È l’attimo che ti frega perché è nell’attimo che è racchiuso il guizzo, la decisione, l’istinto. Non è decifrabile, non è quantificabile, non è un secondo né un millesimo, è quel tempo-non-tempo che non esisteva fino all’attimo prima, anch’esso ignorato e sconosciuto. Serve però prendere una decisione ed era proprio in quell’attimo che lui si trovava quel pomeriggio alle 17:44, ancora clinicamente vivo ma con poche, davvero poche probabilità di arrivare alle 17:45.
Tutta l’area tra Piazza Cavour, Via Crescenzio e Piazza Adriana era deserta o piuttosto sarebbe stato meglio dire che era stata volontariamente lasciata deserta. Quella desolazione poi si era estesa fino a Piazza Risorgimento e poi verso il Palazzaccio, dalla parte opposta. Un paesaggio alieno se si considera che quella è sempre stata una delle zone più affollate della Capitale. Un altro pianeta.
La polizia aveva lasciato campo libero, così da poter tenere tutto più facilmente sotto controllo. Si vociferava che ci sarebbero stati i black block, che sarebbero girati oggetti che non avrebbero dovuto esserci, che i rappresentanti delegati dei cortei pacificisti fossero stati trattenuti e che si sarebbero presentati solo i facinorosi, le fazioni violente. Bombace pensava che non doveva essere proprio tutto così e che fosse la consueta, noiosa propaganda che ci si aspettava, c’era lui in fondo, che non era un violento e Alberto, del Comitato Alter Vox, era a pochi metri di distanza ed eranocompletamente disarmati, se non si considerava pericoloso un giornale autoprodotto color rosa che incitava all’orgoglio omosessuale.
Mentre lui distribuiva copie e respingeva avances, che reindirizzava verso Alberto (che lo avrebbe sicuramente ringraziato se mai ne avesse avuto l’occasione), si diressero proprio su Piazza Adrianaverso Via del Triboniano, costeggiando il Parco della Mole Adriana, i famosi giardini di Castel Sant’Angelo. Il fiume di persone così reboante e festoso – eppure con una tensione sottopelle a tirare gli angoli dei sorrisi perché il clima era singolare, il cielo di primo luglio troppo nuvoloso e un’aria lattiginosa che non restituiva una piena tranquillità – si era incanalato verso destra, entrando in Piazza Cavour e inondandola quasi completamente, travolgendo con passi silenziosi le aiuole poste al centro e le scalinate del retro del Palazzo di Giustizia, fino quasi a raggiungere il cinema Atlantic situato sul lato opposto.
Due anni prima, con enorme ritardo generazionale e proprio all’Adriano, il Bombace aveva visto per la prima volta l’Esorcista, in versione integrale e restaurato, con dolby surround. Ne serbavaancora un ricordo paralizzante e ancora provava un brivido guardando la Chiesa Valdese posta proprio a pochi metri dall’ingresso del cinema. All’epoca infatti, uscendo e trovandosela davanti, gli gelò il sangue per quella che gli parve una tremenda somiglianza con la chiesa presente nel film.Lo interpretò come un segno, un cattivo presagio, senza una ragione valida. Di solito i presagi sono elementi magici quindi hanno poco a che fare con la ragione, dunque si lasciò inconsciamentepervadere dal senso di insofferenza e turbamento incurante della folla che lo stava trascinando proprio verso la tanto odiata chiesa.
Se l’incedere dei suoi compagni era lieve e sommesso, quello che si percepiva dalla direzione dei Musei Vaticani e Piazza Risorgimento non lo era affatto. Passi pesanti, trascinati e infuocati, un esercito in piena marcia, una marcia di guerra e questo era chiaro. Una falange gremita e scura stava riempiendo Via Crescenzio e si stava avvicinando sempre di più, con andatura decisa e soprattutto con un obiettivo lampante: conquistare la piazza. Ma la piazza era già stata occupata. Le previsioni non erano buone. Sbucavano tizi vestiti di nero da tutti gli angoli – che non erano i black, questi erano più imprevedibili – ragazzini con volto coperto, da bandane e per lo più e da caschi da motociclista, giovani e meno giovani, con le mani scoperte a rivelare qualche tatuaggio tribale e sguardi impietosi. “Sono tutti pariolini” si ripeteva in testa Bombace, tenendo d’occhio quelli con i caschi, che si sa, in quei frangenti sono quelli più pericolosi. Però erano tanti e continuavano a sbucare dalle vie limitrofe e la schiera si era gonfiata sempre di più, chiudendosi a testuggine come se avessero saputo bene cosa fare e cosa sarebbe successo, mentre i poveri ignari della comitiva a malapena si erano accorti di quanto stesse accadendo.
