Cieli in fiamme: Intervista a Mattia Insolia
Questa mia introduzione è postuma, la sto scrivendo dopo aver terminato il libro e condotto l’intervista, e solo ora sono riuscito a trovare il motivo per cui Cieli in fiamme (Mondadori, 2023) di Mattia Insolia mi ha tanto entusiasmato, per cui consiglio di leggerlo e ho desiderio di rileggerlo, tra un paio di anni, quando un nuovo me potrà confrontarsi con le sue pagine. È la scintilla dentro la pira, il motivo: Cieli in fiamme è un romanzo scritto da un mio coetaneo, tra i ventiquattro e i venticinque d’anni, ed è la prova cartacea che la nostra generazione può prendere tutta la rabbia e renderla cosa concreta, cumularla e trasformarla in desideri realizzabili. È una rabbia che spinge a sfidare continuamente il mondo dei grandi, che affoga il nostro spazio con la loro melma. È una rabbia che porta a conquistarsi i propri posti nel mondo. È una rabbia che crea incendi privati dentro le stanze, che dobbiamo espandere, farli arrivare in alto, fino a far esplodere i desideri. E solamente dopo l’esplosione, possiamo fermarci, prendere fiato e godere dei cieli fiamme, per poi ricominciare, e incendiare nuove porzioni di cielo. E con tutto il mio entusiasmo, presento, pertanto l’intervista a Mattia Insolia, autore di Cieli in fiamme:
Avevo in mente tante domande ma ho deciso di ridurle, scegliendo di fare un’intervista seguendo uno schema, la regola delle cinque W più l’How, per scoprire il tuo romanzo. Pertanto, ti chiedo: chi è Mattia Insolia di Cieli in fiamme? È Riccardo? Teresa? Niccolò? O tutti e tre i protagonisti del tuo romanzo?
La prima risposta è che c’è un personaggio nel romanzo che passa assolutamente in secondo piano, in sordina, che si chiama Mattia. Nessuno ci fa caso forse, è il guardiano del villaggio, è un tipo un po’ scemo che è rimasto con dei problemi da quando ha avuto un incidente. Mattia, innanzitutto, è quello; Mattia, dal punto di vista più superficiale, è uno scemo cui è stato dato il compito di vegliare sul posto che racconta. Mattia è anche un po’ tutte e tre: io sono stato Teresa, perché quando avevo sedici anni sono cresciuto molto tardi, ho avuto il primo bacio tardi, ho fatto le prime esperienze sessuali (ma anche altre tipo di esperienze, come quelle legati all’amicizia) molto tardi. Quindi sono stato Teresa, sono stato il suo mondo, un ragazzo molto timido, indietro, ma che nello stesso tempo voleva partecipare alla classe del mondo. Sono stato anche Niccolò, sono stato un ragazzo che si è molto lasciato influenzare dalla famiglia, da quello che loro avevano passato. Soprattutto quando avevo diciotto-diciannove anni, l’età di Niccolò, mi sentivo molto segnato da quello che era stata la mia famiglia; mi sono un po’ lasciato condizionare da questo, come Niccolò, che è il prodotto della sua famiglia. Sono stato anche Riccardo perché, nonostante io non abbia assolutamente fatto mai ciò che ha fatto Riccardo e non mi sognerei mai di farlo ovviamente (pare banale specificarlo ma è meglio dirlo), mi sono trovato anche al posto di colui che è sopraffacente, di colui che soverchia le altre persone. Sono stato un po’ tutti e tre, e ho voluto raccontarli perché volevo scendere a patti con queste tre versioni di me stesso. Però, se c’è un personaggio con cui mi trovo molto è Mattia, il guardiano del villaggio.
Quando mi approccio alle cose, faccio sempre una distinzione tra ciò che è vista e visione. Con la vista vede solamente ciò che è esterno e superficiale, con la visione la cosa esterna viene fatta esplodere, distrutta, ricostruita dandole nuovi significati. Ho, pertanto, fatti miei i tuoi cieli in fiamme e ci ho visto dentro la rabbia, il dolore, il rimpianto, i desideri e tante versioni di quello che sarei potuto essere. Tenendo conto di questo, rivolgo la stessa domanda a te, e ti chiedo: che cosa hai visto nei tuoi cieli in fiamme?
