Una serie di riflessioni (tanto retoriche quanto non richieste) sull’amore
Negli ultimi mesi, mi è capitato di interrogarmi sull’amore, da intendersi come reciprocità del rapporto di coppia. Ho pensato, quindi, di raccogliere le mie riflessioni in queste pagine, cercando di comprendere come nasca questo moto di reciprocità, per poi proseguire in una seconda dove si legge della sua fine, come, del resto, accade per tutte le cose. Dire dell’amore non è mai un’impresa facile, innanzitutto perché si tratta di un’esperienza inconsistente unica, che si plasma di volta in volta, in un continuo mutare che porta a esplorare mondi e orizzonti sempre nuovi. Tuttavia, proprio questo suo essere sfuggente, si cercherà di indagarne la natura inconsistente con un approccio più possibile pragmatico, nella speranza di non esser caduti nella trappola della retorica, sempre dietro l’angolo quando si affrontano temi così delicati. Benché abbia cercato di mantenere l’obbiettività quanto più possibile, è inevitabile che in queste pagine si sia riversata una parte consistente della mia esperienza personale. Per questo, dedico queste parole alle tre persone che, tra una birretta e una chiacchierata in terrazza, le hanno ispirate, Giulia, Fanny e Simone-Enzo, con l’augurio che riescano a trovare quel tempo essenziale per costruir-si e, quando e se necessario, decostruir-si, nella reciprocità di un amore che non smette mai di donarsi nelle piccole cose del quotidiano.
Trieste, 9.02.21
Lorenzo Valerio
Scoprirsi reciprocità
Amore in sé non significa nulla. È solo una parola estremamente generale che indica molte cose che, nel corso della storia della produzione artistica e non, ha assunto molti significati, dall’accezione sentimentale che designa un sentimento di forte affezione nei confronti di un’altra persona o un oggetto, sino a sfumature che giungono alla politica, come ad esempio l’attuale, tanto in voga nelle narrazioni populiste, amor per la Patria. Ma in sé amore, si ribadisce, non vuol dire nulla. Comincia ad aver un senso il parlare di amore di o per qualcosa o qualcuno, dove a fare la differenza sono proprio quel qualcuno o quel qualcosa – d’altronde, è proprio in virtù di questa non-definizione che costruiamo le gerarchie valutative di ciò che amiamo.
Ma se amore è sempre amore di qualcosa, allora che ne è di quello che decantano poeti, scrittori e registi? Che cos’è l’amore? Anche se si è detto che non significa nulla di per sé, tuttavia rimane comunque una parola che porta seco sempre una significazione. Non ci si concentri, per ora, su quest’ultima, bensì sul fatto che “amore” sia una parola. Essendo logos, essa produce qualcosa, un’immagine o una sensazione, ma proprio perché questo prodotto è inconsistente, si può azzardare che essa non-produce davvero qualcosa, restituendo solamente un legame tra il noi che la pronunciamo e il noi stesso del passato che abbiamo pensato di dominarla. Ciò significa non che non abbiamo mai provato amore, ma che credevamo ci fosse amore in ciò che in un dato momento stavamo provando. Dunque, bisogna correggere la domanda di prima, chiedendoci non “cosa sia l’amore?”, bensì “C’è stato amore?” – che per estenzione diviene “c’è amore?”.
Ora, sebbene il discorso sembri prendere quote metafisiche, in realtà si rimane nel concreto più immediato, proprio perché se esiste una risposta a questa domanda, è da ricercarsi nel campo dell’esperienza. Ma non si tratta di pura esperienza sensibile: anzi si parla di esperienza inconsistente, di una non-esperienza, che si consuma sul piano dell’emotività e dell’emozionalità, nell’orizzonte del ricordo che sfuma nel tempo e che cerchiamo sistematicamente di intrattenere. C’è il rischio reale che quel ricordo divenga un feticcio, un freno, un ostacolo al nostro andare avanti. Ma per quello c’è tempo, sempre. Semmai, non c’è tempo per l’amore che, fugace, riesce sempre a sfuggire al presente, ripresentandosi solo dopo, con le sembianze di un volto o di una foto o di una canzone che ci riporta indietro. E non c’è scampo per nessuno: non esiste un modo per fuggire dai ricordi, sarebbe come fuggire da sé stessi. Dunque, l’amore non c’è nell’ora presente, ma si palesa solo dopo, dove con “palesarsi” si indica l’operazione di razionalizzazione propria di ogni soggetto.
