La scala

La scala si stagliava ampia e robusta nel paesaggio desolato della prateria. Da anni ormai, gli abitanti del paese vicino si erano abituati al panorama deturpato dell’imponente architettura. Quando, un trentennio prima, l’idea era stata paventata, nessuno credeva che il progetto sarebbe stato portato a termine. Tutti nella zona ridevano di gusto ogni qual volta si parlava di una scala che sarebbe giunta fino in cielo, ma poi il primo scalino aveva preso forma e la sera stessa l’architetto aveva stappato una bottiglia di champagne pregiata. Nei mesi, le impalcature erano diventate sempre più alte, gli operai ci mettevano sempre più tempo a raggiungere il posto di lavoro e gli scettici diminuivano. Le risate che un tempo risuonavano per le vie del paese, accompagnate da commenti beffardi, avevano cessato di essere udite. 
L’avvicendarsi delle stagioni, col suo ciclo sempre uguale, aveva distorto la percezione dello scorrere del tempo, e, in un battito di ciglia, tre decenni erano trascorsi. Molti di coloro che avevano assistito alla costruzione del primo scalino erano morti prima di poter ammirare gli operai levigare gli angoli spigolosi dell’ultimo; viceversa, molti giovani del paese non avevano l’età per ricordare il paesaggio circostante senza l’ingombro della scala a testimoniare, più di tutte le altre costruzioni, la presenza umana e la sua ambizione. Generazioni di individui si sovrapponevano ogni volta che qualcuno posava lo sguardo sulla costruzione. Per buona sorte dei defunti, a nessuno fu possibile conoscere il momento esatto in cui il lavoro potè considerarsi concluso. Un giorno, infatti, si videro scendere per l’ultima volta gli operai (ormai i turni duravano una settimana, tanto era il tempo che ci voleva a percorrere da cima a fondo la scala, nonostante la presenza di apposite carrucole) con tutta l’attrezzatura. La notte stessa vennero smontate le transenne che circondavano il cantiere, la cui estensione occupava alcune centinaia di metri, e la mattina successiva tutto appariva come se mai nessuno avesse poggiato un piede su quel suolo. Ogni traccia di trent’anni di attività era svanita, allo stesso modo con cui un’orma viene cancellata dall’onda che scorre sulla battigia. 
Col procedere dei lavori, l’altezza della scala era aumentata a dismisura e, dopo nemmeno dieci anni dall’apertura del cantiere, nessuno era più in grado di vedere dove l’opera terminasse. Anche i binocoli risultavano ormai inutili. I curiosi che dagli aeroplani, quando sorvolavano la zona, cercavano di spiare quanto accadesse a quell’altezza, rimanevano frustrati dalla presenza di barriere esterne, necessarie per nascondere ogni tentativo di sbirciare e, soprattutto, a scongiurare il rischio che l’idea potesse essere copiata. Il progetto, infatti, era rimasto segreto anche sul piano dell’informazione pubblica: nessuna notizia circa tempistiche, entità o scopo dell’opera era mai trapelata. Anche i tentativi dagli aeroplani cessarono, tanto era aumentata l’altezza della scala. 
Nel paese, com’è abitudine, si vociferava senza alcuna prova di ciò che veniva sostenuto, avanzando ipotesi sul ruolo di quella scala costruita nel mezzo di uno spoglio paesaggio campestre. La libertà di poter supporre, dando pieno sfogo alla fantasia, è un’occasione troppo ghiotta per gli uomini, che mai si tirano indietro se non possono essere smentiti. La popolazione, tuttavia, era destinata a rimanere insoddisfatta anche a lavori conclusi, poiché la scala rimase abbandonata per giorni, senza che nessuno avesse fornito indicazioni o notizie riguardanti non solo la funzione su cui tanto si era speculato, ma anche l’accessibilità e le norme che l’utilizzo avrebbe richiesto. Il sindaco taceva, gli organi deputati alle informazioni erano latitanti e ogni apparato burocratico, che veniva gestito da cittadini comuni – funzionari, certo, ma pur sempre cittadini – era disorientato. La curiosità fermentava, così come le richieste di chiarimenti. Dopo decenni, era tornato lo sghignazzare beffardo delle voci maligne in tutte le strade del paese, tinto, questa volta, di note polemiche. La delusione innesca sempre meccanismi del genere, ma è raro che le masse, abbandonate dai loro rappresentanti, o senza figure carismatiche, sappiano organizzarsi in maniera efficace, e di figure carismatiche, lì, non ce n’erano mai state. 