Questa è una domanda molto bella, che non mi era mai stata fatta, quindi ci penso adesso qui con te. Per risponderti, ti vorrei dire la ragione del titolo, Cieli in fiamme. L’incipit, nella prima stesura, nella prima edizione del romanzo era diverso. Il romanzo cominciava con un capitolo di Riccardo in cui ho scritto
Tutti gli uomini vivono sotto lo stesso cielo, ma ciascuno abita il suo. E per ognuno arriva il momento in cui compaiono le stelle.
Il momento in cui compaiono le stelle è il momento in cui si incendia il cielo, perché che cos’è un cielo che va in fiamme? È un cielo che brucia di desiderio. E che cosa sono le stelle? Le stelle sono dei corpi luminosi cui noi affidiamo i nostri desideri. Quando noi, d’estate, alziamo gli occhi al cielo, e guardiamo le stelle che cadono è perché vogliamo desiderare qualcosa. Il cielo in fiamme è il cielo che viene bruciato dai desideri. Quando tu mi chiedi, cosa vedi nei tuoi cieli in fiamme, io ti rispondo: vedo i miei desideri che bruciano, vedo le mie speranze che divampano. Però, allo stesso tempo, se penso al fuoco, penso alla sua violenza. E penso anche alla rabbia che mi abita e mi ha abitato per tanto tempo, che ho assecondato per tanto tempo. Oggi mi dico di essere arrabbiato ma non rabbioso, sono una persona che sente la propria rabbia ma che non la bestemmia, non la tira fuori, mentre tempo fa ero un tipo sia arrabbiato che rabbioso, ero molto esplosivo. Quindi ci vedo tanta rabbia e tanta violenza nei cieli fiamme, soprattutto rabbia e violenza che io ho attraversato e che io ho operato, ma ci vedo anche tanti desideri, che per me combaciano, spesso, con occasioni mancate. La mia vita è costellata da occasioni mancate perché non colgo quelle che mi si parano davanti, e quindi i miei desideri hanno molto a che fare con il rimpianto e con il rimorso, e tutto ciò che ho fatto o tutto che avrei voluto fare diversamente riempie questi cieli che sono in fiamme sulla mia testa.
Hai parlato di desideri e di rabbia, che vanno in collisione. Mi hai fatto venire in mente un titolo di un album di Levante di qualche anno fa, Caos delle stanze stupefacenti. C’è una coesione caotica in questa collisione, tra desideri e rabbia?
Sono una persona esteriormente molto ordinata, se ti faccio vedere la mia stanza dove sono in questo momento, non c’è niente se non libri, una credenza con dei libri, una scarpiera con sopra dei libri, un comodino con sopra dei libri, altri libri e basta, non c’è niente attaccato alle pareti, non c’è niente fuori posto, perché io sono esteriormente una persona ordinata, mentre, internamente, vivo come se fossi completamente in una sorta di tornado che non riesco mai a fermare. Riesco, però, a bloccare questa confusione, questo caos solamente attraverso la scrittura, ma non perché scrivo solamente di ciò che mi appartiene, anche perché, per metodo, l’atto dello scrivere è un tranquillante, non solo nel momento specifico in cui sto scrivendo, ma anche nei periodi in cui sto scrivendo. Mi rendo conto, davvero, che per me è la scrittura è come un tranquillante; c’è tanto caos in Cieli in fiamme, questi personaggi hanno tanto caos, perché il caos viene tutto da me. Non sono personaggi ordinati, perché io non sono un personaggio ordinato. Un’operazione che potrei fare in futuro, nei prossimi romanzi, è di creare dei personaggi che abbiano più ordine.
Per la prossima domanda, riporto un estratto da Cieli in fiamme:
La vita ha sempre cercato d’infilarmi nelle sue forme. E lo sai cosa ho sempre fatto? Le ho rotte, le sue forme, le ho spaccate. E quando le forme erano distrutte, mi sono lasciato accadere.
Mattia Insolia, Cieli in fiamme, Mondadori, 2023, p.48.
Ti chiedo, quindi: quando bisogna lasciarsi accadere? Quando bisogna fermarsi e interrompere l’accadere per non finire nell’autodistruzione?
