“Buona serata dottore e grazie ancora.”
“Grazie a lei, signora. Mi raccomando, porti ancora un po’ di pazienza e vedrà che tutto si sistemerà. Salve ancora.”
Congedata la signora Magatti, disperatamente alle prese con un vicino molesto ed aggressivo, Dario spalancò la finestra per far cambiare l’aria, sanificò la scrivania, sanificò la sedia, sanificò le mani, mise ordine tra gli incartamenti che campeggiavano sulla sua scrivania e si pose in ascolto.
Quand’ebbe udito Patrizia augurare buona serata alla Magatti e questa ebbe ricambiato (“Buona serata signorina, forse è una signora, ma l’è inscì giovane le’ che la chiamo lo stesso signorina”), serrò accuratamente gli scuri, chiuse la finestra, si vestì e prese la via del corridoio.
“Buonasera Patrizia, hai finito?” domandò, arrestandosi presso il bancone della segreteria.
“Ciao Dario. Quasi, devo solo pulire qua” rispose la donna, uscendo da dietro il bancone ed indicando le sedie della sala d’attesa.
“Fa’ con calma, ti aspetto.”
“Ma figurati! Troppo gentile! Vai pure a casa che sarai qua da stamattina. Io almeno ho iniziato alle tre, taci…anche Mariella e Luca sono già andati.”
“Cosa vuoi che siano dieci minuti in più? E poi non mi va di sapere che esci da sola a quest’ora con quello che si sente in giro.”
“Guarda che mi sottovaluti: nella borsa ho una bomboletta di spray al peperoncino e pure un bel sacchetto di biglie. Suggerimento di mio fratello poliziotto…anche se non so quanto sia legale.”
“Un’attrezzatura interessante! Dipende dalla circostanza…ma per stasera ho finito di fare consulenze legali!”
“Comunque grazie che mi aspetti, sei davvero troppo gentile. La verità è che se si chiudesse ad un orario decente come tutti gli altri studi…no, Bianchi A&F è aperto fino alle otto, che poi sono le otto e mezza, tutte le cavolo di sere dal lunedì al venerdì più il sabato mattina! Quelli, per un mezzo cliente storpio in più…taci dai, non farmi parlare!”, esclamò Patrizia inserendo l’allarme e chiudendosi la porta alle spalle.
“In effetti è una follia, sia in termini di credibilità che in termini economici. Ho visto i dati e non è che lo studio guadagni di più da quando si tiene aperto fino alle 8. Anche perché, se consideri che i due Bianchi alle 6 staccano e che ad ogni modo seguono giusto le cause che vogliono loro, a lavorare siamo sempre io, Luca e Mariella, che è prossima alla pensione e, diciamolo, è piuttosto inefficiente da qualche tempo. Ma foss’anche efficientissima, quante cause potremmo seguire essendo sempre in tre? Con cinque ore in più settimana, tra burocrazia e appuntamenti inutili, sai che roba.”
“Beh certo…”
“Il tutto per non assumere un altro avvocato. I clienti ci sarebbero, senza dubbio. Le cause civili non mancano mai e, nonostante tutto, il nostro studio ha una certa nomea in Varese. Ma i grandi capi preferiscono dare 400 euro in più a noi altri piuttosto che assumere. Sia mai che vadano in bancarotta.”
“Taci, va. Non so se lo sai, ma il Bianchi FIlippo ha appena comprato un’altra casa in montagna, a Saint Moritz. Quella di Livigno non gli bastava evidentemente.”
La serata era fredda. Un vento teso e aspro che giungeva dalle Prealpi spazzava le strade della città.
“Che brutta aria!”
“Davvero! Taci, quando è così il mio cane abbaia a non finire” spiegò Patrizia. Erano giunti al parcheggio dello studio, sul retro del palazzo.
“Immagino che sarai munita di tappi!” scherzò Dario.
“No, ci pensa il mio compagno a farlo tacere. É una delle poche cose che sa fare. Ma lasciamo stare. Ciao Dario, buona serata” concluse la donna, allungandosi sulle punte dei piedi e posando un leggero bacio sulla guancia del collega.