Nessuno, benché mancasse qualsiasi forma di impedimento, osava avvicinarsi alla scala, per timore reverenziale nei confronti dell’opera colossale e per smarrimento. I più audaci avevano percorso il vecchio perimetro del cantiere senza procedere un passo oltre, mentre quasi nessuno usciva dal paese dirigendosi verso la zona est, dalla quale si raggiungeva il terreno in cui sorgeva la scala. 
Un giorno, Michele Ventola decise di osservarla col binocolo per ammirarne la struttura, magnifica ai suoi occhi, dalla distanza minima che fino a quel momento era stata tacitamente concordata dai paesani. Attraverso le lenti riusciva a meravigliarsi ancor di più per ciò che vedeva, e guardò finché la risoluzione gli parve sufficiente per distinguere l’uno dall’altro i gradini. Muovendo dal basso all’alto, e viceversa, poteva godere della levigatezza e della regolarità di ogni aspetto. Alla quarta volta che il binocolo si abbassava verso il suolo, Michele Ventola notò un paletto di legno incastonato nel terreno, sul quale era stato inchiodato un rettangolo, anch’esso di legno, e, attaccato sopra, un foglio bianco. Gli fu impossibile intuire la scritta, la cui presenza poteva essere intuita. Non era il solo a trovarsi sul limite perimetrale del vecchio cantiere: insieme a lui, sparsi a centinaia di metri di distanza, almeno altre venti persone erano in piedi a fissare lo sguardo sulla scala. 
Quando urlò, con qualche secondo di esitazione tra la scoperta e la reale presa di coscienza, comunicando agli astanti quanto visto, chi aveva con sé un binocolo lo indirizzò senza indugio verso il punto indicato; gli altri, invece, dovettero mettersi in fila per chiederne uno in prestito. A mano a mano che la notizia si diffondeva intorno al vecchio cantiere, aumentarono gli sguardi, diretti tutti verso il medesimo oggetto. La campagna cominciò a gremirsi di persone accorse in seguito al passaparola. Tutti erano curiosi di verificare se per una volta le voci di paese avevano detto il vero. La diceria è figlia della menzogna e di solito la si prende per buona, ma in quel caso nessuno volle abbandonare il proprio sapere a resoconti altrui, senza soddisfare la necessità di verificare in prima persona l’attendibilità delle voci.
In poche ore, tutto il paese, esclusi gli infermi e i costretti a letto, si riversò nella campagna; il perimetro era sufficiente affinché ognuno potesse, in un modo o nell’altro, allungare lo sguardo nella direzione desiderata. Tuttavia, nessuno aveva ancora superato il confine, forse perché, da trent’anni, nessun piede che non appartenesse agli addetti ai lavori aveva posato il proprio passo su quel terreno, che di conseguenza era diventato un luogo sacro e inviolabile. Le discussioni cominciarono ad aumentare e l’urgenza di sapere – si trattava di percorrere alcune centinaia di metri per scoprire il contenuto della scritta – scaldò gli animi. Michele Ventola, il primo ad accorgersi di ciò che in quel momento aveva risvegliato lo spirito dei concittadini, prese parola e si disse deciso ad andare per primo a leggere la scritta presente sul pezzo di legno. 
Una volta finito di comunicare la propria decisione alla folla (forse qualcuno di carismatico esisteva in quel paese!), si voltò e, nel silenzio trepidante fissò la riga immaginaria che ormai tutti avevano ben presente. Il segmento lungo il quale, anni addietro, i paesani si erano accalcati con curiosità, era diventato un’inibizione, limitante quanto le Colonne d’Ercole per gli antichi. La sicurezza che Michele Ventola aveva dimostrato in precedenza vacillò non appena ebbe tentato di muovere in avanti il piede destro, con uno scatto impercettibile, subito arrestato. Gli sguardi fissi degli astanti accompagnavano il silenzio, manifestando l’angoscia collettiva di fronte all’attesa del gesto, a quel punto, sacrilego. Un sussulto, tuttavia, scosse la massa dei paesani quando, in un secondo tentativo, Michele Ventola alzò il piede dal suolo con decisione, riportandolo subito nella posizione iniziale. La delusione si manifestò con un sospiro unico, come se la tensione fosse stata scaricata tutta in una volta senza che l’evento desiderato e temuto fosse accaduto. 