In lontananza, molto dietro il gruppo in avanzamento, quasi impercettibile, un lampo. Blu. Cosa staranno facendo là in fondo se questi sono qua davanti? Poi il lampo divenne idea, intuizione, tremore. Le divise avevano già cominciato a scendere dalle vie contigue rimaste sgombre e dunque veniva giù dritti per dritti da quelle tre spade che si conficcavano nella piazza che erano Via Tacito, Via Cicerone e Via Lucrezio Caro. Tre massicce colonne di caschi celesti e scudi opalescenti si piantarono nei punti strategici, bloccando di fatto quasi ogni via di fuga. Erano stretti in una morsa che non avrebbe avuto pietà per nessuno perché se fosse scoppiato il caos – e la sensazione era esattamente quella – ne avrebbero fatto le spese i più deboli e gli indifesi, le famiglie e i bambini e insomma tutti quelli meno preparati ad affrontare uno scontro, figuriamoci una guerriglia urbana.
Non passò molto che i manifestanti si accorsero di essere ostaggi. In realtà nulla era passato inosservato all’occhio vigile del piccolo drappello di esperti – gli organizzatori – gente navigata che sapeva che mantenere la calma è il primo comandamento, così da non perdere la testa e ancor prima evitare di spaventare tutti gli altri partecipanti. Una folla spaventata è pericolosa. Veder chiudere tutte le vie d’uscita è però – e questo lo sanno proprio tutti – un campanello d’allarme che non si può e non si deve ignorare e quindi anche quelli con i nervi più saldi cominciarono a temere il peggio e il peggio era non sapere cosa stesse accadendo. Nulla aveva fatto pensare, fino a quel momento, che qualcosa potesse andare storto. Da dove erano mai usciti fuori quei selvaggi? E come sarebbe mai stato possibile aver mobilitato un tale dispiegamento di forze senza averne avuto notizia prima? Qualcosa non quadrava. Loro, i buoni, non quadravano in quella piazza invece così quadrata. Ed ecco la soluzione: c’era un angolo ancora scoperto e i buoni delle storie finiscono quasi sempre per trovare la scappatoia. Un primo folto capannello, quello più vicino a Via Vittorio Colonna, si accorse che proprio quell’angolo era ancora sguarnito. Le guardie – chissà perché poi – stavano ancora attraversando Ponte Cavour e quindi la via sarebbe stata libera per almeno dieci minuti, considerando le condizioni di avanzamento che quelli potevano permettersi. Dieci minuti preziosi. Ma la calca stava già montando.
L’orda furiosa cominciò a urlare e lanciare bottiglie in mezzo alla folla di manifestanti, generando il panico. Tutti cercavano un riparo mentre con le braccia si coprivano la testa, correndo per rifugiarsidentro qualche portone lasciato aperto o citofonando disperatamente per farsi aprire. La torma di beceri non accennava a placarsi e anzi, eccitata dal terrore scatenato, si lanciò verso il centro, buttando a terra chiunque incontrasse, in direzione delle truppe avversarie dei poliziotti in assetto.Bastoni si infrangevano sugli scudi, manganelli crollavano sulle teste, sangue, vetri rotti, nasi rotti e sanguinanti, calpestamenti, urla. E poi gli altri, quelli che non c’entravano nulla. Anche loro grida, pianti di donne e bambini, qualcuno fuori controllo che si era lanciato contro la marea nera, finendo bastonato o con la testa spaccata da una bottigliata.