Dario qualche giorno prima aveva origliato uno scambio di confidenze tra Patrizia ed Elena, l’altra segretaria dello studio, ed aveva intuito che tra Patrizia ed il suo compagno tirava vento di tregenda. A quanto aveva capito, lei l’aveva allontanato di casa durante il periodo natalizio per poi riaccoglierlo (“ultima occasione, giuro”) a metà gennaio, ma all’alba del mese di febbraio stava già pensando di rimetterlo alla porta.
Come scrisse qualcuno, a volte non giunge a novembre quel che ad ottobre si fila. Quando inizia il tira e molla la corda si logora e infine si spezza, aveva pensato Dario, origliante. Chissà, potrei farmi avanti prima a poi, trovassi l’occasione.
Forse quell’occasione era arrivata.
Anche senza forse.
Quel bacio, innocente ed inaspettato, era un segnale, e nemmeno troppo celato. Allorché il dispaccio fu giunto al cervello, questo elaborò un pensiero tanto intenso quanto fugace: invitarla a cena, lì su due piedi, quella sera stessa. Avrebbe accettato anche un no, vista l’estemporaneità della proposta ed il fidanzato che l’attendeva a casa, ma avrebbe voluto giudicare la natura di quel no, la sua quiddità, la sua dimensione verbale e, soprattutto, non verbale. Avvocato di lungo corso, Dario aveva sviluppato una notevole esperienza nel giudicare voci e gesti dei suoi interlocutori.
Il pensiero, tuttavia, non si concretò: la sua vita era già troppo complicata, pensò Dario. E poi è troppo giovane per me, io ne ho 44, lei 35!
“Buona serata a te – rispose arretrando – e a domani. È ora di andare, anche se non ho né cani né compagni che mi aspettano.”
Dario aprì la portiera e salì in macchina chiedendosi il perché della sua reazione e di ciò che aveva detto. Prima si era ritratto da Patrizia come un bambino che fugge dalla strega e poi aveva farfugliato quelle parole prive di senso. L’intenzione era quella di celiare sul suo stato di single divorziato ed interessato ad un’avvenente giovane donna impegnata in una relazione agonizzante: il risultato era stato terribile. “Menomale che da ragazzo mi chiamavano Demostene” esclamò mestamente, rievocando i tempi in cui era un giovane e brillante studente di legge.
Mi sono bruciato ogni possibilità e ho fatto la figura del cretino. Ma probabilmente è meglio così, nella mia situazione.
I primi fiocchi di neve iniziarono a posarsi sul cristallo dell’auto mentre Dario attendeva che il semaforo tornasse verde. La neve lo fece pensare a suo figlio. Matteo aveva undici anni, frequentava la prima media e viveva a Varese con Teresa, da quando lei e Dario avevano divorziato, due anni prima.
In quel momento madre e figlio erano a Cervinia nella baita dei genitori di lei. “Pronto?”
“Ciao Teresa, tutto bene? Posso parlare col Matteo?”
“Va bene, te lo passo.”
“Ciao papi!”
“Buonasera figlio! Come va? Hai sciato oggi?”
“Oh sì, tutto il giorno. C’era poca neve, ma siamo andati lo stesso. Io e Davide siamo andati anche sulla rossa!”
“Sulla pista rossa? Due ragazzini?”, domandò Dario, immaginando che Davide fosse un amichetto del figlio.
“Ma che cosa dici, pa? Davide è l’amico della mamma. Avrà 37 anni almeno e scia benissimo!”
“Adesso capisco! Quante volte sei caduto, dimmi?”
Ma non sì chiamava Stefano?
“Addirittura trentamila volte? Ma non ti ricordi più come si scia?”
“Era due anni che non sciavo col Covid.Te non mi ci porti mai!”
“Hai ragione. Prima di fine stagione ti ci porto. Promesso. Mi passi la mamma un secondo?”
“Dimmi” esordì Teresa non appena il figlio le ebbe restituito il cellulare.
“Non sarebbe meglio concordare come e quando presentare i nuovi partner a Matteo?” chiese Dario, evitando di aggiungere “come accaduto nel caso della tua precedente relazione”.
“I partner? Ma come parli? Non è scritto da nessuna parte. Matteo è mio figlio, lo curo, lo nutro e lo sostengo tutti i giorni. Ed è abbastanza sveglio da capire che sua madre ha il diritto di farsi una vita” rispose algida Teresa prima di chiudere la comunicazione.
