Essere hikikomori o l’isolamento volontario.

Si è sentito parlare in Italia di recente, grazie all’uscita di vari articoli e servizi sul tema, di giovani Hikikomori, letteralmente, in base alla definizione di Tomita Fujiya ripresa da Tamaki Saito, “stare in disparte”, “ritirarsi”. Chi sono, però, gli hikikomori? La classificazione,al momento attuale, varia in base al paese e al contesto e sfugge a una catalogazione univoca. Per trattare meglio il fenomeno, senza rischio di fraintendimenti, ci si rifà alla patria in cui si è manifestato per la prima volta: il Giappone. Proprio lì, dagli anni ‘80, un numero crescente di individui, per lo più tra i 20 e i 29 anni, ha cominciato a isolarsi, allontanando il mondo esterno e le relazioni umane, fino a quelle famigliari, assumendo lo stato definito di “eremiti postmoderni”. La condizione peculiare di tale isolamento, dunque, è la volontarietà, che differisce in maniera significativa dalla reclusione forzata dovuta a fattori esterni e contingenti. Da circa due decenni si riscontrano molti casi in altri stati non solo orientali, ma di tutto il globo, Italia inclusa. I dati, per il nostro paese, parlano di oltre 50.000 casi in cui i giovani si riconoscono in questa categoria, infatti nello stivale è un fenomeno per lo più adolescenziale, e non si tiene conto dei casi non manifesti. La poca affidabilità del rilevamento è tuttavia notevole, poiché si tratta di una autodefinizione, di indagini svolte durante il 2020 e solo su alunni presenti nelle scuole, dunque escludendo coloro i quali si trovassero già in isolamento volontario. I numeri potrebbero essere ben superiori e soprattutto i casi latenti molti più di quanto non si immagini.

     È necessario scongiurare il pregiudizio, errato, per cui tutto dipenda dalla tecnologia (smartphone, social network, playstation e affini) o da qualche sorta di superficialità nell’approccio alla vita dovuta da un eccesso di possibilità economiche ed esperienziali, né tantomeno alla sola noia, intesa su un piano esistenziale. Tutt’al più, la dipendenza dalla prima è una conseguenza dello stato di reclusione volontaria. Circoscrivendo il fenomeno al Giappone, prima di ampliarlo, si tratta piuttosto di una reazione alla vita per come viene intesa nella società nipponica. Tra gli studi, inoltre, si tenta di comprendere se vi sia una correlazione oggettiva tra patologie psicologiche e isolamento volontario, in quanto è evidente che possano sorgere a posteriori, motivo per cui le ricerche si muovono in senso opposto. Per comodità di categorizzazione, in Giappone vengono riconosciuti hikikomori coloro i quali si trovino in isolamento superiore ai sei mesi. In altri paesi differiscono le tempistiche e le ragioni che ne permettono l’attribuzione. Per di più, non c’è ancora unanimità nel riconoscere tipologie differenti, di hikikomori, come primario e secondario, l’uno attribuibile a cause sociali e individuali, l’altro a patologie psicologiche o psichiatriche pregresse. L’isolamento avviene per gradi in molti casi e di solito con un percorso regolare: abbandono della scuola e delle attività extrascolastiche per recludersi in casa, vita in camera e, nei casi più estremi, allontanamento delle relazioni con la famiglia e anche di quelle virtuali. Spesso le attività preferite sono la lettura, in Giappone in particolare di manga, e l’utilizzo del Web, svolte di notte, mentre si tende a dormire di giorno, invertendo il regolare alternarsi di sonno e veglia. Nonostante queste premesse, ad oggi lo hikikomori non rientra tra le sindromi riconosciute. 