Non credo ci sia una regola generale che si possa applicare, in quanto è molto soggettivo. Ho voluto inserire il “lasciarsi accadere”, ho voluto mettere il seme del dubbio nella testa di Niccolò e di Riccardo sul lasciarsi accadere perché è qualcosa che io non so fare. Sono una persona molto nevrotica, molto ossessiva, fortemente ipocondriaca, e non c’è un momento, quindi, in cui mi lascio andare, non sono il tipo che fa sesso da una notte, perché mi dico “E se mi viene qualche malattia strana?”; non sono di quelli che si dicono “Sai che ti dico, stanotte esco e mi vado a fare una passeggiata di notte”, mi rispondo invece “E se mi derubano?”. Sono una persona molto precisa, quindi non mi lascio accadere, io programmo tutto. Ho voluto inserirlo, pertanto, perché volevo indagare nell’accadere: io, se mi lasciassi accadere, come sarei? E credo che sarei come Niccolò. A Niccolò, proprio perché si lascia accadere, non frega niente di nessuno. Per lui, il mondo è il suo personale parco giochi, lui fa quello che vuole, fa sesso con chi vuole, lui segue l’istinto, obbedisce al desiderio più immediato. Probabilmente sarei come Niccolò, e non credo che mi saprei dare delle limitazioni, perché secondo me lasciarsi accadere in una giusta misura è molto difficile, ed è quello che crede di saper fare Niccolò ma non è così. È come dirsi: questo desiderio lo seguo, questo desiderio lo sopprimo… come si fa a decidere… L’unico limite dovrebbero essere le altre persone: credo che la libertà di ognuno finisca dove comincia quella dell’altro. Nel momento in cui, per seguire un proprio desiderio, per obbedire a un istinto, si deve calpestare un’altra persona, o anche soltanto invadere il suo spazio, quello è il momento in cui bisogna fermarsi.
Ipotizzando a un futuro del romanzo, a un seguito: Niccolò capisce qual è il limite dell’ accadere, dopo quello che succede nelle ultime pagine?
Nelle ultime interviste e presentazioni che ho fatto, mi state chiedendo spesso che fine farà Niccolò. Da una parte vorrei rispondere, perché un’idea ce l’ho, di che cosa faccia Niccolò. Però, non ve lo voglio dire (ride), perché per me il romanzo finisce là. Vorrei che voi, che i lettori in generale, cominciassero a operare una sorta di taglia e cuci, di dirsi, in base alla propria esperienza, Niccolò diventa questo. Ho un’idea di come sarà Niccolò, anche rispetto al concetto del lasciarsi accadere, ma non ve la voglio dire.
Ti colleghi alla teoria della morte dell’autore: quando il romanzo viene pubblicato, in parte, l’autore deve metaforicamente morire perché il testo diventa del lettore, e il lettore deve costruirci attorno. È un dialogo che si instaura tra lettore e libro. Quindi questa risposta, il “Non te lo voglio dire”, è perfetta.
Io ho dato quel finale perché volevo dare un futuro a Niccolò molto preciso. Ma adesso che il romanzo è stato pubblicato, mi rendo conto che ognuno stia dando una sua interpretazione al finale, e ben venga che ognuno dia una propria interpretazione al futuro di Niccolò.
Per il Dove, mi ricollego a quanto hai detto prima, riguardo all’influenza che i genitori hanno sui propri figli. Il romanzo fa continua salti temporali: una parte è ambientata nel 2000, a Camporotondo, in cui si racconta dell’incontro tra una giovane ragazzina, Teresa, e un altro ragazzo, il futuro padre di suo figlio, Riccardo; la seconda parte è ambientata nel 2019, e si racconta del viaggio da Paloma a Camporotondo che compiono Riccardo e Niccolò, suo figlio, per rispondere alla domanda Tu ti lasci accadere?. Le due storie sono intrecciate e collegate: dove finisce una, inizia l’altra. Considerando, pertanto, questo intreccio e del legame corporale ed ereditario che c’è tra genitori e figli: dove finiscono i genitori e dove iniziano i figli?