Dario, il telefono ancora in mano, non poté che darle ragione, in linea teorica. A poco meno di quarant’anni lei e poco di più lui, avevano il diritto di rifarsi una vita, di staccarsi dal passato e vivere: Matteo avrebbe capito e avrebbe amato i suoi genitori indipendentemente dal divorzio, dai loro compagni o compagne.
Il divorzio non è una strada senza sbocco, pensò Dario in un attimo di inquietante lucidità. Semmai è un bivio: ad un certo punto ci si divide, ognuno prende la propria direzione e si riparte.
Erano stati bene per tredici anni, lui e Teresa. Si erano amati, avevano messo su casa e famiglia, avevano amato insieme quel piccolo terremoto che nei primi due anni di vita aveva tormentato le loro notti con le sue coliche renali.
Poi, negli ultimi quattro anni, più o meno ai tempi in cui Matteo aveva iniziato la scuola elementare, qualcosa si era spezzato. Non c’erano stati tradimenti, né da una parte né dall’altra, e nemmeno progetti di vita divergenti. Semplicemente il lume del loro amore si era raffreddato fino a spegnersi. Così, nel giugno di due anni prima, avevano divorziato consensualmente, senza acrimonia.
Dario si era addirittura sentito sollevato nei primi mesi successivi alla separazione. La sera, quando tornava nello spoglio monolocale che aveva preso in affitto poco fuori Varese, nonostante la solitudine che gli faceva compagnia sul divano, si sentiva libero di essere sé stesso, senza dover indossare la maschera del marito amorevole per non ferire Matteo, senza dover ingoiare i sarcasmi di Teresa, senza dover ingoiare le risposte che avrebbe voluto vomitare, senza dover respirare l’aria elettrica e mefitica del matrimonio agli sgoccioli.
Dopo sei mesi quella sensazione di leggerezza era svanita: Dario si era accorto di continuare a vivere nel passato. Di essere rimasto fermo al bivio.
Non aveva il coraggio di chiedere a Teresa di riprovarci (anche perché sapeva che lei frequentava un uomo), ragionava ancora in termini di famiglia (il venerdì sera, mentre rincasava dal lavoro, si sorprendeva ad organizzare la gita domenicale, come aveva fatto per anni) e, salvo la vaga attrazione sviluppata nel tempo per Patrizia, non aveva interesse nel cercare una relazione sentimentale, né un’amicizia. L’unica relazione che gli stava a cuore era quella con Matteo: la sua domenica era il sabato. Lo andava a prendere dopo il lavoro, pranzavano da qualche parte e trascorrevano la giornata assieme, andando al cinema o alla partita di pallacanestro o facendo una gita fuori città.
Matteo era il suo futuro. Con retrogusto di passato.
“Ma no!” esclamò. Era appena entrato nel parcheggio del condominio. Si era dimenticato ancora una volta di fare la spesa.
Rimise in modo e si diresse al Teddy’s pub.
Il locale era sovraffollato ed il chiasso era sufficiente da impedirgli di pensare allo straccio della sua vita. Intravide un paio di conoscenze tra gli avventori, ma quella sera non aveva intenzione di stringer mani.
Che poi non è così uno straccio. A pensarci bene un lavoro ce l’ho, anche se non è proprio lo studio dei miei sogni; una casa pure, anche se piccola e spoglia; un figlio sano idem e pure io lo sono, il che è un miracolo nel modo del Covid.
“Vuole ordinare signore?”
“Sì, grazie. Mi fa una capricciosa?”
“Certo e da bere?”
“Una media rossa, grazie.”
“Perfetto, ci vorrà una ventina di minuti, vista la gente di stasera” annunciò cordialmente la cameriera.
“Non si preoccupi, non ho fretta. Se magari inizia a portarmi la birra mi fa un favore.”
Ma allora cosa mi manca? Perché non mi sento bene? Lo so che dovrei farmi una vita, che dovrei riprendere contatti con qualcuno dei miei vecchi amici o cercarne dei nuovi, che dovrei chiedere alla Patrizia di uscire. Ma non ci riesco. Se ragiono
lucidamente lo so, ma non ci riesco. Ci vorrà tempo…sì però sono due anni che abbiamo divorziato. Guarda lei, prima uno, poi l’altro, il lavoro nuovo. Insomma la sua vita se la sta facendo.