Michele Ventola pensò che mai nella sua vita si era sentito intimidito a tal punto: l’impedimento nel muoversi sembrava provenire da un’autorità invisibile. La spavalderia iniziale lo aveva abbandonato, ma sentiva di dover agire per non screditare sé stesso agli occhi dei concittadini, la loro malignità lo avrebbe reso uno zimbello per il resto dei suoi giorni. Prese un respiro. Sentì la fame d’aria impedirgli di aprire del tutto i polmoni; il peso di migliaia di occhi gli era addosso, gravandogli sul petto e sulla testa. Ruppe comunque l’esitazione, alzando con cautela il piede, portando in alto il ginocchio per distenderlo in avanti. Allungò il passo in maniera eccessiva, tenendosi in equilibrio con lo sforzo dell’altra gamba che tremava per l’agitazione. Il piede alzato si mosse per affondare il passo nel suolo antistante. Il tremore della gamba poggiata si tramutò in cedimento e, mentre l’altro piede scendeva, Michele Ventola si sbilanciò e cadde a terra con un tonfo sordo. Senza controllare se si fosse fatto male, si alzò in piedi con la rapidità di un gatto, scrollandosi di dosso la polvere e le foglioline attaccate ai vestiti. Infine, si voltò verso la folla che iniziò ad applaudire e a varcare, con titubanza, ma incoraggiata dal suo gesto (ce l’aveva fatta!), il confine proibito. 
Piovvero i complimenti e pacche sulla spalla, ma, nonostante ciò, impiego diversi istanti per rendersi conto dell’accaduto. Era bastato inciampare in maniera goffa per attenuare tutte le congetture da decenni cristallizzate nella mente dei paesani timorati. La paura dell’ignoto è da sempre un fattore di manipolazione, tuttavia, quando gli uomini impongono a se stessi dei limiti laddove nessun altro ha stabilito una legge, il disinganno e la liberazione risultano più ardui da conseguire. Così era stato in quella situazione, infatti, benché fosse stato dimostrato che nulla sarebbe scaturito dallo sconfinamento, ancora si avanzava con andamento incerto, come se da un momento all’altro una mina sepolta potesse far esplodere tutti. 
A dispetto del passo da processione, in meno di un’ora la folla era giunta alla base della scala, ancor più imponente una volta avvicinata. La larghezza misurava almeno dieci volte un corpo umano medio sdraiato, mentre ogni scalino era alto oltre un piede. I paesani, compreso Michele Ventola, si disposero in massa intorno al cartello. Gli ultimi arrivati, in fondo alla coda, tentavano di allungare il collo per intravedere qualche parola. Ogni tentativo fu vano, come lo furono quelli di chi si trovava in prima linea come Michele Ventola: il foglio, che da lontano sembrava presentare dei segni, era in realtà bianco.
La perplessità era più che comprensibile. Che fossero solo ombre, quelle intuite da lontano? Voleva dire che tutta la fatica, l’angoscia e la curiosità avevano condotto una popolazione intera davanti ad un vuoto privo di significato? Il mugugnare dei paesani si univa in un’unica grande voce indistinta, un brusio irritato e colmo di delusione. Dopo trent’anni ci si aspettava ben altro: istruzioni, spiegazioni approfondite sullo scopo della scala o anche dei riferimenti di qualsiasi tipo. Nulla di tutto questo, solo un cartello bianco lasciato lì, all’inizio della scala. I lavoratori volevano schernirli?
Intanto, non era diminuito il brusio e in molti, spazientiti da quella che era sembrata una presa in giro bella e buona, si erano già ritirati dalla zona, per dirigersi alle abitazioni. Si discusse, tra i paesani rimasti, sul da farsi: chi optava per lasciare che la scala rimanesse lì, senza indagare ancora sulla sua presenza; chi, invece, sosteneva che fosse necessario partire subito all’avventura, cominciando all’istante la salita; chi, in maniera più accorta, suggerì di affrontare con dovuta cautela la questione, tornando per il momento a casa. Una volta lì, chiunque avesse desiderato cimentarsi nella sfida, che sembrava essere considerata meno impegnativa di quanto non si dovesse pensare, avrebbe preparato le provviste e il necessario per un viaggio lungo, senza dubbi, più di qualche ora. Il senno prevalse sulla smania di saziare subito la propria curiosità e il paese, nel giro di nemmeno un’ora, tornò a popolarsi.
Il desiderio di conoscenza assediò la mente di Michele Ventola per tutta la notte e, benché fosse stato tra gli assennati ad aver proposto di attendere, a malapena riuscì a dormire. Nel sonno, immagini movimentate ne avevano turbato il riposo. 
Era da poco passata l’alba, quando Michele Ventola schiuse gli occhi al giorno, con le palpebre ancora incollate tra loro. Ci mise poco ad attivarsi. Non appena le gambe si riscossero dal torpore notturno, si tolse di dosso la coperta in cui era avvolto e si alzò con piglio vivace, dirigendosi verso la cucina per preparare le provviste. “Dovranno bastare almeno per una settimana”, aveva pensato la notte. Non era in grado di quantificare i giorni che avrebbe impiegato, se mai fosse riuscito a percorrere per intero la scala, ma non poteva nemmeno appesantire in maniera eccessiva lo zaino, tenendo conto della presenza ingombrante del sacco a pelo, legato tramite un laccio. 
