Novembre ha tramonti folli, colori che sembrano impazziti all’orizzonte quando meno te lo aspetti quasi a chiedere di fermarti. Eppure i miei pensieri in questi giorni sono stanchi.
La notte dormo male.
Il sonno si interrompe spesso e mi sveglio prima del giorno, quando fuori è buio e tutto è silenzio, soprendendomi perfino di esser vivo. Come temendo qualcuno che arrivi o qualcosa che accada, tendo l’orecchio al buio corridoio verso la porta di ingresso e l’udito si fa finissimo sino a cogliere un’improbabile goccia che cade chissà dove, una serranda che si chiude o lo sgradevole e imprevisto scricchiolio di un mobile. E’ allora che il cuore prende a battere veloce, senza più possibilità di controllarlo portando dietro il carico di pensieri angosciosi che come mille nodi mi stringono la gola.
Mi alzo quindi e mi fermo spesso a guardare la gabbia col merlo. Non so chi e per cosa me lo abbia portato, ma da quando sta con noi è diventato uno dei miei passatempi preferiti. Ne studio i colori, le mosse, mi piace spiarlo quando non se ne avvede e lui ormai mi ricambia con i suoi canti o con qualche salto da matto sulla gabbia finchè stanco non chiudo nuovamente la luce.
Vivo o mi sembra di vivere, ci penso a volte e concludo che vivo, nonostante tutto e malgrado me stesso. Se guardo a mia moglie, che ha dieci anni meno di me e che è stata prima la mia amante e poi la mia compagna, cosa vedo oggi? Una donna assai più giovane, almeno all’apparenza, ancora piacevole e piacente, con cui quasi per caso condivido uno spazio. Perché è così, o faccio quello che vuole o scompaio, non esisto. Il compagno/marito/uomo amato non sa più nemmeno lei se esista o no.
Siamo nella fase in cui facilmente scompare il più banale contatto fisico e anche le manifestazioni d’affetto sono colte con perplessità, quasi con sospetto, anzi lo stare insieme è visto come una cosa inopportuna, fuori luogo, che prende tempo, che non esprime nulla ma mangia inutilmente energie
Ci sono gli impegni familiari certo, qualche sporadica visita di amici -a lei più che a me del resto- poi basta.
Da molto tempo stiamo insieme così e lei è assente, di fatto non c’è e non so più dove sia veramente.
Parlarne apertamente la mette di fronte a una evidenza che lei non discute neanche, non contesta la forma e non contesta il merito. Io parlo, parlo, ma il risultato è un totale mutismo e se il discorso si fa più lungo e complesso allora il malumore prende del tutto il sopravvento e sceglie il gelo e il silenzio come chiusura definitiva e accusa implacabile che rimane sospesa.
Così mi sento come in uno stato di profonda insoddisfazione generale, i famosi occhiali che fanno vedere tutto nero, anche quello che forse del tutto nero non è.
Oggi non sono evidentemente più capace di molte cose, di correre, di leggere senza occhiali, di udire il fischio di un ragazzo nel cortile. Ma è non riuscire a essere uomo che veramente mi distrugge sino ad uccidere. E che uomo sono ora per lei? A cosa serve questo relitto di ossa e impotenze? Come può desiderare ancora, malgrado tutto, la mia presenza accanto? ” Guarda che non sei obbligato, non importa ” mi ha detto l’altra volta e lo ha fatto dopo che che io avevo voluto, io insistito… e c’era compassione e anche una certa nuova metallica durezza nella sua voce. ll mio senso di inadeguatezza e frustrazione da allora e’ diventato prioritario su tutto.
E il giorno successivo, quel giorno che ero inciampato malamente in camera e cadendo avevo strappato i fili dal muro di tv, lampada e via dicendo, proprio quel giorno mi disse insomma che era più comodo per me dormire nella stanza in basso, più piccola e pratica, dove il letto si trova facilmente subito appena entrato.
Me lo disse lei con voce ferma, appena appena balbettante forse, ma ferma, la bellissima voce alta e un poco nasale di sempre. Poi sono rimasto là.
Nei giorni scorsi, stanco di restare in casa, sono andato a trovare Ugo. Un vecchio amico, in anni ormai lontani impegnato regista documentarista, che da mesi sentivo solo per telefono e che mi ero dimenticato fosse tanto vecchio.
Un’aria caldissima in casa, tetra e opprimente, pervadeva le grandi sale colme di mobili antichi, chincaglierie e cimeli. Mi aprì come sempre garbatissimo, pulito e profumato, gli anelli che gli andavano larghi nelle dita ormai scheletriche, la bocca storta con a volte un rivolo di saliva -era molto veloce e pudico nel toglierla- elegante con le classiche “giacche da camera” molto magro, estremamente magro e credo che lo ricordassi molto più alto, ma l’età forse o la malattia gli avevano tolto almeno cinque o sei centimetri.
