“Credo che in ciascuno di noi vi siano anime diverse”. Intervista a Edoardo Albinati
Edoardo Albinati ha scritto romanzi, racconti, poesie, pamphlet, articoli, sceneggiature. Tra i suoi libri “Orti di guerra” (Fazi, 1997), “Maggio selvaggio” (Mondadori, 1999), “Sintassi italiana” (Guanda, 2002), “Svenimenti” (Einaudi, 2004), “Tuttalpiù muoio” (Fandango, 2006), “Vita e morte di un ingegnere” (Mondadori, 2012), “La scuola cattolica” (Rizzoli, 2016), vincitore del LXX Premio Strega, “Un adulterio” (Rizzoli, 2017), “Cuori fanatici” (Rizzoli, 2019), “Desideri deviati” (Rizzoli, 2020), “La tua bocca è la mia religione” (Guanda, 2022), “Uscire dal mondo” (Rizzoli, 2022).
Il 15 aprile 2023, Biagio Vitale l’ha intervistato a Itri per L’Incendiario, in occasione della presentazione del suo ultimo libro, “Uscire dal mondo”, evento promosso dall’Associazione culturale “Confronti”.

Un’opera letteraria è il frutto di letture, desideri, ossessioni, folgorazioni figurative – penso alle opere d’arte, al cinema. Nella sua produzione letteraria così variegata (romanzi, racconti, poesie, pamphlet, articoli) c’è un’idea – forza (utilizzo un’espressione di Dostoevskij), che è presente in alcuni suoi libri: la memoria storica e quella personale. Non solo. Penso al sesso, all’adolescenza. Sono per lei espedienti narrativi oppure ossessioni da esplorare?
Non sono espedienti, anche perché io non sono uno scrittore di genere. Sicuramente ossessioni, perché credo che tutti gli scrittori – non soltanto io – finiscono dentro un gorgo, nelle proprie paranoie, nelle proprie aspirazioni. La parola desiderio, che ha elencato, forse soprattutto quello: cercare di esplorare quello che ti appassiona e nel tempo stesso ti ossessiona: ciò che ti piace di più e ciò che ti fa più male.

Un romanzo esplora possibilità umane inaspettate. Forse per questo motivo i lettori ne sono incantati: consapevoli o meno dell’illusione della realtà, i lettori seguono le vite degli altri. Proust scrisse che la lettura fa apprezzare la vita. Lei cosa cerca in un romanzo, o meglio cosa si aspetta dalla lettura d’un romanzo?
Mi aspetto l’imprevedibile e l’inconfessabile, ciò che normalmente non si dice. Infatti, non è un caso che quello che non si dice si scrive; e mi aspetto soprattutto di non capire subito davanti a quale libro mi trovo o quale scrittore l’ha scritto. Invece, al contrario, se lo scrittore è molto riconoscibile e il libro posso già immaginare già come sia costruito, come è fatto, cosa mi racconterà, lo stile in cui lo racconterà, allora mi annoio e lo mollo. Quindi l’esser sorpreso, prima di tutto.

I personaggi dei suoi libri non sono mai statici, blocchi monolitici, come in alcune narrazioni contemporanee, ma complessi come le persone della vita reale. Al riguardo, mi viene in mente Bassani, il quale in un’intervista disse che “l’io è ineffabile”. Lei prende appunti prima di scrivere un romanzo?
Io di solito prendo appunti, che sono già dei pezzi di romanzo, cioè scrivo delle scene, dei dialoghi che poi, se sono riusciti e se entrano dentro un libro, allora li lascio altrimenti li butto. Ho quaderni interi di cose non utilizzate, però non faccio mai la scaletta della storia. Quindi i miei appunti vorrebbero già essere letteratura. “L’io è ineffabile” di Bassani: l’io è fatto di molte cose diverse, per questo i miei personaggi non sono monolitici, perché in realtà credo che in ciascuno di noi vi siano anime diverse, persone diverse. Adesso c’è un grande culto dell’identità: sii te stesso. Ma in realtà questo te stesso è formato da varie persone, alcune delle quali noi non conosciamo, cioè ci sono parti di noi stessi che ci restano ignote. Quindi i personaggi di un romanzo scoprono strada facendo – lo scopriamo noi, lo scopro io scrivendolo, lo scoprono i lettori leggendolo e anche loro scoprono se stessi.

