“Una breccia nel cinema” a cura di Angelo Breccia – Recensione della pellicola “Niente di nuovo sul fronte occidentale”
«Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora.»
Così il generalissimo Armando Diaz parlava dei “suoi” ragazzi del ’99, che erano riusciti a respingere il nemico austroungarico, non facendo passare lo straniero al prezzo di numerose perdite.
I ragazzi del ’99 che ci mostra Edward Berger, regista di “Niente di nuovo sul fronte Occidentale”, non sono poi così diversi da quelli nostrani, fatto salvo il dettaglio che indossino una divisa di un altro colore. Si arruolano ebbri di passione patriottica e propaganda, sognando un eroico ritorno da vincitori che gli garantisca la riconoscenza di un intero popolo.
Cantano allegri di guerra e amori, completamente ignari di ciò che li attende sul fronte.
Protagonista è Paul, diciassettenne tedesco che pur di partire per la Francia fa quello che una volta nella vita abbiamo fatto tutti: falsifica la firma dei genitori, necessaria per l’arruolamento dei minori.
Diretti verso il conflitto, Paul e i suoi amici si accorgono però ben presto dell’errore di valutazione commesso: la guerra non è il gioco da adulti che si erano immaginati e la narrazione proposta in patria dal potere imperiale è molto diversa dalla realtà.
La trincea è un vero e proprio carnaio e la maggior parte delle reclute non passa la prima giornata, falcidiata dall’artiglieria e dalle mitragliatrici francesi.
Fin dalle sequenze di apertura del film lo spettatore prende coscienza di quale sia il ruolo e il destino della fanteria in questa terribile guerra di posizione: carne da macello da dare in pasto al fuoco nemico per poi marcire putrescente nella terra di nessuno.
L’unico obiettivo del nostro eroe diventa dunque riuscire a portare a casa la pelle, o quantomeno salvarla il più a lungo possibile.
Trasposizione cinematografica del romanzo di Erich Maria Remarque, l’opera di Berger si inserisce nel filone dei kolossal di guerra con la prepotenza di un instant classic.
Il film, pur non osando particolarmente sul piano tecnico a differenza di alcuni suoi predecessori (pensiamo all’utilizzo del piano sequenza in “1917” di Sam Mendes), si contraddistingue per un ordine formale visivo e una resa tecnica del conflitto bellico fuori dal comune. Gli effetti speciali e la scenografia, non a caso premiata dall’Academy, sono senza dubbio degni delle migliori produzioni hollywoodiane.
Vero punto di forza è però il sonoro, capace di scaraventare lo spettatore in mezzo al campo di battaglia tra violente esplosioni e proiettili fischianti.
Oltre ai rumori di scena, ruolo centrale è svolto dalla colonna sonora, composta da Volker Bertelmann: un incessante e inquietante incedere di strumenti a fiato che fa da oscura Cassandra premonitrice lungo tutto l’arco narrativo.
I teucri-teutonici, però, non possono ascoltare il presagio di morte sommessamente mormorato dalla colonna sonora, condannati come sono a compiere il proprio destino.
E forse proprio nell’ineluttabilità del destino, o meglio nella sua resa scenica, risiede l’unica debolezza del film: il morente potere costituito che, ribellandosi a se stesso, da un ultimo e crudele colpo di coda appare sinceramente un espediente gratuito, non all’altezza del resto della narrazione. In fondo, però, è un neo che si può facilmente perdonare.
«Tutto qui è come la febbre: nessuno la vuole ma all’improvviso eccola.»
La guerra come una malattia che arriva senza preavviso, debilitante, mortale.
Questa è la guerra mostrata dal regista tedesco: sporca, sanguinosa, insensata.
Nel ventre brulicante della trincea si perdono ben presto le coordinate di giustizia e morale, tutto diventa terribile quotidianità che indurisce gli spiriti dei soldati che sopravvivono.
Anche nell’ipotesi in cui riuscissero a scampare al nemico, infatti, nulla per loro sarebbe più come prima; sarebbero condannati a vivere camminando «come viaggiatori in un villaggio del passato», ormai estranei al mondo e alla contemporaneità.
A tornare dal fronte, ci racconta la storia, furono però purtroppo in pochissimi: una generazione quasi completamente sacrificata sull’altare della bieca politica, peraltro incapace di raggiungere i propri obiettivi. Il fronte occidentale, infatti, si mosse solo di qualche chilometro lungo tutto l’arco del conflitto.
Un epilogo beffardo, costato soltanto più di due milioni e mezzo di vite.
Recensione a cura di Angelo Breccia che cura per L’Incendiario la rubrica dedicata al cinema Una breccia nel cinema