Barba rasata in fretta e furia, doccia fatta in men che non si dica e vestiti sportivi indossati in pochi istanti, calzando le scarpe senza nemmeno slacciarle prima. Alla sua mente non tornava un ricordo degli ultimi anni che potesse pareggiare l’entusiasmo di quel momento. Uscì di casa, nascose le chiavi sotto lo zerbino e, a passo svelto, si diresse verso la macchina. Col motore che emetteva borbottii, partì spedito verso la campagna, intenzionato a parcheggiare il più vicino possibile alla scala. Non fece in tempo a imboccare la strada sterrata, che vide una fila interminabile di automobili incolonnate fin dove compariva un ampio parcheggio improvvisato, all’interno del vecchio perimetro del cantiere. Imprecando tra sé e sé a ripetizione, giunse là dove sostava un numero inimmaginabile di vetture. La voce doveva essersi sparsa nei paesi limitrofi. 
Michele Ventola riuscì a parcheggiare a una distanza ragionevole dalla scala. Scendendo dalla macchina, potè notare la fila di persone, più o meno credibili nel loro intento, che si appressava alla base. Come per il traffico incontrato in precedenza, ebbe l’impressione che gli ci sarebbero volute ore soltanto per mettere il piede sul primo scalino. L’eccitazione suscitata dall’immagine di sé che, un passo alla volta, percorre per intero la costruzione, lo rendeva meno irascibile di fronte alla massa di avventori improbabili presenti quella mattina. Senza dubbio, tutti avrebbero ceduto dopo pochi scalini: anziani, bambini e individui che ispiravano poca fiducia nella buona riuscita. D’altronde, chi vietava loro di tentare, anche solo per mettersi alla prova, la scalata? Certo, il fastidio che Michele Ventola provava non era da biasimare. 
Mentre la fila scorreva con velocità maggiore del previsto, e sul lato interno molti cominciavano e proseguivano la salita, si vedeva una gran quantità di persone compiere il percorso inverso, sul lato esterno, e desistere. Parlare di delusione nei loro volti servirebbe solo a presentarli come dei poveri stolti, poiché mai si erano illusi di riuscire. Per molti, quello fu un modo come un altro per trascorrere una giornata diversa dal solito, anche perché, in occasione della scoperta, i negozi e le attività avevano deciso all’unisono non aprire per una giornata intera.
Alla fine, con più persone già scese o in procinto di tornare a terra che in salita, Michele Ventola arrivò alla base della scala. Un brivido d’eccitazione lo percorse, e non attese un istante oltre, alzando il piede che il giorno prima lo aveva tradito per issarsi sul primo scalino, pochi secondi dopo chi lo aveva preceduto, ma non prima di aver dato un’occhiata ulteriore al cartello. Si domandò ancora se e cosa si celasse dietro al foglio bianco. La curiosità gli rimase per un po’ nella testa e spesso si trovò a rimuginarvi sopra, ma in quel momento nulla poteva farlo indugiare. Percorrere i primi scalini fu un’esperienza interessante, poiché la salita graduale gli permetteva, un passo alla volta, di allargare il proprio sguardo su un orizzonte sempre più ampio e la vista, fin dove le capacità lo permettevano, lo metteva davanti ad una nuova prospettiva. 
La costanza del suo ritmo venne agevolata dal progressivo rinunciare di chi lo precedeva. La fila di coloro che invertivano la rotta si ingrandiva sempre di più, mentre sul lato di Michele Ventola il traffico si riduceva in maniera esponenziale. Contava ogni scalino percorso, senza distogliere l’attenzione, neppure quando si concedeva brevi pause per ammirare lo spazio circostante, sempre più sterminato. Tenendo in conto che la partenza era avvenuta a mattinata inoltrata, e che le giornate erano ancora brevi, al crepuscolo aveva percorso millecinquecentocentosei scalini. Proseguire col buio non era un’idea da escludere, ma le gambe necessitavano di riposo. Il giorno dopo avrebbe di certo compiuto un percorso maggiore. Quando venne sera, Michele Ventola si sedette e aprì lo zaino ricolmo di provviste incastrate senza il minimo spazio tra di loro. Divorò il pasto con avidità, come se da mesi non toccasse cibo. A quell’altezza, la maggioranza degli avventurieri aveva già ceduto e, in quel momento, si trovava a casa davanti ad un piatto caldo. A lui importava ben poco, il desiderio di sapere non dava spazio a quei ragionamenti, e preferiva di gran lunga starsene solo (chissà perché, gli altri scalatori si guardavano bene dal cercare compagnia), seduto su uno scalino a digerire, mentre ammirava la campagna appena tratteggiata dalla luce fioca della luna crescente e dai lampioni – lo spazio tra l’uno e l’altro era abbondante – sparsi qua e là lungo le strade. Forse, in quei giorni, avrebbe avuto la fortuna di ammirare più da vicino del solito la luna piena. Alimentava nella sua mente queste speranze, quando, immerso nella riflessione, si accorse che le palpebre cominciavano ad unirsi. Si riscosse, srotolò il sacco a pelo e vi si infilò. Il torpore divenne subito sonno e, in pochissimi minuti, lo trasportò oltre il limite del nostro mondo. 