Guarda lì il Benacchi con consorte e prole: quando ho patrocinato la sua causa mi ha fatto una buona impressione. Siamo anche andati a pranzo insieme una volta. Se non sbaglio gioca a tennis. Magari un giorno lo chiamo e gli chiedo se ha voglia di fare due scambi. Certo, sarà cinque anni che non gioco, chissà che figura farei. Boh, vedremo. Al momento è meglio che le cose rimangano come sono.
“Ecco a lei, scusi l’attesa” disse la cameriera porgendogli la pizza.
Dario guardò l’orologio e si accorse che erano trascorsi quasi quaranta minuti dacché aveva ordinato.
Ero così distratto che non mi sono accorto del tempo, pensò, tagliando la prima fetta. Certo che quelli erano bei tempi. Avere vent’anni è un privilegio, non si hanno responsabilità, se non minime, tutto è autoreferenziale, gli amici, le ragazze, l’università, il lavoretto serale per pagarsi gli stravizi. Bello e lieve come una piuma. (O bello MA lieve? Bello e/ma lieve come una piuma). Pensa all’amicizia…
“Mi scusi signorina, me ne può portare un’altra” chiese, porgendo alla ragazza il boccale vuoto.
…basta fare due chiacchiere col primo che passa, scambiarsi il numero di telefono e uscirci due volte per chiamarlo amico. Salvo poi perderlo di vista dopo un mese, ma senza sanguinamenti.
Eppure non è sempre così, alcuni legami sono duraturi, diventano adulti ed invecchiano con noi. Elio Fazzini lo sento ancora ogni tanto, nonostante siamo sposati e abbiamo figli. Ecco, lui è uno che potrei sentire più spesso, magari uscire a farci una pizza una sera. Un po’ serioso, da sempre, con la fissa del check up semestrale altrimenti chissà che non ti venga un colpo o un cancro fulminante, ma è una persona stimata e seria. Sua moglie ha tante amiche con la scusa del lavoro in ospedale, magari ha qualcuna da presentarmi, così mi do una botta di vita. Magari meglio della Patrizia, che sarà pure una ragazza gentile, ma ha due polpacci…se non inizia a fare un po’ di movimento…Che stronzo, ti ha pure dato un bacetto. Chi altro credi che ti voglia? Perché Teresa è mai stata bella? No, carina semmai. Simpatica e sensibile di certo, ricca di famiglia senza dubbio, ma bella no. Carino si dice di un cane. Però a me piace e alla fine ha ragione quel proverbio là. Anche perché non solo è mia moglie, ma è la madre di mio figlio. Siamo stati bene dai ventisette ai quaranta, prima che iniziassimo ad andare in crisi, sono stato felice, forse anche più prima, col bambino.
“Posso portar via il piatto? Vuole la lista dei dolci, signore?”
“Sì, prego, porti pure via. Ma sì, mi dia la lista, grazie” rispose Dario.
Era stanco. La settimana al lavoro era stata decisamente pesante: aveva seguito diversi casi, era andato in tribunale quattro volte in cinque giorni e si era portato del lavoro da fare a casa tutte le sere.
Più che i vent’anni, sono i trenta che rivorrei indietro. E che non vorrei rimuovere. Nuove cose, nuove amicizie, una nuova donna potrebbero sedimentarsi, stratificarsi sopra quei ricordi e renderli non più riconoscibili. Come rami, tronchi e foglie che diventano carbone. Carbone di ricordi. Ho letto in uno studio che la nostra memoria ha una capienza limitata. Mica abbiamo gli hard disk esterni noi. Io non voglio dimenticare, non voglio sommergere quello che mi ha reso felice.
Sollevò il boccale e si dissetò. Anche pensare fa seccare le bocca.