Questa è una domanda molto complicata. Credo che ci sia un po’ la tendenza a considerarci come dei segmenti che hanno un inizio e una fine, nello spazio e nel tempo. Per certi versi, noi abitiamo un posto o diversi posti in un determinato tempo. Il tempo è quello, e quello ci appartiene, lo spazio è quello e quello ci appartiene. Però, io credo esista uno spazio, quello interiore in ognuno di noi, che non possiamo suddividere con la stessa linearità, con la stessa organizzazione. Credo che la contaminazione tra noi e l’esterno sia continua e imperitura, non finisce mai. È chiaro che, quando ero più piccolino, l’influenza dei miei genitori era più forte rispetto che adesso. Però, ora, quante delle mie decisioni sono influenzate da loro? Per esempio: vivo a Milano da una paio di anni, ma l’anno scorso pensavo di ritornare più spesso a Catania, di stare un po’ più vicino alla mia città, ma non tornavo, in quanto c’era sempre lo spauracchio del Covid. Mi sono reso conto che l’esterno modifica le tue decisioni, e se modifica le tue decisioni, modifica un pochino la tua natura. Siamo, quindi, fortemente influenzati dai nostri genitori quando siamo più piccoli, sia perché i nostri genitori nell’educazione, nell’esposizione che hanno loro su di noi, ci trasmettono le loro paure, i loro desideri, le loro speranze, sia perché ti danno una loro impronta: ho le mie paure, probabilmente, perché mi si sono state instillate inconsciamente dai miei genitori. Sicuramente, quando si è piccolini, c’è un modellare i figli da un punto di vista conscio; quando siamo più grandi, invece, noi continuiamo a modellare noi stessi in funzione dei nostri genitori, in modo conscio e inconscio. C’è uno scambio continuo, che funziona anche a viceversa: nel momento in cui nasce un figlio, come persona si cambia, perché diventi genitore, e sarai per sempre cambiato da questo. Non c’è, quindi, un vero limite tra genitori e figli, c’è uno scambio continuo che non ha una fine reale. Anche quando una persona muore, che sia questo genitore o figlio, noi, con la memoria, operiamo una selezione di ricordi che fa sì che continuiamo a modificarci. Questo mi interessa molto: che fine fanno le persone che muoiono? In realtà, non muoiono, rimangono dentro di noi e in qualche modo ci cambiano. Tutte le persone che incontriamo, come anche genitori e figli, si modificano continuamente senza pausa. C’è un detto: “Il fiume modella le sponde, le sponde modellano il fiume”. Il rapporto tra genitori e figli, secondo me, è lo stesso tra sponde e fiume.
Invece di segmenti che si uniscono, siamo, dunque, rette che si intrecciano con tutte le altre.
Un fascio di nervi, scoperto tra l’altro.
Per la prossima domanda torno indietro al tuo periodo di studio: hai dedicato una parte dei tuoi lavori universitari a uno studio sui Cannibali. Come ha influito il mondo cannibale nella scrittura di Cieli in fiamme?
Ha influito perché sicuramente la carica di violenza, di brutalità, di colore e di rabbia appartiene ai cannibali. Credo che molto della violenza di cui parlo, sia in questo romanzo che in Gli affamati, sia anche nel racconto dell’antologia per Solferino, derivi anche dal fatto che, quando ero più piccolo, mi sono molto alimentato di una letteratura che con la violenza aveva tanto a che fare. Non solo i Cannibali, ma anche Stephen King, per esempio. Mi ricordo di aver letto Gioventù Cannibale quando ero piccolino e ci sono stati due racconti che mi hanno molto colpito. Il primo è quello di Niccolò Ammaniti e Luisa Brancaccio, Seratina, un racconto pazzo. Il secondo, Il rumore di Stefano Massaron. È un racconto di una violenza disarmante: è la storia di due ragazzini che vivevano nelle case popolari e la storia di una bambina di dieci anni, obesa e reietta. Gli altri ragazzini la prendeano in giro, e lei un pomeriggio, mentre giocavano, si ribella, e i due ragazzini che l’avevano bullizzata decidono di fargliela pagare: in uno dei palazzi popolari in disuso, quasi abbandonata, nella tromba delle scale la violentano sessualmente. La violenza è descritta in un modo talmente crudo da far paura. Subito dopo, questa bambina ritorna a casa sua, i suoi genitori litigavano spesso, il padre picchiava la madre, sale sulla finestra e si butta. Si suicida. Il rumore del titolo è il rumore del suo corpo quando si va a schiantare. Ricordo di aver letto questi racconti ed essermi detto: cazzo, ma quindi si può fare anche questo tipo di letteratura! Una letteratura che parte dal basso ma racconta di cose violente e reali? Mi sono innamorato di quel tipo di letteratura, e mi rendo conto che quell’amore in qualche modo si sia trasmesso: se mi ha influenzato in qualche modo, è perché l’ho molto amata, e si tende a riprodurre ciò che abbiamo amato, in quello che riusciamo. La vita, in generale, è un cercare di ripetere l’amore che abbiamo vissuto.
Pensavo che il mondo cannibale avesse influito sulla tua scrittura più dal punto di vista linguistico che tematico.