Al mattino, si svegliò con la prima luce dell’alba riflessa sul volto e una brezza fredda che spirava accarezzandone i punti meno coperti. Aprì subito gli occhi, mentre il resto del corpo fece più fatica a ridestarsi. Con cautela, ancora assonnato, cominciò a sfilarsi dal sacco a pelo, col desiderio di ricominciare al più presto la scalata. Tuttavia, poiché i muscoli rispondevano con minore enfasi, scelse di non affrettare i tempi. Un paio di persone gli sfilarono accanto: la prima, una donna anziana all’apparenza, che procedeva con passo spedito e curava molto la respirazione, adattandola al ritmo dei passi; il secondo, meno atletico, più corpulento e molto alto, con due baffi neri macchiati da qualche sfumatura grigio-bianca e un’ampia stempiatura mal celata da un ciuffo di riporto. La sua salita era più incerta rispetto a quella della signora, ma costante. Michele Ventola ebbe modo di osservarlo con attenzione, mentre ancora non riusciva a mettersi in piedi.
«Prendi fiato, ragazzo», disse con tono secco, mentre gli passava davanti.
«Cosa?»
«Ho detto, prendi fiato».
Michele Ventola rimase interdetto: non capiva cosa intendesse dire con quelle parole. L’uomo baffuto, con tutta la sua carne, proseguì senza voltarsi, a ritmo blando, ma cadenzato. 
Mentre lo vedeva salire inesorabile e sgraziato, rimuginava dentro di sé alla ricerca di un significato da attribuire alle frasi appena ascoltate. Che fosse un semplice consiglio per una resa migliore era plausibile, ma la spiegazione più ovvia, come spesso accade, non lo soddisfaceva. 
A giudicare dall’intensità con cui il sole lo colpiva, doveva essere passata più di un’ora dal momento in cui si era svegliato e, tuttavia, ancora non riusciva a destarsi del tutto. Alla fine, seccato, raccolse le forze e si mise in piedi, dopo aver consumato una colazione frugale per non appesantirsi, data la debolezza che già lo rallentava. Gli passarono a fianco altre tre persone. 
Decise di iniziare con ponderazione, senza tenere il ritmo del giorno prima. Quando si fermò per pranzare, sempre regolando gli orari in base al movimento del sole – e al brontolio dello stomaco – aveva percorso milleventotto scalini. A fine giornata, invece, ne aveva aggiunti soltanto settecentosessantadue, benché il tempo impiegato fosse all’incirca lo stesso della mattina. Il totale dei due giorni ammontava a tremiladuecentonovantasei scalini. Sin da subito, dopo pranzo, mentre riposava e vedeva ancora un buon numero di persone scendere e ben poche salire, si era sentito di nuovo fiacco. La camminata non era fluida come in precedenza, ma Michele Ventola attribuì il tutto alla stanchezza. Doveva trovarsi già in alto, non poteva dirsi insoddisfatto. Quanto era lunga quella scala? Ma soprattutto, dove arrivava? 
Anche quella notte rimase estasiato dalle curve che la luna conferiva al paesaggio con la sua luce, ma, prima che potesse rendersene conto, si era addormentato appoggiato ad un braccio, col corpo allungato su tre scalini differenti. Una ventata di freddo lo ridestò e, ancora mezzo assonnato, si infilò nel sacco a pelo. Il sonno fu profondo e tormentato. La mattina si sentì spossato e, ancora una volta, attribuì allo sforzo dei giorni prima la ragione della sua fiacca. In più, anche diverso tempo dopo il risveglio, sentiva una pressione sul capo fino ad allora sconosciuta, che invece credette dovuta all’aria più rarefatta. Dovette sforzarsi per cominciare il cammino, non sentiva davvero le forze sostenerlo. Alla fine della giornata, aveva percorso millecinquecentotrentatrè scalini, giungendo agli ultimi sfiancato. Ormai era raro incontrare altre persone e, se succedeva, si trattava quasi sempre di rinunciatari. 