     Benché manchino unanimità e riconoscimento di sindrome, vi sono dei sintomi che permettono di identificare un individuo come hikikomori, come quelli individuati nell’isolamento e nella negazione di una vita sviluppata in un contesto sociale, e dei tratti comuni riscontrabili nei soggetti in questione. Ancora una volta, per semplicità, si tiene in conto il caso giapponese come punto di riferimento. Si tratta perlopiù di ragazzi tra i 20 e i 29, ma anche di uomini oltre i 40. Solo una piccola fetta dei soggetti riconosciuti è di sesso femminile, per vari motivi: in primo luogo, le donne rimangono dentro casa fino al matrimonio, perciò non tutti i casi potrebbero essere davvero riconosciuti; i ragazzi e gli uomini, d’altra parte, subiscono una pressione sociale opprimente, legata all’idea di onore famigliare e di vergogna per l’insuccesso. Il Giappone, infatti, è strutturato in maniera competitiva ai massimi livelli, quindi emergere costa un carico eccessivo di stress e terrore di fallire, poiché non riuscire getta un’ombra su tutta la famiglia, oltre che sul singolo individuo. Gli studi per accedere all’università sono duri e portano ad isolarsi per lunghi periodi (con shinkenjigoku si parla di “inferno degli esami” e con unioni di chi, avendo fallito, studia un anno intero senza lavorare né frequentare altro ambiente), con grande rischio di non passarli. I giovani sostengono il peso delle aspettative derivanti dal successo dei loro predecessori, e non è un caso se si parla quasi sempre di hikikomori appartenenti a famiglie benestanti, alle quali i padri hanno fornito agiatezza. Proprio la figura paterna è al centro di rapporti disfunzionali che possono essere alla  base di questo fenomeno. Da oltre un secolo l’economia giapponese è ai vertici mondiali, anche grazie ad una cultura del lavoro e del sacrificio che si tramanda di generazione in generazione. In particolare dal dopoguerra, i padri hanno dedicato loro stessi con rigida abnegazione al lavoro, evaporando dal ruolo di genitori ma senza che la loro figura simbolica scomparisse. Tale processo si è acuito dagli anni ‘80-’90 in poi, in seguito alla crisi del modello e dell’economia giapponese, portando l’abnegazione a ritmi disumani di lavoro, ancora oggi sostenuti. A questo punto, la figura del padre è divenuta una chimera, invisibile ma della cui presenza si avverte la traccia nella psiche individuale e collettiva. Le madri portano i padri come modello, mentre crescono i figli, e impongono quel modello come punto di arrivo. Intanto, i figli sviluppano complessi sempre maggiori, dovuti all’ansia di riuscire, al dovere di imitare, al terrore della vergogna e infine alla consapevolezza che la loro esistenza verrà cancellata in favore di un modello annichilente. D’altronde, la cultura giapponese è fortemente fondata sul collettivismo, che implica il sacrificio dell’individuo in favore del benessere comune e, in un certo senso, l’appiattimento alla comunità. 

     Lo stesso spirito di gruppo dà anche vita a fenomeni di marginalizzazione che sfociano, soprattutto in età adolescenziale, in atti di bullismo, quindi di insieme di individui che si scagliano contro uno. Al centro di tale fenomeno si trovano molto spesso ragazzi timidi e insicuri, che non riescono facilmente ad inserirsi in dinamiche collettive. Il loro modo d’essere è influenzato in maniera determinante dai rapporti con la famiglia, in particolare all’attaccamento materno che risulta quasi simbiotico e non permette uno sviluppo al di fuori di esso. Vergogna e timidezza, per di più si esprimono con lo stesso termine, quindi sono tra loro assimilate.