Ecco, se c’è qualcosa da cui ripartire, visto che ormai abbiamo deciso, ci manca solo il plurale maiestatis, che ho deciso di ripartire, è il lavoro. Dieci anni che sono in questa gabbia di matti. Ho iniziato lì che Matteo aveva nove mesi e adesso è alle medie. Immobile come un pezzo di piombo. Dovrei iniziare a far girare qualche curriculum o sondare qualche collega, tanto a Varese ci conosciamo tutti. Oppure mettermi in proprio, come volevo fare da ragazzo. Diventare il primo civilista della città. O il secondo, dopo il Christian, che è sempre stato un passetto davanti a me, sia al liceo che all’università che ai tempi del tirocinio allo Studio Geronzi. Tutti i clienti importanti li mandavano da lui: anche a ventisette, ventotto anni si muoveva con la sicurezza di uno con vent’anni d’esperienza. A trenta fatturava come sei avvocati. Non a caso l’hanno preso nel team della Megix, una multinazionale da cento miliardi l’anno, mentre io sono finito dai Bianchi, muffosi legulei di provincia. Chissà come sta, saranno sette-otto anni che non lo vedo.
“Un tiramisù e un caffè” ordinò alla cameriera.
La ragazza assentì danzando tra i tavoli. Il passo leggero di quella giovane donna, i suoi occhi vivaci ed il sorriso percepibile anche sotto la mascherina non fecero che accrescere la sua nostalgia per il passato, per tutti volti andati e venuti ma ancora netti, scolpiti, sbalzati nella sua memoria. You come and go like a pop song, titolavano i Bicycle thief. Così fanno i volti che costellano il cielo della nostra vita, vanno e vengono e come la canzone di un’estate.
Christian. Forse ho ancora il suo numero – pensava, dirigendosi verso il bagno – e non si sa mai che lo chiamo una di queste sere. Ah, lui sì che era un amico. Ripartire dal passato: non è il massimo ma è già qualcosa. Quando si è ammalata mia madre è stato l’unico che veramente mi è stato vicino, anche se a venticinque anni si tende ad essere egoisti e si scaricano automaticamente gli amici che hanno problemi. Chissà dove vive, perché la sede della Magix prima era a Milano, ma se non sbaglio l’hanno spostata a Torino da quando l’hanno rilevata i cinesi…ma io quello l’ho già visto.
Stava attraversando la sala di ritorno dal servizio, quando gli parve di vedere un profilo noto, cui tuttavia non riusciva ad associare un nome. Forse è il padre di qualche amichetto di Matteo, dal momento ci sono anche una donna ed un ragazzino al tavolo.
Dolce e caffè erano già arrivati.
Se si girasse…ad ogni modo sì, chiamerò sia Christian che Fazzini. E non escludo neanche di invitare fuori la Patrizia. Certo, non che sia così facile. Cosa gli dico a tutti? Mi vedo a chiamare il Fazzini: ciao Elio, come va? Lo so che ci sentiamo ogni morte di papa, che tu avrai i tuoi impegni, la famiglia eccetera, ma io sono solo e depresso e vorrei cercare di riallacciare qualche amicizia giusto per non mummificarmi definitivamente. Oppure Christian: ciao Chris, ti ricordi di me? Sì, bene, ecco, che ne dici di una bella rimpatriata?
“Signorina, mi scusi, mi può portare il conto? Anzi, il conto e un’altra birra, gentilmente” domandò Dario. Aveva bisogno di un ultimo boccale per arrestare la scalmanata giga dei suoi pensieri.
“Facciamo due, grazie” intervenne una voce.
“Beh, non mi saluti?” domandò Christian Rossi accomodandosi al tavolo del suo vecchio amico.
“Chris? Ma che cosa ci fai qui?” rispose Dario, omettendo di dire che stava pensando proprio a lui in quel momento.
Dopo un abbraccio condito da un paio di generose e reciproche pacche sulla schiena Christian rispose: “Potrei farti la stessa domanda, caro mio.”
“Hai ragione. Ma io abito qui in città da sempre, mentre tu stavi a Milano l’ultima volta che si siamo sentiti.”
“Touché!”
“Allora, mi spieghi cosa ci fai qua?”
“Semplice, sapevo che avevi bisogno di compagnia…”
“Come?”
“Ma va! Mia sorella vive ancora a Varese, è lì seduta con mio nipote.”
“Vanda la piccola! Era una bambina l’ultima volta che l’ho vista. Fammela andare a salutare.”
“Dopo ci andiamo. Adesso voglio io l’esclusiva. Allora?”
“Allora che? Non ti è mai passato per la testa di farti sentire negli ultimi mille anni?” domandò Dario, con un tono lievemente risentito.