La notte fu inquieta e, a differenza delle precedenti, si svegliò ripetutamente. L’ultima volta serrò gli occhi quando già il buio cominciava a cedere terreno ai lontani riflessi del sole, che da terre straniere annunciava il proprio ritorno, proiettandosi sulle nuvole. Sognò l’uomo corpulento e baffuto del giorno prima. Michele Ventola era sdraiato nel suo sacco a pelo, mentre si sentiva in preda ad uno sfinimento molto maggiore di quello provato le mattine precedenti. Inspirando, percepiva un blocco nei polmoni che faceva entrare a malapena lo stretto necessario per sopravvivere, ma non per compiere movimenti o poter emettere suoni che andassero oltre il rantolo. Benché nulla lo tenesse legato, era costretto a rimanere immobile, se voleva conservare fiato, nella claustrofobia indotta dal giaciglio. Giunse l’uomo, che lo fissò mentre agonizzava, in silenzio, dall’alto della sua statura. Visto da terra, sembrava ancora più enorme. Lo sguardo, reso torvo dalla posizione dominante, si accompagnava in maniera inquietante ai baffi scuri e alle sopracciglia altrettanto spesse e nere. Michele Ventola non riusciva ad invocare aiuto, e l’uomo gli posava davanti senza il cenno di un movimento. Non si sentiva di morire, ma nemmeno di vivere, era soltanto un verme sdraiato che vacilla tra le due, senza che la situazione migliorasse o peggiorasse. Se fosse morto, almeno, avrebbe alleviato la propria sofferenza. L’unica azione possibile fu quella di muovere gli occhi e le sopracciglia, rivolgendo uno sguardo supplice all’uomo che, tuttavia, non sembrò reagire. Dopo qualche istante (un’eternità nei tempi onirici), Michele Ventola lo vide piegarsi in avanti, imperturbabile, sporgendo il capo come per venirgli incontro. Ancora agonizzante, con le tempie che martellavano e col senso d’angoscia crescente che lo cingeva d’assedio in ogni parte del corpo, cercò di farglisi incontro a sua volta, invano. Vide i baffi dell’uomo scuotersi in un tremore appena accennato, che solo la sua disperazione potè cogliere. Le labbra si schiusero a stento – poteva sentire le corde vocali che si preparavano a tremare – e pronunciò poche parole, con un sibilo reso fioco dall’ovattamento, le stesse del primo incontro:
«Prendi fiato, ragazzo», fece una pausa e riprese «ho detto, prendi fiato», disse incombendo su di lui.
Michele Ventola si svegliò di soprassalto, scattando in alto e tirando fuori la parte superiore del corpo dal sacco a pelo. Il cuore sembrava battere in ogni parte del corpo, come se fosse stato dislocato nel collo, nelle tempie, nelle braccia e nelle gambe. Per prima cosa, gli venne istintivo mettersi le mani intorno al collo e sul petto, per rassicurarsi riguardo l’effettiva capacità di respirare. Capì che era solo un sogno, per quanto coinvolgente al punto da persuaderlo del contrario. Ci vollero alcuni minuti perché si riprendesse e potesse riflettere in maniera ordinata. A tratti gli sembrava di sentire ancora quel blocco del respiro, ma ogni volta, toccandosi e sondando le proprie capacità, riusciva a placare l’ ansia. 
Si sedette, poggiato con la schiena agli scalini, sorseggiando acqua e tentando di raccogliere le energie per ricominciare. Guardò la discesa che prima o poi avrebbe dovuto compiere e si rese conto che stava guardando verso il basso per la prima volta. La vista era ipnotica. Il ripetersi della medesima struttura regolare per quattromilaottocentoventinove volte lo catturò. Solo in quel momento ebbe percezione dello spazio che aveva percorso, ma allo stesso tempo comprese che la strada davanti a sé era ben più lunga. Gli venne voglia di desistere, abbandonare l’impresa, a maggior ragione dopo aver visto scendere, estenuata, la signora atletica incontrata giorni prima. Allontanando dalla mente quel pensiero distruttivo, si rese conto di essere fiacco: tutta la tensione del sogno, benché avesse dormito a sufficienza, lo aveva svuotato. Decise di prendersi una mattinata libera, per ricaricarsi, percorrendo pochi scalini ogni tanto. 