Gli Alter Vox cercarono di riprendere la situazione in pugno con Alberto, Bombace e gli altri che cominciavano a radunare quante più persone possibili, persino raccogliendole da terra e trascinandole fino a Vittorio Colonna, ché le guardie sarebbero arrivate presto e bisognava sbrigarsi a scappare per Via Ulpiano, prendere poi Ponte Umberto I e scappare verso Lungotevere Tor di Nona per tornarsene tutti a casa, in salvo. Neanche lo sapevano quelli che si chiamava Tor di Nonae che l’altro era Marzio e che lì proprio non ci dovevano girare altrimenti sarebbero andati proprio in braccio alla polizia e quindi gli avrebbero detto dritti fino al Lungotevere e poi andate a destra! Ma poco male, l’importante era portare a casa l’obiettivo, tirarli fuori da quel casino. Ma la folla si muoveva come l’animale feroce e impaurito che è, calpestando e travolgendo per sua natura. Lamanifestazione sarà stata pacifica ma gli umani non lo sono mai. È nella loro natura. E se nella natura del singolo c’è violenza, figuriamoci quando si riunisce. Ognuno pensa a sé stesso.
Molti scapparono, pochi restarono o comunque non riuscirono e abbandonarono le speranze. Via Ulpiano era perduta, la polizia l’aveva presa. I fuggitivi virarono velocemente verso Via Tribonianoe Piazza Adriana. Da Triboniano l’unica alternativa sembrava Ponte Sant’Angelo, che si poteva raggiungere passando per i giardinetti del Carosello e dal quale poi si sarebbe preso sempre il Lungotevere che ancora – gridavano tutti – era libero da una parte.
La compagnia non se lo fece ripetere e forte di una rinnovata speranza e con le ultime forze, cominciò a correre lungo lo stradone completamente libero fino ai giardinetti ombrosi, sfiorando la giostra del Carosello rosso sgargiante – che i bambini ballonzolanti in braccio alle mamme guardavano curiosi – approdando alla riva del Tevere e costeggiando il corso d’acqua per arrivare, infine, al tanto agognato Ponte Sant’Angelo. Il Mausoleo di Adriano sembrava in quel momento un oracolo che accogliesse i pellegrini dopo un lungo cammino e tutti in effetti si sbracciarono lacrimanti come in un’estasi mistica forse più accomunabile a un calo di tensione. Bombace non provò quella sensazione salvifica e d’altro canto voleva tenere ben stretta tutta la tensione necessaria fino alla fine. Inoltre quel luogo non gli era mai piaciuto: sin dall’adolescenza, guardando gli angeli del ponte, gli sembrava potessero lanciarglisi addosso in qualunque momento per trattenerlo, mentre l’Arcangelo Michele sarebbe disceso direttamente dalle sommità della costruzione al suon di tromba divina, a spada tratta, per infilzarlo. Michele così bello, bronzeo, sanguinario e implacabile.
I neri gli erano dietro. Quei debosciati armati a festa non avevano intenzione di demordere ed erano usciti vivi – almeno in parte – dallo scontro con la polizia. Ora non nascondevano più i lunghi bastoni ma ne facevano sfoggio e li agitavano in alto e in avanti, in direzione dei manifestanti indifesi. Avevano abbandonato lo scontro con chi poteva tenergli testa e stavano ripiegando verso chi non avrebbe avuto possibilità di difesa alcuna. Pochi del gruppo dei fuggitivi avevano notato che gli altri indossavano quasi tutti anche delle sacche militari vintage, di quelle che andavano molto nei primi anni ’90 e che poco avevano a che fare il loro tipico abbigliamento. Ancora una volta qualcosa non quadrava nella storia e anche qui la forma non sarà una scelta casuale.