“Potrei dire altrettanto. Ma non pensiamoci Didi, adesso sono qui” scherzò Christian stemperando i toni.
“Uuuuuh come l’ho sempre odiato quel nomignolo!”
“Lo so, ma fa parte del passato. Come tutto, no?”
Dario inghiottì a vuoto e non rispose.
“Beh cosa si racconta Chris?”, riuscì infine ad articolare, stentatamente.
“Tutto alla grande. Ho mollato la Magix e mi sono messo in proprio da un annetto. Studio Legale Rossi e Di Nicola. Te lo ricordi Stefano Di Nicola? Quello di Sondrio, un anno più giovane di noi.”
“Sì, certo. Quello con la zeppola! Com’è che ti sei messo con lui? Non eravamo particolarmente in confidenza all’Università…”
“Un caso. Abita nel mio stesso palazzo a Milano. Per qualcosa come due anni non ci siamo mai incrociati, poi un bel giorno me lo trovo davanti in ascensore. Era un periodo nero perché la Magix era in fase di ristrutturazione aziendale. In realtà ci avevano appena comprato i cinesi e c’era aria di licenziamenti. Tra l’altro volevano spostare lo studio legale chissà dove, forse a Torino forse a Genova. Io stavo già iniziando a guardarmi intorno e lui, dopo quindici anni che non lo vedevo, in ascensore, dopo una giornata di lavoro, mi fa: «Sai cosa Rossi? Se ci mettiamo in proprio coi nostri contatti diventiamo il primo studio legale di Milano.» Così su due piedi.
“E tu?”
“Io per prima cosa ho pensato che avesse tirato su qualcosa. Poi ho pensato che se avessi voluto mettermi in proprio avrei cercato uno come te per socio, non certo il Di Nicola. Infine mi sono detto che certi treni vanno presi al volo, anche se non è proprio ben chiara quale sia la destinazione.”
“Beh, ti ringrazio per avermi pensato” disse Dario. Pensò anche di aggiungere che era disponibile ad aggregarsi allo studio anche come dipendente, fotocopiatore o schiavo, ma non lo fece. Se avesse davvero voluto lui, Christian lo avrebbe contattato, Di Nicola o non Di Nicola.
“In stazione, oltre a me c’era il vecchio Di Nicola. Ci fossi stato tu, chissà. Ma lasciamo stare me. Tu piuttosto? Sei ancora dai Bianchi?”
“Sì, sono ancora lì. Ti dirò che mi trovo ancora bene pur dopo tutti questi anni. Dieci. Ormai sono uno di famiglia, sai.”
“Ma bravo il mio Didino! A proposito di famiglia, la Teresa? Siete ancora la coppia più bella del mondo?”
“Oh, sì. Sta bene. Adesso…adesso è in montagna col bambino.”
“Quanti anni il bambino? Quindici?” domandò Christian mimando con indici e medi delle virgolette a contenere il sostantivo bambino.
“Mi fai così vecchio? Ne ha undici. Li ho sentiti prima e rientrano domenica sera…” “Peccato, io riparto domani, sennò ci stava una cenetta tutti insieme! Vorrei proprio vederlo il pargolo, il mio nipotino! L’ho visto l’ultima volta che era mezzo metro…quante gliene racconterei sul suo paparino!”
“Peccato davvero! Tu, piuttosto, donne, fidanzate, mogli? Mi ricordo che frequentavi una di Pavia ai tempi”, disse Dario.
“Di cui non ricordo neanche il nome, taci. Sono ancora uno scapolo incallito, di quelli che al giovedì sera hanno il calcetto con gli amici e il venerdì vanno da soli in discoteca. Da qualche tempo esco con una. Per inciso è la segretaria del nostro studio.”
“Under venti?”
“Più vecchia. Trentadue. Si chiama Patrizia.”
“Scusi, ce ne porta altre due?” chiese Dario alla cameriera. Si chiama Patrizia.
“Oh, senti più qualcuno della compagnia?” domandò Christian, dando la stura ai ricordi.
Dario affogò nella decade tra i venti e trenta, dall’università ai primi tempi con Teresa, dalle serate a preparare Diritto Romano alle uscite in compagnia, dal primo appuntamento con la sua futura moglie all’apprendistato con Christian allo studio Geronzi. Si inebbriò di quei giorni spaventosamente lontani e vicini.