Nell’ultimo suo libro, “Uscire dal mondo”, lei esplora alcune categorie esistenziali, quali la solitudine, l’esclusione, la malattia, nutrendosi, secondo me, di suggestioni letterarie e religiose. Penso a Flaubert – la prof.ssa di matematica nel I racconto secondo me è lei; il farmacista nel II racconto ricorda quello di “Madame Bovary”. Il I racconto è costruito come una sorta di prisma, con varie simmetrie. Com’è nata quest’opera?
Tutto il libro è nato molto spontaneamente e casualmente, nel senso che ogni tanto mi accade di scrivere dei racconti. In questo caso, questi racconti avevano superato la misura classica delle dieci, quindici, venti pagine ed erano diventati dei racconti lunghi, delle novelle – io così le chiamo –, e solo a posteriori mi sono accorto che avevano questo tema comune, che era appunto il tema dell’isolamento: isolamento imposto, come nel caso del I e del II racconto; l’isolamento desiderato, nell’ultimo racconto. Sono molto diversi tra loro. Li ho scritti in modi e tempi diversi, però sempre partendo dai personaggi. Nel I racconto avevo in mente questo ragazzo detenuto e gli altri personaggi si sono uniti a lui man mano. Tra l’altro, ho scoperto che tutti questi, non solo il ragazzo detenuto, soffrono in qualche misura di forme di isolamento: la professoressa di matematica, la guardia carceraria, la persona transessuale, che sono i 4 cavalieri di questo racconto, i quali hanno vissuto e vivono delle forme di esclusione. Il secondo è un racconto più strutturato, con più drammaturgia. I personaggi, diciamo così, mi hanno preso la mano: i personaggi che man mano collocavo intorno a quello che avrebbe dovuto essere la protagonista assoluta, cioè la ragazza malata, la figlia strana appunto, hanno avuto il sopravvento. E alla fine ha preso sempre più importanza la figura del prete e per controbilanciare il prete ho tirato fuori il farmacista. Io procedo un po’ così. Siccome un racconto, un romanzo sono fatti essenzialmente di incroci di persone e di storie, allora ecco che se un personaggio s’imbatte in un altro, questo nuovo personaggio può diventare il protagonista.
Lei insegna da tanti anni nel carcere di Rebibbia. Secondo lei, cosa accomuna i ragazzi detenuti e quelli paradossalmente liberi?
Io quelli liberi non li conosco più, perché non insegno più nella scuola normale da ormai quasi trenta anni. Poi, i miei figli sono cresciuti e non so come siano. Io avrei timore a insegnare a loro, perché secondo me insegnare in una scuola normale oggi ci vuole maggiore coraggio nell’affrontare degli adolescenti di oggi, tenendo conto anche del fatto che insegnare in galera ha dei vantaggi – lo dico, sembrerà cinismo, ma insomma è proprio cinismo: non ci sono le famiglie, che sono la grande piaga della scuola italiana, non ci sono i cellulari. Sei tu con i tuoi studenti.

Qual è il suo metodo di lavoro? È come Moravia, che si svegliava la mattina e lavorava fino alle 12:00 oppure si affida a momenti di tranquillità?
Io non ho nessun metodo, non ho orari, non ho protocolli o cerimonie particolari per scrivere. Scrivo quando ho tempo o le forze. Per me è solo una questione di energia, quindi tendenzialmente quando ho il tempo e la forza io, ovunque mi trovi e su supporti diversi, scrivo a mano, su computer, talvolta registro delle cose che mi vengono in mente. Poi c’è un lavoro di collazione, di prendere tutti questi materiali così disparati e scritti in momenti disparati e unirli. Allora lì diventa un lavoro alla Moravia. Venendo qui, ho scritto una mezz’oretta. Il treno è rapidissimo: è Roma – Formia. Da Latina in poi, ho buttato giù le poche righe, che si riescono a scrivere, che non erano previste, però mi era venuto in mente una cosa e l’ho buttata giù.

Trovo alcuni aspetti in comune tra lei e Pasolini: la mitezza e la sensualità.
Io ho gli occhiali di Pasolini, che mi furono regalati da Enzo Siciliano, cioè ho la sua montatura, poi io ho fatto mettere le sue lenti. Non sono mite. Io di Pasolini invidio – ho parlato prima di forza, di energie – la sua enorme, apparentemente inesauribile energia, che lo ha infatti portato in campi diversi. La stessa energia, perché gli esseri umani attingono alle medesime risorse, era anche un’energia erotica o forse era anche un’energia erotica, che si esprimeva nel suo caso anche nello scrivere e nello girare i film. Che Eros sia a muoverci, questo non c’è dubbio.
Quali libri consiglierebbe a una ragazza o un ragazzo?
Posso consigliare quelli che ho letto io durante l’adolescenza, quindi i grandi romanzi di avventura, i classici che sono inesauribili. È vero che leggere troppo presto i grandi libri è difficile. Faccio un esempio, “Anna Karenina”: io la prima volta che lo lessi avevo ventidue anni; mi piacque ma non capivo quale fosse il problema: il matrimonio, l’adulterio, mi sfuggivano. Quando poi l’ho riletto dieci anni dopo, ho capito anche di cosa parlasse, però forse credo che non sia necessario, anzi forse sarebbe una pretesa piuttosto arrogante, voler capire tutto di un libro. Il mio consiglio sarebbe non tanto quali libri leggere, ma leggerli sportivamente, avventurosamente, non studiarli, né pretendere di possederli, perché non è possibile.
Intervista a cura di Biagio Vitale
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