Il lavoro di lei: la storia degli agentivi femminili

Il lavoro qui riportato riguarda la declinazione al femminile di professioni, titoli e cariche, non si è focalizzato tanto sugli aspetti linguistici, quanto sull’ideologia linguistica: si è scelto dunque di evidenziare e ricostruire storicamente le opinioni dei parlanti, linguisti e non, sugli agentivi femminili e anche l’uso che se ne è fatto dagli inizi del Novecento ad oggi tenendo conto dei fattori storici, sociali e culturali che determinano le scelte dei parlanti.

Alma Sabatini con la pubblicazione delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana(1986) fece emergere la questione degli agentivi femminili, ciò scaturì l’interesse dell’opinione pubblica e non mancò l’apporto di vari linguisti favorevoli alla mozione di genere, fra cui Francesco Sabatini, Tullio de Mauro, ma non sono mancate anche le voci di celebri studiosi contrati all’uso del femminile, come Umberto Eco. Più specificatamente Alma Sabatini proponeva la declinazione al femminile ma sconsigliava: il suffisso –essa, in quanto dispregiativo, e il modificatore donna anteposto al nome proponendo delle forme nuove come la studente e neologismi, come medica, che rispettano le regole morfologiche dell’italiano. Il dibattito si è esteso fino ad oggi con la sociolinguista Vera Gheno in “Femminili singolari”(2019) , dal quale sono stati tratti vari testi riportati all’interno del libro per poi essere collocati all’interno del dibattito attuale. Vera Gheno ha dimostrato come tutt’ora l’uso degli agentivi femminili è ancora incerto e talvolta demonizzatononostante la presenza di una maggiore quantità di materiale riguardante l’argomento, come ad esempio il sito dell’Accademia della Crusca. A questo punto ci si è chiesti perché i parlanti sono ancora avversi all’uso del femminile per i nomi di professione, forse perché per secoli sono stati connotati negativamente oppure perché non venivano usati affatto? Per rispondere a questa domanda sono stati consultati vari archivi di periodici e alcuni volumi del secolo scorso, come per esempio quello di “La Stampa”, dall’analisi dei frammenti dei vari testi sono emerse tre connotazioni nell’uso del femminile per i nomi di professione. Andando in ordine cronologico, durante i primi anni del Novecento il femminile veniva usato per indicare una straordinarietà, per esempio una deputata, oppure veniva usato per deridere una donna che voleva occupare una posizione socialmente predestinata all’uomo, infatti tramite le grammatiche e i dizionari si è visto come –essa a volte assume un’accezione ironica. È stato particolarmente significativo ai fini dell’analisi socioculturale svolta attorno all’uso degli agentivi femminili notare che durante il fascismo, periodo contrassegnato da una forte mentalità maschilista e androcentrica, c’era un uso frequente di forme iper-femminili, queste erano tese a separare nettamente la donna dall’uomo e a connotare l’eccezionalità di alcuni ruoli femminili, quasi la loro natura grottesca e fuori dall’ordinario. In un volume di epoca fascista intitolato La donna nella civiltà moderna di Valeria Benedetti del 1933, si possono notare diverse realizzazioni degli agentivi femminili, ne riportiamo un esempio esplicativo:

Pagina 168: Già nel 1890 troviamo 888 donne giornaliste […] 4555 medichesse e chirurghe […]

Questa pagina parla dell’emancipazione femminile negli Stati Uniti, processo nel quale le donne erano considerate delle pioniere, perché l’Italia era indietro rispetto agli Stati Uniti in fatto di emancipazione. Per quanto riguarda di termini si può notare la realizzazione del femminile tramite il suffisso –essa, come già detto attestato nelle grammatiche di fine Ottocento, ma presente anche in Grammatica della lingua italiana di Edmondo Caioli (1938). Invece per “chirurghe” non si è optato per l’aggiunta del suffisso –essa. Non sono stati trovati dei riferimenti nelle grammatiche novecentesche per quanto riguarda “chirurghe”, ma già dal 1878 nella rivista “Nuova antologia” compare “donne chirurghe”, nel caso del testo sopra citato è stato eliminato il modificatore donna, invece usato per “donne giornaliste”. In questo contesto la declinazione degli agentivi al femminile è stata usata perché il testo parlava delle donne.

Un esempio dell’uso del suffisso -essa con connotazione ironica può essere il seguente articolo scritto dopo la Seconda guerra mondiale:

“La Stampa”: 22/06/1948, [titolo] L’esordio delle deputatesse di Monelli P.:Questa Camera alle sue deputate fa poca festa to forse così rivendicano i deputati maschi, che troppo spesso, descrivendo le sedute inaugurali, i cronisti trascuravano i loro atteggiamenti per descrivere le vesti e le chiome delle giovani colleghe.

Nel titolo troviamo la forma “deputatessa”, molto probabilmente a scopo ironico o dispregiativo da come si può notare dal contenuto dell’articolo che s’incentra sulle caratteristiche delle deputate. Nel Devoto-Oli 1971 c’è scritto che deputatessa suona “ostile”.

Dalla Seconda guerra mondiale agli anni Settanta l’uso del femminile inizia man mano a venir meno, le donne addirittura sembrano rifiutare l’uso del femminile perché le fa sentire screditate, data la valenza dispregiativa che spesso assumeva. Invece dagli anni Ottanta ai giorni nostri si è iniziato a rivendicare l’uso del femminile, perché le donne hanno cominciato ad essere presenti nel mondo del lavoro, non sono più un’eccezione e perciò alcune vogliono essere designate al femminile per non essere oscurate e anche perché vogliono evidenziare attraverso il linguaggio un cambiamento sociale che è avvenuto e che sta ancora progredendo. D’altra parte molti parlanti sono ancora contrari all’uso del femminile, fra cui molte professioniste e soprattutto alcune politiche, per questo la questione sul sessismo nella lingua italiana è ancora attuale, così come la discriminazione di genere. In merito alla contrarietà alla mozione di genere per gli agentivi riportiamo un post Facebook riportato in “Femminili singolari”:

Serve a marcare la differenza e disuguaglianza. Forzature inutili. Se al posto di una “a” badassimo ad altro, forse, questa inutile sparirebbe. Negli asili insegnano a dare gli auguri alle bambine e regalare mimose, rendendoci diverse. Di una diversità non sana.

Vera Gheno risponde a questo post affermando che:

“Dover essere uguali per poter essere pari significa rinunciare a qualcosa: alla nostra diversità di donne rispetto agli uomini. La diversità è bella; personalmente, la trovo un valore da coltivare e preservare”.

Di conseguenza perché non applicare la mozione di genere per designare le professioniste, Gheno non pensa che la femminilità sia una realtà da oscurare e inoltre perché accettiamo i femminili per segretaria e casalinga? Perché è una questione sociale piuttosto che grammaticale.

Articolo di critica a cura di Marta Merluzzi

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