La domanda dunque sembra perdere di oggettività, dal momento che non è possibile pensare a una risposta universale per “C’è amore?”. Proprio perché è qualcosa che, se c’è, è nei ricordi, è intimo e, in un certo qual modo, segreto, nel senso che non deve manifestarsi se non a noi stessi proprio mediante il ricordo. Ma come capire se ciò che si è provato è stato davvero amore? Brunori Sas, cantautore italiano contemporaneo, ammonisce di «non confondere l’amore e l’innamoramento, / che oramai non è più tempo» (Brunori Sas, Per due come noi, dall’album Cip!, Italia 2019). Il cantautore calabrese sembra voler confidare, ancora, sul piano esperienziale per operare questa distinzione. «Che oramai non è più tempo»: in qualche modo, ci sta dicendo che l’innamoramento è qualcosa di più ingenuo, acerbo, proprio di un’adolescenza che, come tutte le cose, alla fine è destinato a finire per lasciar posto alla consapevolezza e alla maturità, che appunto diviene l’età dell’amore. Ma Brunori prosegue, fornendoci, in chiusura del testo, anche un’altra immagine: «perché ci vuole passione / dopo vent’anni a dirsi ancora di sì / e stai tranquilla, sono sempre qui / a stringerti la mano. / Ti amo». Un amore consapevole e maturo, forse anche un po’ stanco e provato, che però non si consuma se non nel cambiamento. E c’è passione in questo, forse quella stessa passione che anima il corpo degli adolescenti, che poi è la stessa che nell’Inferno ardeva le anime di Paolo e Francesca che dirà «Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona» (Alighieri, Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto V, vv. 103-105).
Dunque, è restituita l’immagine (e non la definizione) di amore come qualcosa che necessita di passione, da intendersi qui con la duplice significazione sia di piacere carnale che di dedizione; allora è verificata anche l’iniziale dicitura di amore come logos, quindi come ponte e legame. Pertanto, amore assume un significato vero solo nella sfaccettatura riflessiva – che però non si piega solo sul sé, ma sul noi – diventando, così amarsi. Così facendo, tutti le declinazioni infinite che qualificano l’amare dovrebbero flettersi nella reciprocità per assumere un significato vero, reale, in una narrazione tanto nuova, quanto vecchia. Ma tutto ciò necessita di tempo, senza il quale, non sarebbe possibile costruire nulla. Se amore significa costruire, e il tutto deve essere piegato sul riflessivo affinché abbia significato, allora siamo giustificati nel dire che amore è costruir-si, nel doppio piano sia individuale che plurale. Ciò implica un’idea di progettualità che non vuole neutralizzare il principio di spontaneità che, comunque, appartiene sempre all’amore. Ma si tratta di un amore ancora acerbo, che spesso si confonde con l’attrazione fisica propria del primo approccio che è ancora troppo impacciato per potersi chiamare seduzione. Dunque, la spontaneità diviene sinonimo di imprevedibilità della non-scelta, che si dispiega nel “perché proprio lui/lei?”, nella beffarda tempistica che pone sistematicamente davanti al momento sbagliato dell’altra persona. Ma del cinismo che tanto piace e, talvolta, fa sorridere gli altri in battutine che di comico non hanno nulla, non può che restare solo l’amaro. Quindi, tanto vale provarci di nuovo, aprirsi alla possibilità di essere di nuovo fragili con qualcuno, cercando di non tacere emozioni e sensazioni che, con il tempo, si riescono anche a dimenticare, celandole in un oblio che sarebbe dovuto rimanere tale, se solo non si avesse incontrato lui/lei. Dunque si rigenera ciò che si riteneva dormiente, superato e, in un certo qual modo, futile, ridestando in noi un desiderio che va al di là della corporeità, che supera anche le componenti sentimentali ed emozionali, per ridursi a una semplice esigenza di esser-ci, per lui/lei, o anche solo per noi stessi. Al silenzio succede sempre il rumore, così come alla notte sopraggiunge sempre il sole: ma non è di luce che si ha bisogno, semmai di silenzi, silenzi taciuti a lungo che solo ora sentono la necessità di essere interrotti.