     I giovani giapponesi si trovano in un contesto così pressante e carico di aspettative e disfunzionalità che diviene invivibile, perciò, sempre più frequentemente, ricercano un luogo sicuro e pacifico che individuano in loro stessi e nella loro camera, in cui sviluppano una vita parallela e opposta a quella esterna. Con ogni probabilità, la precarietà e l’obbligo hanno aperto loro gli occhi sull’ingiustizia di una società simile (non si intende fare la morale, dato lo stato del nostro paese) e, pur di riacquisire uno spazio pacifico, preferiscono allontanare tutto e tutti coloro che ne fanno parte. Come anticipato, molti articolano la propria vita anche virtualmente, mentre altri escludono anche quella. In molti casi si sviluppano stati d’ansia anche e soprattutto sociale, depressione, disturbi del sonno e numerose fobie tra cui antropofobia e agorafobia. Allo stesso modo, una percentuale risulta essere fortemente paranoica e sospettosa verso il mondo esterno e anche verso i genitori, nei confronti dei quali non sono rari scatti d’ira e violenza, oltre che distacco totale. Tenendo in conto che proprio nel rapporto con essi sorge molta pressione, non è assurdo pensare a una forma di ribellione che assume caratteri particolari per ogni individuo.

     I rischi, come si evince, sono numerosi e profondi, sia dal punto di vista della società, che dal punto di vista psicologico, per il rischio dell’aggravarsi di questa condizione in continua crescita. Secondo molti dati, infatti, il numero di hikikomori nipponici potrebbe superare il milione, con quantità di casi non accertati e non dichiarati per vergogna da parte delle famiglie.Come accennato, anche nel nostro paese il fenomeno è in crescita, in particolare dopo le ripetute chiusure legate al Covid-19 di inizio decennio. In Italia la fascia più colpita dal fenomeno è quella tra i 15 e i 17 anni, in base alle ricerche. Parlare di hikikomori prevede che ci si riferisca al mondo giapponese, poiché ogni paese presenta delle peculiarità di classificazione e di manifestazione del fenomeno. È frequente, in questi casi, che i giovani dichiarino di sentirsi soli e incompresi sia dai genitori e dagli adulti in generale che dai coetanei. Molto spesso questo senso di solitudine e vuoto dà impulso alla volontà di rinchiudersi in sé stessi per ascoltarsi meglio, lontani dalle voci esterne. Inoltre, non è secondario il fattore sociale, poiché in molti dichiarano di sentirsi insofferenti e disincantati nei confronti della società e dei suoi sistemi vigenti. Come i corrispettivi giapponesi, i giovani italiani respingono un modello nel quale non si riconoscono e che percepiscono non poter essere adatto a loro. Benché, infatti, non sussista l’elemento di vergogna nipponico, o comunque non prevalga in maniera decisiva, è innegabile una tendenza a non riconoscersi nella società in cui si viene calati e di cui si percepiscono, più o meno consapevolmente, le criticità, le forti contraddizioni e le ipocrisie. Se si crede che i giovani, in particolar modo gli adolescenti, siano eccessivi nella loro reazione e in qualche modo colpevoli della propria situazione, è necessario compiere un esame di coscienza, perché significa che non si è capito nulla del mondo in cui si vive e non ci si è ben guardati dentro. Benché, infatti, tra le cause scatenanti del fenomeno, che si continuerà a chiamare hikikomori anche per l’Italia, non figurino in particolare bullismo e vergogna per il fallimento come in Giappone, ben altri campanelli d’allarme dovrebbero far aprire gli occhi sulla realtà. 

     Al solito, la soluzione facile è lavarsene le mani, come per altro accade in Italia in non pochi casi, e attribuire le colpe ai cellulari di ultima generazione, ai social, ai videogiochi e alle cattive abitudini che circolano tra ragazzi. L’approccio che invece sarebbe corretto adottare sta nel cercare di capire cosa non funzioni nella propria casa e nella società che ogni giorno si contribuisce ad alimentare, perché il disagio, al di là di problematiche psicologiche, sorge proprio nel contesto in cui ci si immerge quotidianamente; se in quel contesto non si vede nulla di valido o di allettante, dato che non viene mostrato o non si educa a ricercarlo, allora perché non ci si dovrebbe ritirare in un mondo fatto di individualità e che viene nutrito da sé stessi, più o meno consapevoli dei propri bisogni? Non si parla di un mero narcisismo che porta a chiudersi nel proprio mondo, ma piuttosto di una reazione alla realtà deludente, una sorta di noia moraviana trattata con l’abbandono del mondo quotidiano in stile Barone rampante. Cosimo Piovasco di Rondò, tuttavia, rimane legato ad esso con un lembo misto di amore, famiglia e rapporti umani, mentre gli hikikomori rinnegano anche questi aspetti e si rinchiudono, a volte allontanando anche il virtuale.