La mandria però si era fermata davanti al Mausoleo, non aveva osato spingersi troppo oltre. Il Ponte era un limite, un vincolo. Dopo quello si poteva trovare la civiltà, girovagavano i turisti, c’era la normalità, forse anche la municipale da qualche parte. Al contrario, la compagnia degli Alter Vox si era già spinta più avanti, oltre metà del ponte, dunque l’impresa era considerata ormai compiuta, pur dovendo ancora aspettare chi era rimasto pochi metri indietro e chi sarebbe arrivato con le ultime energie nei minuti a seguire. Fu Alberto a scardinare quella semplice e ben organizzata meccanica conclusiva, a rovinare – insomma – il momento. Insistendo per portare il sig. Piero sottobraccio, che invece sosteneva di farcela benissimo da solo, rimase indietro, piantato sotto all’angelo con il cartiglio proprio dal vecchio che se ne era andato sbuffando più per l’affronto reiterato del giovane che per la fatica.
La bottiglia fece una parabola, Bombace la seguì inerme e quella crollò sulla testa di Alberto. Un fiotto di sangue zampillò per qualche centimetro in aria e subito lo squarcio venne chiuso dalle mani di entrambi. Si sfilò la maglietta con un gesto automatico e cominciò a tamponare e premere la ferita del compagno colpito. Controllò l’occhio destro e lo trovò ancora integro, seppur in pessime condizioni. Alberto non svenne ma crollò sulle gambe, forse per lo spavento o per la perdita di sangue ma comunque non stava in piedi e non si sarebbe rialzato se non con un primo soccorso. Bombace si guardò attorno cercando disperatamente qualcuno ma tutti erano fuggiti via. Si risolse nel cercare comunque aiuto o quantomeno un ambulante con una bottiglietta d’acqua per sciacquare la ferita. Si allontanò quindi, sempre con la testa girata verso l’amico e allo stesso tempo senza perdere di vista il branco, immobilizzato da qualche provvidenziale incantesimo – pur sghignazzante – fermo, che non muoveva un solo passo in avanti, in attesa.
Non fece a tempo a girarsi e a fare sei metri che quel ponte maledetto costellato d’angeli decise di metterlo alla prova, subito, in quel momento. Ce l’aveva davvero avuta sempre con lui, l’aveva sempre guardato con sospetto – e lui aveva sempre percepito, aveva tradotto bene quel sentimento e ricambiato in qualche maniera – ma adesso quegli sguardi vitrei gli indicavano esattamente l’intenzione. Niente soccorsi per Alberto, non era ancora tempo per scapparsene a casa dal Lungotevere e niente bangladesh con la mezza naturale a 3,00 euro.
Quella piccoletta era ferma sul selciato del ponte, lo sguardo fisso in avanti e visibilmente impaurita da quanto appena accaduto. La violenza non ha bisogno d’esser elaborata né processata, è istintiva eviene compresa all’istante. La violenza è un messaggio immediato e universale, è chiara e inequivocabile, anche per una bimba di quattro anni. Lui, la dolce Silvia, l’aveva vista nel corteo e sentita chiamare dalla mamma poco prima, durante la corsa. L’adorabile Silvia, che aveva appena scoperto qualcosa di nuovo e aberrante. Era spaventata. Bombace si avvicinò rallentando i movimenti come avvicinando una volpe tremante appena presa in una tagliola: sapeva che non sarebbe potuta scappare ma al primo sussulto avrebbe comunque tentato la fuga, rischiando di ferirsi ancora più gravemente. Egli non avrebbe voluto ulteriormente agitarla, però non aveva tempo. Le arrivò vicino in qualche modo, sorridendole come se nulla fosse accaduto, si abbassò e si mise sulle ginocchia, le prese le minute spalle tra le mani strofinandogliele come a scaldarla – una rapida coccola da padre che non era e che avrebbe voluto essere – e poi l’abbracciò. La allontano un momento per guardarla, sia per capire se quel gesto avesse sortito effetto che per il solo desiderio di vedere un volto meno spaventato. Quella piccina ora aveva i lineamenti più distesi, gli occhi grandi e castani e dolci sgranati, un po’ inumiditi. Le sopracciglia davano allo sguardo quell’espressione abbattuta ma sollevata allo stesso tempo e la bocca accennava un infantile corruccio, quello che precede il pianto, ma non pianse, perché Silvia sarebbe stata brava quel giorno.