Dunque, è ancora nella notte, nel buio e nell’indefinito che si consumano quegli istanti così desiderosi di esser donati, che si snodano i sussurri e le intimità del non-dire, che si cela l’amore giovanile, inconsapevole, troppo acerbo e impacciato. E solo in questo indefinito, in un alternarsi di nascondimento e disvelamento, che sboccia la passione dei due amanti, che ora non possono tirarsi indietro e sentono una frenesia che prude nelle mani, come se avessero vissuto tutta la loro vita proiettata sul quel momento, e quando, finalmente c’è il primo sfiorarsi, ecco che tutto finisce e tutto ricomincia. Non c’è stato mai momento più bello, ma anche momento più triste, in un istante che dura l’eterno. C’è bellezza, nel guardarsi e nel toccarsi, desiderio di esplorazione, curiosità, volontà di scoprire, che è uno scoprirsi, mettendo a nudo non solo il corpo, ma l’anima, in un metter-si in gioco continuo che, poi, è proprio l’essenza della reciprocità.
Una reciprocità che si manifesta nel bacio, che, in un certo senso, è non-essere che c’è per eccellenza: come si potrebbe dare qualcosa che è possibile solo se si riceve? Un bacio è l’emblema di ciò che c’è pur non essendoci, è ciò che non ha bisogno di parole, è autenticità che si condensa nel rispetto reciproco, un simbolo che pone una persona davanti a tutta la sua impotenza, perché non c’è controllo di niente se non nel voler esser-ci. Non c’è creazione, semmai trasformazione: due sconosciuti non lo sono più, e per un momento, un certo momento, sembra che si conoscano da sempre. C’è un’intesa mai provata, solo ricordata, o magari letta, ma che si palesa per la prima volta; un’intesa che non deve restituire nulla, se non la retorica di queste righe. Ma dell’amore giovanile, lo dice anche Aristotele, non resta che cenere scaturita da un fuoco passionale che si esaurisce troppo presto (Aristotele, Etica nicomachea, Libro IX). Dunque, che differenza c’è nell’amore duraturo, quello della maturità? Amore allora è ancora altro, perché è riduttivo dirne che è solo passione corporea e curiosità. Il corpo non può mai essere la sola fonte di amore, perciò è da cercarsi nella consistenza dell’esserci, nel dialogo, nella dedizione reciproca. Ma soprattutto nella costanza e nella perseveranza che si cela nel nonostante tutto – che poi sono elementi propri di ogni rapporto sia giovanile che maturo. Ma non è di solo rapporti che si parla. Quindi, se si tiene conto di tutto ciò, ci è restituita una definizione di amore come tempo che si dà, nella doppia accezione di essere donato e di esserci del tempo stesso.
Allora non è solamente tra due amanti che si consuma l’amore, anzi, si estende a tutto ciò a cui abbiamo dato tempo e dedizione. Sembra che sia valido il discorso che Derrida porta avanti nella sua descrizione di dono (Derrida, Jacques, Donner le temps, Editionnes Galilée, Parigi 1991), dove a fare la differenza è l’inconsapevolezza di ciò che si sta donando; così l’amore è vero solo quando inconsapevole, obliato, perché solo così può essere davvero gratuito, può essere davvero un dono. Dunque, l’amore sembra associarsi al motivo della donazione, nella doppia accezione di dare e ricevere, e si esplica nella sua ambivalenza di essere inconsistente per definizione ma al contempo anche una somma di piccoli gesti per l’altro.
Quindi una natura ambigua che si consuma in una dialettica tra essere e non essere, tra esperienza ed emozionalità, tra detto e non detto, in un gioco che dà un senso. Non c’è nobiltà in questo donare, bensì il suo contrario, l’umano, nella sua più estrema autenticità di fragilità. Dunque cosa resta? C’è amore? Nonostante tutto, sì. Ma è nella vulnerabilità affidata all’altro, il che per estensione diventa fiducia. E cosa c’è di più inconsistente di un atto di fede, che però suona più come una speranza, restituendoci solo un motivo per continuare a credere che ci sia una possibilità. Dunque, benché siamo sempre dinnanzi a una definizione sfuggevole e necessitiamo di mettere un punto, non possiamo che concludere come si era in principio, solo che questa volta l’interrogativo si riflette su noi stessi, ancora una volta: c’è amore per noi? Parafrasando una celebre battuta di Bruce Willis in Armageddon (Bay, Michael, USA 1998): «Posso assicurarti di sì, anche perché se non è così, siamo fottuti!».
Il reciproco delle piccole cose – Parte 2
Trieste, 8.12.20
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