     I registi del documentario Essere hikikomori. La mia vita in una stanza (2022), Ugo Piva e Michele Bertini offrono uno spunto di riflessione da tenere bene in considerazione: gli hikikomori, in particolare quelli di lunga data, possiedono una notevole capacità creativa, derivante dalla lontananza interposta rispetto al mondo esterno e una sensibilità rara da incontrare. L’immaginario dei soggetti con cui sono venuti in contatto è fuori dal comune, proprio per il fatto di essere cresciuti in un mondo tutto proprio. Non bisogna dunque farsi un’idea di corpi privi di stimoli e passioni buttati sul letto ogni istante o catatonici davanti a uno schermo. Ci sono casi in cui la descrizione non si allontana molto dalla realtà, anche se è estremizzata, ma anche situazioni in cui emerge chiaramente il messaggio di molti hikikomori: allontanarsi come risposta ad una società e ad un contesto percepito come inadatto a una vita, come reazione ad una realtà che non offre altro se non possibilità di dolore e noia. Con tutto ciò, non si vuole certo distogliere l’attenzione dal problema, che persiste, ma sottolineare la reale volontarietà del gesto e la scelta di trovare in sé stessi il vero valore della vita.

     Sarebbe corretto indagare tutte le ragioni che stanno portando sempre più giovani a scegliere l’abbandono della scuola e delle relazioni sociali in favore di una vita parallela. Di certo, fattori familiari (rapporti disfunzionali, situazioni difficili), fattori sociali (instabilità economica e lavorativa, scarse prospettive, alta competitività e aspettative), nonché conseguenti risvolti psicologici possono fungere da spiegazione per i casi generali, sta poi a chi è più esperto intravedere le peculiarità di ogni singolo individuo e comprendere se e come agire di conseguenza.

     Come ci si pone, però, di fronte a un hikikomori? Ci si deve allarmare? Si deve ignorare la situazione e aspettare che si risolva da sé? Nessuno dei due estremi, ovviamente, comporta una risposta. Tutto va affrontato con gradualità, infatti è prima necessario comprendere le ragioni per cui si verifica uno stato di isolamento anche breve, per poi indagare in maniera più approfondita. Tentare di instaurare un dialogo da parte di genitori e persone care è un primo tentativo auspicabile, anche se spesso è proprio con questi che si tagliano i ponti. Ricercare aiuto anche nella scuola e nelle passioni può essere un’idea. Se però tutto ciò non sortisce l’effetto sperato? Se l’isolamento continua o si acuisce? In quel caso bisognerebbe – condizionale usato dato che in molti per vergogna o insofferenza non lo fanno – rivolgersi ad esperti che sappiano meglio come approcciare la questione e dare una mano nei limiti del possibile. In Italia, da anni, esistono associazioni e gruppi nei quali è possibile trovare aiuto e conforto, nonché spiegazioni e chiarimenti sul tema, senza giudizi. Rivolgersi è il più grande atto di affetto verso sé stessi e verso chi si ama. 

     Nome da ricordare per queste evenienze è l’Associazione Nazionale Hikikomori Italia, attiva da diversi anni sul piano nazionale. Da ricordare sempre il supporto che si può trovare in psicologi e psicoterapeuti, con interventi che possono essere svolti online, oltre che in presenza, proprio per aiutare ad affrontare al meglio la questione e cercare un percorso comune per acquisire consapevolezza e cercare di costruirlo in funzione di una possibile soluzione.

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