sempre. La morale: guardarsi sempre dal ricco impoverito e dal pezzente arricchito.

BONUS – Hansel e Gretel tra pesci e pirati

L’altra metà delle fiabe si ferma qui, ma c’è un’altra fiaba di Basile, Nennillo e Nennella, che merita attenzione per la grande influenza che ha avuto: ha infatti dato vita sia a Pollicino che ad Hansel e Gretel dei fratelli Grimm. Il punto in comune è chiaro: c’è un uomo che non può sfamare i propri figli (sette, nel caso di Pollicino, due in Hansel e Gretel) e, su suggerimento ora della madre dei ragazzi, ora della matrigna perfida, decide di abbandonarli nel bosco. I bambini, avendo udito il piano dei genitori, si riempiono le tasche di briciole con cui segnare il percorso per tornare a casa; purtroppo, gli uccellini le mangiano e i bambini si perdono nel bosco. Per fortuna, in entrambe i casi non si perderanno d’animo e, dopo aver sconfitto il cattivo (in un caso,  un orco, nell’altro una strega), riusciranno a fare ritorno a casa pieni d’oro e a garantire a tutti una vita agiata.

In Nennillo e Nennella la storia è la stessa, ma ancora una volta c’è un grado di violenza maggiore. Innanzitutto, i bambini sono piccoli davvero, al punto che, leggiamo, non sono neppure in grado di dire chi siano i loro genitori. Il povero padre li abbandona contro la propria volontà, per accontentare la meschina moglie, che si lascia andare a ingiurie costanti (e anche piuttosto scurrili) nei confronti dei bambini. Sarà lui a lasciare le tracce per farli tornare a casa: ma se la prima volta l’espediente funzionerà, la seconda non sarà lo stesso, per colpa di un asino che mangerà il fieno lasciato a indicare la via. Separati nel bosco dalla muta di caccia del re, Nennillo sarà accolto a corte, dove imparerà un mestiere e si farà benvolere da tutti, e Nennella sarà adottata da un pirata. Dopo essere scampata a un naufragio ed essere finita nella pancia di un pesce, i due fratelli si ricongiungeranno e si riuniranno al loro padre. E la matrigna? Sarà vittima delle sue stesse parole: quando infatti le sarà chiesto quale punizione si adatti a una persona che avesse compiuto nefandezze come le sue, dirà con arroganza «Secondo me, la metterei in una botte chiusa e la farei rotolare giù per la montagna». Quella sarà la sua fine.

JANARE, JASTEMME E FOLCLORE LOCALE

Per apprezzare a fondo l’opera di Basile, inutile negarlo, aiuta avere un po’ di competenza sulla lingua e sulla cultura napoletana. Certo, la traduzione di Croce è ottima, ma non può renderle giustizia fino in fondo, non tanto per limiti stilistici, quanto per quelli culturali. Lo cunto de li cunti è tanto vicina alla realtà dell’animo umano quanto lo è la sua lingua, che stratifica, distingue, aggiunge a pennellate dei dettagli minuscoli, ma che bastano a dare spessore a dei personaggi altrimenti vuoti di significato. Basti pensare alle fate e streghe a cui siamo stati abituati, accomunate da un linguaggio standardizzato che ne appiattisce le sfumature e ne annulla le differenze: quanto può essere credibile che una megera non istruita si esprima come un colto regnante? Inoltre, il cunto associa la malvagità a una bruttezza d’animo e di volto, descritte con estrema abilità sin nei minimi dettagli: ogni verruca, ogni bozzo disgustoso, ogni espressione arcigna, ma anche ogni bestemmia e ingiuria pubblicamente gridata, contribuisce a dare realtà a personaggi altrimenti bidimensionali.

Il racconto-cornice detta perfettamente il tono della raccolta: si percepisce già nello scambio di insulti tra la vecchia e il ragazzo, e continua con la povera Zoza che, dapprima ‘ngiuriata e iastemmata (ingiuriata e maledetta) dalla medesima vecchiaccia, viene poi ingannata da una schiava malefica, che le ruba l’amore. E nel comportamento della schiava abbiamo un’altra perla di malvagità, degna di Lady MacBeth: per ottenere dal principe suo marito tutto ciò che desidera, lo minaccia costantemente di prendersi a pugni la pancia, uccidendo il bambino che aspetta. C’è, in queste pagine, una violenza inaudita, sanguigna, ancestrale, che non risparmia nessuno: madri verso i propri figli, fratelli contro altri fratelli, figli contro i propri padri. E che contribuisce anche a smontare il falso mito di un tempo passato in cui le persone erano più buone e più gentili: queste storie dimostrano chiaramente che l’animo umano è lo stesso da sempre, capace di luci e ombre di eguale portata.

È questo l’altro lato delle fiabe, nulla più che l’altro lato, oscuro e sudicio, degli esseri umani. Ed è proprio quello che serve a comprendere il mondo, da adulti e da ragazzini.


[1] Mi riferisco alla traduzione di Benedetto Croce, edita da Garzanti.

Articolo a cura di Lorella Bernardo

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