I superflui

“I superflui” di Dante Arfelli – Critica e Recensione di Biagio Vitale

Dante Arfelli appartiene a quella schiera di scrittori, che vive tuttora nelle province d’Italia o, fa lo stesso, nelle grandi città, in cui si è soli, privati di un riconoscimento letterario. Sono uomini o donne animati dallo spirito della scrittura, forma imperfetta del mondo.

Eppure, nel 1949 – il romanziere aveva ventotto anni –, il suo primo romanzo, I superflui, vinse il Premio Venezia. Riconosciuto da Pancrazi, Palazzeschi, Arfelli riuscì a pubblicare la sua opera. Poi, scomparve. Sì, l’opera ebbe successo in Italia – il romanzo fu pubblicato da Rizzoli nel 1949, ristampato da Vallecchi nel 1954 e nel 1994 da Marsilio; comparve anche negli Stati Uniti d’America grazie alla casa editrice Scribner –, ma lo scrittore fu sopraffatto da un impeto di grazia: starsene in provincia ed elaborare la propria immagine in alfabeti, storie, fobie, riluttanze.

La scelta di Arfelli fu una forma di teppismo terroristico nei confronti del sistema letterario di allora o fu dovuta all’incapacità di stabilire un rapporto equilibrato con esso? Arfelli è come il protagonista de I superflui, Luca Ranieri, un giovane solo che si lascia vivere, incapace di scegliere perché vittima di una condizione morale, l’inutilità, che gli preclude la possibilità di manifestarsi.

  Abbandona la provincia per inoltrarsi nella capitale che non verrà mai rappresentata topograficamente. Roma appare grigia, addirittura in alcuni giorni della storia vi cade la neve. Solo in alcune sequenze la città è luminosa, soprattutto quando il protagonista è in compagnia di altri personaggi.

  Giunto a Roma, Luca si imbatte all’uscita della stazione in Lidia, una prostituta che lo accompagnerà e lo sosterrà in tutta la sua vicenda capitolina, fino alla fine. Grazie a due lettere, di un prete – don Aldo, suo compagno d’infanzia –, e di un esponente del Partito socialista, Ranieri avrà contatti con un monsignore, un commendatore, dai quali vorrà un raccomandazione: un lavoro. Ma non l’otterrà.

Sarà solo grazie a Lidia – una delle protagoniste più struggenti del Novecento italiano –, che riuscirà a lavorare, seppur per poco. Oltre ai due giovani, vi sono Luigi, un attivista che perderà la vita dopo un attentato, Albero, studente di Legge, che introdurrà Luca in un ambiente aristocratico, e Ortani, una donna anziana che ospita nel suo appartamento Lidia e il giovane Luca.

Il romanzo è costituito di due parti: la prima è incentrata sull’incontro tra Ranieri e i giovani superflui di Roma; la seconda, sull’abulia dei protagonisti. Non c’è speranza in questo libro tesissimo, dal controllo stilistico impeccabile, dai dialoghi serrati, che ricordano quelli di Hemingway; non c’è l’idea di progresso che animava le opere neorealistiche. Forse, furono la spietatezza e il coraggio del romanziere, seppur venati da un alone funereo – nel romanzo moriranno tre personaggi –, a isolare il libro e l’autore dall’ideologia dirompente del Neorealismo. Arfelli non partecipava a quella tensione morale, che fu lo spirito di quegli anni. Lo scrittore non eludeva i problemi personali e quelli della nazione: li rappresentava nel suo romanzo.

Eppure, nel libro vi sono momenti di empatia e di sacralità bellissimi. Il tempo che passa e che incombe al crepuscolo sul davanzale d’una finestra, dove è adagiato un ciclamino, non è che un riverbero di luce, seppure melanconico. Evento di rara empatia creaturale.

di Biagio Vitale

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