In quel lungo attimo fuori dal tempo ancora teneva la minuscola Silvia chiusa tra le sue mani come parentesi tonde sulle piccole spalle, ma si destò bruscamente da quel sogno perché dei poliziotti avevano cominciato a chiamarlo a gran voce. E vide quella decina di maschere blu e celesti insieme ai ragazzi Alter Vox che gli stavano facendo cenno di alzarsi, riuniti a capo del ponte, sotto le statue di San Pietro e San Paolo, dove in genere i turisti si bloccano perché non capiscono dove devono andare e se sia finita la città o il mondo o se ci sia ancora qualcosa da vedere.
Bello vederli così ma ancora, qualcosa non quadrava. Si voltò verso quei mostri e quelli stavano ravanando dentro le sacche militari. Erano avanzati di qualche metro e sguazzavano nella pozza di sangue lasciata dal suo amico fraterno come in un primitivo rito sincretico. Alberto invece si era tragicamente trascinato fino sotto all’angelo con la veste e i dadi e mezzo appoggiato su un fianco, guardava verso il compagno e con il volto trasfigurato dal terrore gli stava gridando, isterico, di scappare, di portare via la bambina, di correre di correre subito, vattene! e con il dorso della mano scacciava l’aria come se stesse spingendo fisicamente l’amico stesso. Quelli tirarono fuori – rimediati chissà dove ma poi a Roma non è così difficile – dei sampietrini. Robusti, pesanti, grossi, grigi, dalla forma tradizionale e inequivocabile. Sampietrini. Che sono peggio dei sassi.
“Siete pronti?” questo solo sentì Bombace. Poi silenzio.
Tornò a guardare in avanti concentrandosi sulla situazione, valutando e riflettendo: che la sua maglietta preferita, quella dei Cranberries e del loro meraviglioso primo album, portasse oggi più fortuna ad Alberto di quanta ne avesse mai portata a lui; la scelta di correre, in ogni altra situazione, sarebbe stata forse la migliore – strategicamente parlando – ma non in quel momento. Troppi rischi, anche per la piccola. Ecco, Silvia: non si muoveva. La paura non l’aveva abbandonata, era paralizzata. Avrebbe fatto bene a forzarla e trascinarla con sé? Non c’era tempo per pensare, non c’era tempo per fare nulla. Non importava, doveva proteggerla e ce l’avrebbe senz’altro fatta, anche se fosse restata immobile. Certo, senza maglietta avrebbe fatto ancora più male, ma ne sarebbero usciti sani e salvi. Le guardie e quei bastardi urlavano all’unisono, ognuno il suo coro da battaglia.
Ma chi pensavano di essere tutti quelli? Con chi credevano di avere a che fare? Lo sapevano a chi stavano urlando con così tanta leggerezza? Dieci divise da una parte a fare null’altro che il loro turno e dall’altra un manipolo di figli di papà con troppo tempo a disposizione.
Stava per arrivare la sassaiola, la Pioggia di San Pietro. Bombace guardò in direzione dei meteoriti, anche se solo per un attimo. Nel suo immaginario sarebbero stati come il nuvolo delle frecce sui campi di battaglia di Crecy e di Agincourt, ma se ne sarebbe dovuto sincerare per capire come proteggere la ragazzina al meglio. Vide la pioggia che cominciò a venir giù e venne forte peggio di come lui se la sarebbe mai aspettata. Oscurò il cielo.
Aspettò che arrivasse tutto insieme, frecce, sassi, sampietrini, San Pietro in persona. Non l’avrebbero abbattuto, non avrebbero oltrepassato quello scudo. Nessuno avrebbe potuto fare del male alla piccola. Avrebbero potuto vedere un uomo battersi per qualcosa, sacrificarsi e forsemorire. Ma non avrebbero potuto fare nient’altro.
Aveva visto abbastanza. Si girò verso Silvia e la cinse con il braccio sinistro intorno alla vita orizzontalmente e con il destro, verticalmente, la strinse a sé afferrandole la testa e premendola verso il proprio petto. Incastonò la bimba nel suo corpo. Le sussurrò qualcosa. Bombace chiuse gli occhi e indurì la schiena che divenne una corazza.
E venne la pioggia.
Racconto di Nicola Argenti
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