All’improvviso, mentre Christan stava rievocando un’epica grigliata a casa di un certo Polenghi, a Diario parve di scorgere Matteo, dall’altro lato della sala, la mano destra in quella di Teresa, la sinistra in quella di Davide (Stefano, Enrico, Ermanno?).
“Teo” chiamò.
Il ragazzino non si mosse, come non si mossero i due adulti.
Era in procinto di alzarsi (forse non mi hanno sentito con tutta ‘sta cagnara) quando notò che Christian non era più al suo posto. Sparito, la sedia orfana del suo occupante.
“Chris?”
Svanito. Alzò gli occhi verso il fondo della sala e constatò che anche Matteo, Teresa e Davide erano spariti.
Ma come…
Dario si guardò intorno spaesato e, con agghiacciante stupore, notò che i tavoli del locale erano tutti occupati da persone di sua conoscenza. In uno i suoi genitori (con sua madre a braccetto di Chris), poco distante i suoi ex compagni di liceo (dei quali uno, Albertone Tosi, in abito da funerale siccome è morto in un incidente poco dopo la maturità), in un altro i due fratelli Bianchi, elegantissimi in frac, in un altro ancora i compagni di Legge, in un altro colleghi ed ex colleghi. Decine di tavoli con decine di volti.
Dario, sconvolto, serrò gli occhi, rifiutandosi di accettare ciò che gli appariva dinanzi. Sarà un’allucinazione dovuta alla stanchezza.
Attese qualche secondo prima di riaprirli.
Non è possibile.
Non erano spariti, non era un’allucinazione. Era un incubo incarnato: quell’esercito di volti noti lo stava fissando con occhi spalancati e vuoti e la lingua di fuori. I Bianchi (ormai sono uno di famiglia), i suoi genitori, persino Max Cicogna, un suo ex collega alcolizzato, tutti gli stavano facendo la linguaccia!
“Che cazzo fate?” domandò con un brandello di voce.
“Signore si sente bene?”
Niente.
“Signore?”
Una vigorosa scrollata alla spalla.
“Sì, sì eccomi”, rispose, la bocca impastata come qualcuno che avesse dormito il sonno più lungo della sua vita e la camicia imbibita di sudore.
Al posto di tutti quei volti ora c’era la cameriera-danzatrice.
“Mi ha fatto spaventare, sa. Aveva gli occhi chiusi, la testa rovesciata all’indietro e parlava da solo”, spiegò la ragazza.
Linguacce.
“Mi scusi signorina, è che sono stanco e forse ho ecceduto con le rosse stasera” rispose Dario che intanto cercava di asciugarsi il sudore con il tovagliolo sporco dalla cena.
La ragazza assentì con un lieve movimento del capo.
“Quindi è ora di tornare a casa, signore. Buonanotte e grazie.”
“Mai consiglio fu più opportuno cara. Grazie mille…e scusa per lo spavento.”
Dario si alzò claudicante, controllò che nella sala nessuno gli facesse le linguacce e beccheggiò fino all’uscita, ancora frastornato. Mentre la porta si chiudeva cigolando alle sue spalle lanciò un’ultima occhiata alla sala: Chris non me lo sono sognato, però.
Il vento invernale lo aggredì con la sua gelida lama ottenendo un duplice effetto: congelarlo fino al midollo (Dario avvertiva il sudore cristallizzarsi sulla camicia) e risvegliarlo. Non poté tuttavia spazzare i volti, quei volti.
Almeno Chris era “reale”? si domandò ancora una volta.
Certi volti restano nella memoria per tutta la vita, non il vento li può cancellare, non il terremoto, non il fortunale. Tuttavia, ad un certo punto, si può far loro una linguaccia, la linguaccia definitiva, e li si può rinchiude nella prigione dei ricordi, al buio, a doppia mandata.
Dario aprì la portiera della macchina e, ancor prima di essersi seduto, accese l’aria al massimo del calore.
Sorrise e prese il telefono.
Scegli destinatario: Patrizia.
BUONANOTTE
Invio.
Linguaccia e doppio giro di chiave.
Gennaio-giugno 2022
di Andrea Galli
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