Partì subito dopo pranzo, ma le gambe non lo assistettero come sperava. La respirazione non era fluida, forse l’altezza a cui si trovava cominciava a rendere l’aria troppo rarefatta e, inoltre, era una giornata più calda delle altre. Molto prima che il sole abbandonasse per qualche ora quella parte di terra, Michele Ventola si arrestò, stremato. Dopo essersi accasciato su due gradini a riposare, ebbe la mente un poco più lucida. Per la prima volta, il sudore lo copriva in quasi tutte le zone del corpo, ma doveva conservare l’acqua per sopravvivere, non sprecarla per rinfrescarsi. Mentre beveva, le mani tremavano dalla fatica e continuava a non respirare bene.
Frugò nello zaino per prendere il taccuino, ma si rese conto, appena lo ebbe estratto, di non aver contato gli scalini percorsi quel pomeriggio. Come poteva averlo dimenticato? Cosa ne sarebbe stato della sua impresa senza quei cinque, sei, settecento scalini a referto? Prese ad imprecare contro sé stesso e a darsi dell’idiota, consumando quel poco di energie avanzate. La frustrazione mutò in furia, al punto che tentò di gettare il taccuino a terra, ma questo gli scivolò dalla mano sudata e, senza poter intervenire, lo vide finire oltre la fiancata esterna della scala. Seguirono, ad un primo momento di incredulità, imprecazioni e ingiurie contro sé stesso. Di tutti gli improperi che conosceva, risparmiò forse due o tre dei peggiori, ma il suo sfogo fu inarrestabile. 
Esaurita ogni forza e smarrita la fiducia in sé stesso, cominciò a piangere. Sapeva di essersi cimentato in un’impresa titanica, come Prometeo contro gli dèi, e come lui, a costo di una punizione eterna, voleva avere successo. Il mito, però, è un racconto, ha un ruolo formativo, eziologico e anche fondativo, quello di Michele Ventola era il tentativo disperato di un uomo che cerca un senso laddove sa che troverà soltanto altri scalini. Fra quei pensieri, succube della loro malinconia, decise di infilarsi nel sacco a pelo e di tentare di farsi avvolgere dalle tenebre del sonno. 
Fu una notte senza sogni, né vi fu la sensazione da essi lasciata ad accoglierlo al risveglio. Ormai si stava abituando a non respirare in maniera corretta. Con l’usuale ritmo compassato, prese a salire gli scalini quando era giorno pieno. Il pomeriggio dovette fermarsi di nuovo, salendo ancora di poco.
I giorni successivi furono sempre peggiori. Le notti cominciarono a diventare tormentate; il sonno veniva interrotto da risvegli bruschi; la respirazione era sempre più difficile, e i capogiri frequenti, con conseguente aumento delle pause. 
In quattro giorni aveva messo insieme, forse, poco più di settecento scalini. Non sapeva più dove appuntarli, ma cercava di tenerli a mente, seppur con una certa insicurezza. In ogni momento della giornata si sentiva sfinito, fiacco, o stordito dai capogiri. Perché proseguire? Cosa rappresentava quella scala, se non la certezza di non poterla percorrere per intero? Cosa sperava di trovare in cima, ammesso che vi fosse una fine? 
Ormai non vedeva scendere, né tantomeno salire, altre persone. Non sapeva nemmeno se qualcuno si trovasse più avanti di lui. Le giornate erano nuvolose, ormai, non riusciva più a vedere cosa ci fosse al di là dello strato lattiginoso che gli stava intorno e lo avvolgeva. Ancor più fosca era la mente, di conseguenza la capacità di svolgere ragionamenti coerenti era ridotta al minimo e pensare troppo gli toglieva energie.
La mancanza di visibilità e lo stordimento lo stavano convincendo di trovarsi in una dimensione parallela, come se già avesse varcato le soglie della vita e stesse brancolando verso un aldilà opaco e sfumato. 
Una notte – aveva perso il conto dei giorni trascorsi – il cielo si mostrò terso e, finalmente, Michele Ventola potè ammirare la luna piena, come dal primo giorno aveva sperato. Gli occhi erano a malapena aperti, ma poteva distinguere le stelle più lucenti come se gli si trovassero davanti e le costellazioni si articolavano nelle loro strutture complesse, senza confondersi. Non vedeva un cielo così limpido da tempo. Mentre si appoggiava al fianco della scala, sempre più debole, sentì dentro di sé distendersi ogni frammento dell’anima. Gli parve che il cosmo intero lo avesse assorbito, per separarlo da ogni disperazione e condurlo col suo movimento nel silenzio infinito, a camminare seguendo l’andatura degli astri, con la stessa placidità che dal basso gli uomini percepiscono. La pace di quegli istanti gli fece dimenticare della propria esistenza e del tempo, solo il respiro, appesantito dallo stupore della fusione cosmica con l’universo, sembrava ancorarlo alla terra, benché fosse da essa lontanissimo. Le stelle si ingrandivano e si rimpicciolivano al ritmo del suo cuore; il cosmo intero si era plasmato in base al suo battito, rendendogli un turbamento che solo l’immensità di ciò che non può essere compreso è in grado di trasmettere. Si sentì trasecolare e, in men che non si dica, cominciò a sentire un formicolio percorrergli ogni fibra; i sensi si attenuarono ovattandosi, e, senza il tempo di rendersene conto, svenne.