Siamo stati a conversare per un pò e l’ho trovato diverso e perfino più piacevole e simpatico di un tempo, senza quell’ansia di dimostrare o quella specie di continuo rancore che usciva dai suoi sforzati sorrisi. Devo ammettere che parlare in libertà con un coetaneo che sembrava un arzillo vecchietto e passare in rassegna il numero di amici scomparsi contribuiva a distendere i miei nervi e farmi stare meglio. Ma dopo, quasi subito e senza motivo, mi ha messo al corrente di avere una specie di tresca con una donna delle pulizie a suo dire bellissima che ogni tanto lo smanacciava per una decina di euro e qualche occasionale ricarica telefonica. Poi si è assentato, pensavo per andare in bagno… “Linda ha finito il lavoro, ha detto a voce alta”… credo che lo avesse smanacciato anche quel giorno, lui era molto spossato quando tornò a sedersi, lei quindi mi salutò calorosamente e in modo ambiguo. In realtà l’ho vista e non mi è parsa gran cosa, mi ha fatto invece molto pena lui e anche lei e tutta quella conversazione e dopo poco me ne sono andato non dicendo niente. La sua nuova ossessione per il sesso mi è parsa ripugnante, ma non so se me ne sono andato per questo o per il fatto che mi sono ricordato della mia ossessione e della mia impotenza. Non ho voluto passaggi, lui insisteva occhieggiando per farmi portare a casa in auto da questa Linda. No grazie, ho risposto con fermezza quasi correndo per le scale. Tornando in taxi, mi sono accorto che il tassista faceva il furbo avventurandosi in percorsi improbabili per gonfiare la tariffa ma tanta era la sensazione di nausea che ho lasciato fare. Poi il taxi ha attraversato quella via, è stato un attimo. E allora mi è tornata a mente un’altra serata di novembre di almeno quarant’anni prima.
Allora in quella casa per un lavoretto da elettricista con cui ero solito mantermi gli studi, una vecchia signora gentilissima mi ringraziò e mi allungò due pezzi da 50mila lire.
Mi girò la testa rifiutai e insistette “mi creda, è bene che lei le accetti, è stato onesto con me ed è molto giovane, le serviranno”.
Ai miei cari genitori raccontai tutto parola per parola, dettagli su dettagli… mio padre ovviamente custodì i soldi dicendo che doveva valutare se farmeli restituire, poi la cosa si “sciolse” serenamente, con quei soldi comprai una magnifica chitarra che ho ancora e con una piccola differenza portai la mia ragazza di allora, Simona, a mangiare in un ristorante vero. La prima volta che ci andavo da solo con una ragazza.
Pagai io ovviamente, fu una serata magnifica.
Il fine settimana stesso Simona rimase sola a casa per due giorni e facendo carte false riuscii a raggiungerla, ma non a salire perchè i dirimpettai erano attentissimi a ogni movimento, e lei si fece trovare in garage, ricordo perfettamente i nostri baci sbagliati e maldestri, le sue unghie che mi graffiavano mentre la stringevo, ricordo il neon e l’odore dell’acquaragia sulle mensole, tutto.
Ricordo che mi sorpresi a correre per strada e a saltare come un bambino. Ricordo che anche allora avevo l’abitudine di guardare le nuvole e non sapendo che fare prima di pranzo decisi come mi succedeva da ragazzo di seguirle correndo per un pezzo. Steso sull’erba allora mi divertivo a perdermi tra gli incendi di nubi e le loro corse folli nel cielo.
Rientrando a casa, non mi sopresi di notare che mi stava aspettando. Se ne uscì fuori con qualche frase risentita, non dovevo uscire diceva, che razza di stranezza uscire con il buio e poi era pericolosissimo per la mia salute prender freddo. In realtà era solo contrariata e stizzita perchè non le avevo detto niente ed ero uscito senza consultarla. Poi disse che quella gabbia era indecente e che bisognava sbarazzarsi del merlo perchè non serviva a niente e sporcava troppo. Mi guardò un altro pò di tempo in silenzio quindi finse di non sentire quello che dicevo e si ritirò nelle sue stanze.
La gabbia era là, come sempre, nessuno dava da bere o da mangiare al merlo se non lo facevo io. Qualche penna isolata volava fuori dalla gabbia. Sembrava qiuasi che avesse capito che si parlava di lui e pareva che i suoi salti per la gabbia addirittura si moltiplicassero. Presi la gabbia e lo portai con me con non poco sforzo verso la mia stanza.
Le nuvole a novembre sono veloci come il vento che spesso le perde moltiplicandole o le fa sorgere come dal nulla in un pomeriggio sereno ed è impossibile oggi per me tenerne il passo. Tra il buio della stanza e le luci dei lampioni mi limito a seguirne il corso alla finestra. Il merlo al buio non salta più e si ferma come su una gamba sola, in posizione del tutto innaturale. E’ allora che il mio passato mi sembra un tempo così lontano che spesso mi trovo a pensare che non sia veramente stato.
Di Marco Ferrucci
Hai un racconto, una poesia, una recensione o un articolo di critica nel cassetto? Scrivici tramite email: redazione.incendiario@gmail.com