La lingua segue il personaggio. Per esempio, Teresa ha una lingua diversa da quella di Riccardo, perché sono due personaggi diversi. I personaggi del mio prossimo romanzo, per aggiungere, parlano molto diversamente, hanno una lingua diversa. Per me, arriva prima il personaggio e poi la lingua. La lingua si basa sul personaggio che sto raccontando: se sto raccontando una storia di metà dell’Ottocento tra due baronetti, non posso utilizzare la lingua di oggi. Forse scrivo di questi personaggi perché so che parlano in questo modo, ma non lo so. Però se penso ai Cannibali, più che alla lingua, penso all’efferatezza dei loro racconti.
Arrivo al colpo finale, al Perché. Al termine della lettura, mi sono chiesto: Come ti senti rispetto al romanzo? Ho ragionato e mi è venuto in mente il vocabolo “contorto”. Lo sono andato a cercare sul dizionario: “Contorto”, ovvero che manca di chiarezza, ma anche storto attorcigliato, in una posizione corporale scomposta rispetto a quella naturale. E penso di essermi sentito così perché ho amato Teresa, Riccardo e Niccolò, poi li ho odiati, poi amati, poi desiderato che facessero qualcosa di diverso, e poi, sul finale, amati e odiati di nuovo. Mi sono sembrate persone reali, come se li conoscessi. Perché, secondo te, da semplice lettore, mi sono sentito contorto?
E tu lo devi sapere (Ride). Innanzitutto lo prendo come un complimento, perché c’era la volontà di far sentire contorto chi sta dall’altra parte, chi legge il romanzo, per entrambe le definizioni. Da una parte contorto cioè confuso, perché ti racconto, loro ti raccontano una storia in cui c’è un personaggio che ha ragione e un personaggio che ha torto, però, nei vari substrati di motivazioni e di azioni, si va tutto un po’ per perdere. Ma sono anche contento che il contorto rappresenti l’attorcigliato perché vuol dire che ti sei molto sentito dentro la storia. Il perché? Perché, un po’ da un punto di vista autoriale, era il mio tentativo e il mio lavoro, un po’ perché loro sono personaggi contorti, non sono personaggi lineari, come tutti dovrebbero essere. Quando leggo un romanzo in cui i personaggi sono tutti quanti o positivi o negativi, questi mi annoiano, sono bidimensionali. Nella realtà, infatti, tra le persone che abitano e hanno abitato la mia vita, io non riesco a riconoscere un antagonista o una persona totalmente positiva o negativa. Ognuno di loro ha dei lati negativi e dei lati positivi, e così devono essere anche i personaggi. È giusto che creino confusione. D’altra parte va detto che, questo romanzo l’ho scritto tra i miei ventiquattro e i miei venticinque anni, quindi c’era anche una carica di confusione che appartiene a quella età. Quando abbiamo ventiquattro-venticinque anni, si è in un’età di confusione: non si è più ragazzini, non si è più adulti, il lavoro, sì, c’è, ma è sempre tutto molto complicato e saltuario… è probabile, quindi, che un pochino della mia confusione sia entrata all’interno del romanzo. La risposta ha quindi a che fare con tre fattori: volevo che i lettori si sentissero contorti; i personaggi sono contorti per mia decisione; io sono una persona contorta e confusa, soprattutto in quella età, quindi ho trasmesso consciamente e inconsciamente questo al mio romanzo.
Passo all’ultima domanda, che facciamo a tutti i nostri intervistati: quale libro, che possa essere romanzo, raccolta di poesie, saggio o altro, per te è necessario leggere oggi e che consiglieresti di leggere a un giovane lettore?
I libri necessari oggi non ce ne sono. Nessun libro è necessario e leggere in generale non è necessario. Però, per un libro da consigliare a un giovane lettore, ti dico Il Cardellino di Donna Tartt, perché ha un impianto narrativo che è una sorta di cattedrale, ed è fantastico per questo. Il Cardellino è un romanzo bellissimo su questo ragazzino che perde la madre in un attentato terroristico negli Stati Uniti e noi seguiamo la vita di questo ragazzino fino all’età adulta. È molto bello da leggere, soprattutto per noi che abbiamo questa età, molto divertente e colorato, ma nello stesso tempo struggente, che attraversa un’età fondamentale, dai tredici ai trentatré anni. Ci ho ripensato, però, sul romanzo necessario. Non è necessario, ma questo titolo è molto utile per l’interpretazione del contemporaneo: Tasmania di Paolo Giordano. Racconta questi anni in modo ben strutturato: la crisi climatica, la crisi economica, gli attentati, il vero volto dell’Occidente. È un libro molto utile per la comprensione del contemporaneo.
Ringrazio, davvero, Mattia Insolia per questa intervista e per il suo Cieli in fiamme.
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