Quando si svegliò, era ancora notte – ammesso che fosse la stessa – e nuove nuvole erano giunte a velare la visione del cielo. Domandò a sé stesso se quanto aveva percepito fosse reale, o se si trattasse solo di una finzione. Si rese conto di riuscire a stento a muoversi, mentre goccioline di sudore gli scendevano lungo le tempie. Rimase a terra. Il buio intorno era profondo, le nuvole non lasciavano attraversare alcun raggio di luce e si intuivano appena le forme dei gradini. Girò la testa e si volse verso la salita. Dal buio, intravide una figura che scendeva con passo lento e cadenzato. Strizzò gli occhi, ma non riuscì a raccapezzarsi, né tantomeno trovò la forza per sollevarsi. Uno scalino alla volta, la sagoma cominciò a definirsi e i dettagli poterono evincersi. La luce della luna descriveva a malapena un paio di baffi e, benché il resto della figura fosse vago, Michele Ventola capì che si trattava dell’uomo corpulento incontrato e sognato nei giorni precedenti. Non riuscì a chiedergli aiuto, la voce era bloccata in gola e di nuovo si sentì paralizzato in ogni parte del corpo, col respiro appena sufficiente a rimanere vigile. L’uomo gli si fece incontro, come già aveva immaginato nel sonno. Michele Ventola fu colto dal panico e non riusciva ad agire in alcun modo. L’uomo baffuto si sporse in avanti, fissandolo con tutto il viso e scendendo senza fretta, incombendo sul corpo immobile. Seguirono istanti di stasi, come se qualcuno avesse bloccato la scena, poi l’uomo baffuto ruppe il silenzio:
«Prendi fiato, ragazzo. Ho detto, prendi fiato».
La costrizione non si allentava, mentre ascoltava quelle parole portate via dal vento, quasi fossero destinate a disperdersi nell’aria e a risuonare altrove. Dell’estasi precedente non era rimasta traccia, mentre l’ansia della stretta aumentava. Sentì delle goccioline rigargli il volto e, quando una gli finì su un occhio, d’istinto lo strofinò per eliminare il prurito misto a solletico. Lo aprì e vide l’alba spuntare tra le nuvole rade all’orizzonte. Si toccò il corpo, capendo subito che poteva muoversi. Si sentì sollevato, ma l’intensificarsi della pioggia lo costrinse ad alzarsi e a cercare l’impermeabile per non bagnarsi. Una volta seduto, guardò oltre il fianco della scala e vide gli alberi non lontani da dove si trovava. Non capiva come fosse possibile: non vedeva figure distinguibili da giorni. Frugò nello zaino, poiché la pioggia si era infittita e necessitava di coprirsi. Con stupore, sentì il dorso rugoso del taccuino, era inconfondibile. Lo afferrò e lo estrasse, rimanendo a bocca aperta. Lo aprì e non trovò alcun appunto. Si sentì ancora più confuso. Com’era possibile? E l’uomo baffuto? E la fusione col cosmo? Tutto finto? Tutto un sogno? La sua mente elaborò queste domande in un baleno e si trovò invasa da innumerevoli dubbi. Non pensava più alla pioggia che gli batteva addosso e che inzuppava le pagine del taccuino. 
Il turbamento era troppo, e solo dopo qualche secondo si rese conto che alcune persone stavano salendo passandogli davanti, coperte da impermeabili a loro volta. Le guardò, ancora frastornato dal sonno e dall’angoscia. Non ci pensò su due volte: si alzò, vestì l’impermeabile, si mise lo zaino in spalla e si trasferì sul lato opposto della scala, cominciando a scendere con passo svelto. L’affanno lo colse, ma sapeva che si sarebbe trattato di poco, poi sarebbe corso verso la macchina per abbandonare quel luogo e quell’impresa assurda. Mentre regolava il fiato, una frase gli venne in mente, e la sentì rimbombare nella testa:
«Prendi fiato, ragazzo. Ho detto, prendi fiato».

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